I
petali dei fiori iniziavano a sparpagliarsi per la lapide cenerina,
mentre il placido sole del pomeriggio abbandonava assonnato il cielo
ormai plumbeo e intriso dalle prime venature del crepuscolo imminente.
Se ne
stava a gambe incrociate davanti alla tomba; persino il suo respiro,
che fuoriusciva dalle narici importunate dal penetrante odore dei
gigli, sembrava più cheto del solito. Osservava i caratteri
seminascosti dalle corolle ormai appassite, chiedendosi ancora una
volta cosa ci facesse lì, a contemplare un ipogeo spoglio e privo d’un
corpo capace di riuscire ad ingannarlo, concedendogli la malinconica
serenità di chi sapeva che, a pochi passi sottoterra, c’era qualcuno
che gli era stato tanto caro.
Il giorno
dopo sarebbe stato l’anniversario della sua morte. Che stupido modo per
ricordarsi di qualcuno: rimembrare il giorno più atroce, solo per non
doversene dimenticare. Solo per soffrire ancora, persi in quell’oceano
d’emozioni che nessuno di loro sarebbe mai stato in grado di gestire –
tantomeno lui.
– Natsu. –
Strano, la voce di Happy non gli era mai parsa così lontana. – Dobbiamo
andare.
Non si
sentiva particolarmente in vena di discutere, quel giorno. Si alzò in
piedi a fatica, sistemandosi la sciarpa bianca intorno al collo, con lo
sguardo volto all’incisione che recava le lettere di un nome per lui
impossibile da pronunciare. Eppure, era così semplice.
Lisanna.
Persino
pensarlo lo spaventava; fin quando fosse riuscito a non ricordarsene,
le giornate avrebbero continuato a scorrere, tumulti di una vita che
stava continuando a vivere nonostante tutto. In fondo, era ciò che gli
avrebbe chiesto di fare lei.
Camminava,
pensieroso più del suo dire, dandosi pena per il piccolo amico gatto
che lo seguiva svolazzandogli a fianco, con un’aria preoccupata ed
inquieta mentre tornavano alla gilda, ognuno con l’intelletto votato
altrove, lontano da quella fisicità che intrappolava solo gli organi e
non i sentimenti. Seguivano meccanici la strada lastricata di pietroni
che accompagnava il lento scorrere del fiume, ospite di quel letto
fatto di ghiaino e fango; piccoli stormi di passeri si fermavano a bere
lungo gli argini di roccia, sostando allegramente per ritrovarsi come
torme di soldati in attesa della ripartenza.
Tutto si
muoveva intorno a lui, e prendeva vita come il più semplice dei
miracoli: un’esistenza vissuta era un’esistenza che valeva la pena
sfruttare. Peccato che lei non fosse lì per vederla.
L’immenso
portone della gilda era ancora aperto; Natsu entrò con noncuranza, le
mani serrate a pugno e gli occhi vispi e attenti di chi non voleva
esser colto in fallo. Fairy Tail era sempre stata la sua casa, il suo
nido felice e il posto speciale in cui tornar sempre, nelle notti di
tormenta del cuore, quando persino il sonno si rifiutava di concedersi
ad un animo focoso e tuttavia smarrito. Forse, si era perso anche quel
giorno.
– Natsu. –
Voltandosi, l’espressione dolce di Mirajane sembrò accrescere il suo
incompatibile malessere. – È tutto ok?
Come
avrebbe mai potuto sentirsi meglio, quando quegli occhi azzurri e i
capelli bianchi non facevano che riportargli alla mente il dolce
sorriso e lo sguardo cobalto di una persona di cui non aveva neanche il
coraggio di pronunciare il nome?
– Sì, – le
disse, portandosi una mano dietro la nuca e cercando di sdrammatizzare
col suo solito ghigno inopportuno, – va tutto bene.
Immaginava
che dovesse essere difficile per lei, e non era certo giunto lì per
aggravare la situazione. L’indomani l’avrebbe vista andare via con
Elfman, nel posto odiato in cui lui era appena stato, alla ricerca di
quel dolore, presuntuoso ed austero, che imperversava nei loro cuori di
fratelli incapaci e ciechi di fronte al pericolo. Quando, quel giorno
di due anni prima, avevano permesso alla follia molesta d’impossessarsi
di una vita che padron Fato avrebbe dovuto risparmiare, foss’anche solo
perché si trattava di lei.
Natsu non
li aveva mai odiati per questo. Eppure, odiava se stesso per non essere
stato lì con lei, come aveva fatto in passato. E, quand’anche non fosse
riuscito a raggiungerla, avrebbe voluto assistere alla scena cruciale,
condividendo il peso di quell’incubo insieme ai due compagni, nella
speranza di allievare quella sofferenza che il volto di Mirajane celava
abilmente allo sguardo degli avventori brilli ed energici. Lì, in
quegli occhi che odiava perché troppo gli ricordavano le iridi a lui
tanto dilette, poteva vedere il rimorso per una conclusione erronea.
Una
decisione per una vita, anche se quella sbagliata.
– Domani
non ci sarò, te lo ricordi? – si sentì domandare, e giurò di sentire la
dolce voce incrinarsi leggermente.
Annuì, ma
quel sorriso beffardo ch’era avvezzo a mostrar dinnanzi agli avversari
sembrò scomparire al suono delle parole di lei, un eco lontano ed
indistinto degli ormai due anni passati a dimenticare – o, almeno, a
cercare di farlo. La ragazza, il cui volto troppo giovane non avrebbe
dovuto esser marcato da tanta sofferenza, s’allontanò in silenzio per
la rampa di scale, senza più pronunciare alcun alito.
Natsu
rimase seduto ad un tavolo, con le braccia premute contro il legno
scheggiato dai troppi turbolenti tafferugli; avrebbe dovuto tornarsene
a casa, ma il magone che sentiva squarciargli il petto lo fece
desistere dall’insano proposito. Non si era mai considerato un
masochista, eppure in quel momento, mentre si lasciava cullare da
un’improvvisa sonnolenza, il volto che tanto desiderava obliare
s’affacciò a percuotergli il cuore, entrando senza permesso, come a
ogni piè sospinto faceva nei momenti in cui il giovane abbassava la
guardia.
C’era lei,
in quel mite bussare. Lisanna dagli occhi blu, dal cuore vivo, che
sorrideva coi denti perlacei e solari, diamanti incastonati in una
bocca rosea e profumata, così diversa da quella che ricordava lui,
sulle cui gengive v’erano dei dolcissimi vuoti dovuti all’infanzia, nel
gaio tempo durante il quale entrambi pensavano che bastasse infilare un
molare sotto al cuscino per poter ricevere un regalo.
S’arrese
al tepore della fioca lanterna, unico sprazzo di luce nella gilda
addormentata e buia, mentre immaginava il calore delle mani della maga
defunta sfiorargli i capelli, irretirgli i sensi sottomessi alla
volontà di quel sogno ad occhi aperti. Per una volta, non gli
dispiaceva arrendersi.
E
s’interrogò sul perché fosse così gradevole immaginarsela vicina,
quando il solo pensiero di lei lo faceva stare così male: a che serviva
accontentarsi di quella deliziosa illusione, se non poteva neanche
sfiorarla, poiché ai vivi non è concesso accarezzare le anime di coloro
che hanno amato così tanto?
Non che
Natsu lo capisse. Non era stato abituato a concepire l’amore in quella
forma così scevra dal significato ch’era solito attribuirgli. Aveva
provato affetto, gratitudine, ammirazione, e per le persone più
disparate, per giunta. Eppure, se guardava la visione di Lisanna che lo
cullava dolcemente, qualcosa dentro al petto lo stringeva, in un
abbraccio che solo un amante poteva aver provato nella sua vita: era il
volerla toccare con la disperazione di chi sapeva che, al primo lambire
la pelle nivea del miraggio, la vita vera sarebbe tornata a
tormentarlo, sussurrandogli malevola all’orecchio: – Hai visto? Lei non
c’è più.
Il dolore
al petto mutò forma. Più il bel sogno prendeva consistenza, più sentiva
il cuore trafitto da piccole spine, pungenti e nefaste come il
pizzicore che aveva patito agli occhi al suono delle parole disperate
di Elfman, di ritorno dalla missione che aveva disilluso la vita di
ogni singolo membro di Fairy Tail.
Non era da
lui, commiserarsi a quel modo. Ma quell’immagine soave ch’aveva dipinta
davanti allo sguardo socchiuso e assonnato era troppo bella, troppo
dolce e ammaliante per decidere di lasciarla andare. Se il prezzo da
pagare fosse stato sopportare le spine del cuore, allora non gli
sarebbe importato del resto. Avrebbe subito, era sempre stato bravo a
farlo.
– Natsu, –
lo chiamò la voce cristallina, ed era come se persino i suoni potessero
sorridergli, – parla con me.
Che senso
avrebbe avuto, rispondere a quella sua muta supplica? Lei non era lì e
persino il suo raziocinio, che di per sé non era mai stato molto
affidabile, si rifiutava di credere a quel paranoico scherzo della
mente, addolorata e insonne per il troppo cogitare.
Più la
vedeva, più voleva vederla. Più sentiva le dita affusolate
massaggiargli i capelli, più voleva afferrarla, sentire il calore del
suo corpo.
– Avrei
voluto salvarti, – sussurrò con voce tanto sottile da far invidia al
filo delle Moire¹, – ma non c’ero.
– Non ti
odierei mai per questo, Natsu.
Che
stupido. Era forse una psiche malsana la sua, che aveva tanta voglia di
sentirsi rispondere in quel modo dall’amica che aveva perduto, senza
neanche capire cosa rappresentassero per lui il suo sguardo vispo, i
capelli bianchi come le colombe sui cornicioni di Fairy Tail, la risata
contagiosa e serena, la pelle pallida e morbida. Tutto era lì,
incastonato nel ricordo della favola bella che illuse entrambi, al
dolce tempo in cui solevano passare i pomeriggi nella capanna costruita
per la nascita ventura di Happy, quando Lisanna gli dava il bentornato
e lui rispondeva, con la voce ancora da infante: – Sono a casa.
Casa.
Era quella
dell’anima, dove aveva innalzato una tomba tutta per lei, di fronte al
tramonto che amava con tutta se stessa e che rimembrava nei ricordi più
dolci dell’infanzia ormai svanita. Lì dove, più che il ricordo che
aveva di lei, aveva sepolto il suo cuore annichilito, avviluppato anche
allora da una fitta coltre di spine. Forse era per quello che le rose
erano rosse. Sanguinavano anch’esse, avvolte in mezzo ai rovi.
Si lasciò
ancora una volta cullare dalla voce ammaliante della chimera dagli
occhi azzurri, ch’era così simile alla sua Lisanna che più non c’era. –
Dormi, Natsu.
– No. –
Non avrebbe mai potuto perdersi quel momento, poiché finalmente
riusciva ad ascoltare il tono familiare, e le note dolci e nostalgiche
che avrebbe volentieri afferrato, se solo il suono avesse avuto una
consistenza. Il terribile contrappasso gli si palesava davanti agli
occhi: la visione elegiaca e candida di Lisanna, che lo sfiorava senza
che lui potesse toccarla a sua volta, sentire che lei era davvero lì,
nell’ora più buia per un cuore ormai malato e più rinsavito.
– Mi
manchi tanto, Natsu, – sentì uscire dalle sue labbra tremanti, –
davvero tanto.
Avrebbe
potuto risponderle che anche lei gli mancava da morire, che non aveva
smesso neppure un giorno di pensarla e che non sarebbe mai stato in
grado di convincersi che lei non fosse più con lui. Eppure, il mago non
le disse niente di tutto questo.
Sorrise,
ed era il sorriso più bello ch’avesse mai potuto concederle. – Ti ho
giurato che dovunque tu fossi andata, ti avrei ritrovata. – La visione
non gli rispose, ma lui non sembrò badarci, mentre la fissava nelle
grandi pozze azzurre. – Ed io ti ritroverò, ovunque tu sia.
– Quindi,
ci rincontreremo un giorno? – gli domandò la voce cristallina
dell’illusione.
–
Certamente.
– Promesso?
Gli parve
che la risposta che avrebbe dovuto darle fosse più simile ad un
giuramento solenne, un voto inviolabile che avrebbe pagato con la
morte, se non fosse stato in grado d’esaudire quel fanciullesco e
adorabile desiderio. Perché nulla, in quel momento, gli sembrava più
bello dei lapislazzuli incastonati nei suoi occhi, che brillavano per
lui come quel cielo ch’erano soliti guardare insieme, durante le sere
di primavera in cui l’ora muta delle fate svegliava le lucciole a
danzar lievi per il grande prato verde.
– Promesso.
La visione
sorrise, sfiorando il volto del drago con le dita sottili. Natsu non
seppe mai dirlo con certezza, ma gli parve per un istante di sentire
qualcosa posarsi delicatamente sulle sue labbra, e furono solo gli
occhi a persuaderlo che quella fosse proprio la bocca fragrante e
morbida della compagna, poiché socchiudendo le palpebre gli pareva
d’esser lambito dal delicato petalo di una rosa ch’aveva finalmente
perso le spine.
– Ciao,
Natsu, – lo accarezzò la voce, allontanandosi da lui.
– Lisanna.
– Pronunciare il suo nome, dopo tutto quel tempo, era doloroso e
piacevole al tempo stesso. Come fosse possibile, questo davvero non
riusciva a comprenderlo: più desiderava dimenticarla, più il suo cuore
trasaliva al pensiero che ciò potesse accadere, e quel beffardo
ossimoro mutò presto nell’orribile e nefasto terrore che la maga, in
realtà, non fosse mai stata lì. Tastò disperatamente con la mano alla
ricerca della sua esistenza, ma non vi trovò niente ch’appartenesse a
lei, a ciò ch’era stata e che non avrebbe mai più potuto essere. –
Lisanna!
Il nome
scivolò tra i contrafforti in legno della gilda, s’intrise negli
stracci puliti lasciati sul bancone, s’insinuò tra le fughe del
pavimento. Eppure, nessuno rispose.
Happy
soffocò un urlo sorpreso, portandosi alla stregua del giovane mago. Il
dragon slayer sussultò al suono delle parole dell’amico: – Hai fatto un
brutto sogno?
Un sogno. Rimase a fissare il legno
del tavolo per degli istanti interminabili, interrogandosi sul perché
il vagheggiamento dell’irrequieto sopore gli fosse parso così
maledettamente concreto. Si volse verso il compagno gatto, soffermando
lo sguardo sul suo volto contrito dalla preoccupazione, e non riuscì a
fare a meno di sorridergli, mitigando in parte quel suo darsi pena. –
No, Happy.
Ripensò a
lei, al suono della sua voce, agli occhi cortesi e alla pelle
alabastrina, alla bocca che aveva sigillato la promessa da lui fatta
con un bacio che aveva il sapore di una rosa. Chinò lo sguardo, sulle
labbra apparve una smorfia che celava in sé le fattezze d’un
malinconico sorriso; poi voltò nuovamente la testa verso il compagno,
abbandonando l’aria nostalgica ed assente per far fede a quel nuovo
giuramento.
Non
importava quanto tempo ci avrebbe impiegato.
Giorni,
mesi, anni. Non avrebbe avuto importanza, lo scorrere irrequieto della
vita. Ciò di cui s’era fatto savio era la determinata certezza di
riportarla a casa, lì dov’era appartenuta e dove lo sarebbe stata
sempre. E, giunto alla fine di quell’ossequioso impegno, le avrebbe
fatto un’altra promessa: non l’avrebbe più – mai più – lasciata andare.
– Al
contrario. È stato il sogno più bello che abbia mai fatto.