Un
amore nato dal caso
L’umanità
del Signor Nessuno
Cercando
di sembrare ciò che non siamo, cessiamo di essere quel che
siamo.
(Ernst Jùnger)
Il
cimitero era silenzioso. Una leggera brezza espandeva il lieve
profumo di fiori freschi che ingentiliva il paesaggio grigio.
L’erba
appena tagliata attutiva i passi frettolosi di chi provava il
desiderio di sentirsi vicino ai propri cari. La presenza di un
piccolo escavatore strideva fortemente con la poesia del luogo.
Giovanni
si passò una mano sul viso in cerca di quelle lacrime che
faticavano
a scendere. Era passato molto tempo dal terribile scoppio che aveva
stravolto la città dove viveva e, il fatto di essere stato
il solo
sopravvissuto alla tragedia, aveva contribuito a creare un vuoto
dentro di lui. Più volte, la psicologa gli aveva ordinato
di
recarsi sulla tomba dello zio, di fare pace con lui ma soprattutto
con se stesso. Perché le cose non accadono mai per
caso. Gli
diceva di continuo con la sua fastidiosa voce da bambina. Cosa che
lui non aveva fatto fino a quel momento.
«Se
preferisci rimanere solo mi sposto sotto quell’albero
laggiù.» La
voce gentile del suo compagno lo riscosse. Voltò il capo e
lo vide
indicare una grande pianta dove stava, nascosta dalle fronde, una
panchina in pietra. Al suo assenso, Daniele gli sfiorò le
labbra con
le proprie, sorridendo triste e al contempo incoraggiante, per poi
incamminarsi facendo scrocchiare la ghiaia bianca.
Rimasto
solo, Giovanni si inginocchiò e accarezzò con
riverenza la foto che
ritraeva lo zio. Aveva un sorriso bellissimo, caldo e avvolgente.
Portava i capelli lunghi alla moda degli hippies che brulicavano
nelle città americane degli anni settanta. Adorava
l’America,
avrebbe tanto voluto vivere lì ed essere sepolto a Los
Angeles, ma
la sua famiglia si era opposta fermamente.
«Sono
qui per chiedere perdono, zio. Per non essere stato un buon nipote e
perché quel giorno me ne sono uscito di casa senza averti
detto
quanto ti amavo, quanto ero orgoglioso di fare parte della tua vita.
Se potessi vedermi ora, sono certo che saresti fiero di me. Ho fatto
tesoro di ogni tuo insegnamento e sono riuscito a costruire delle
solide basi per potere vivere al meglio la mia vita, esattamente come
volevi tu. Ora, ho un compagno meraviglioso che amo alla
follia.»
Giovanni tolse le rose avvizzite dal vaso in peltro.
«Avrei
tanto voluto dimostrare che ero degno di te quando eri in vita, ma
ero uno stupido sciocco accecato dalla mia vana gloria. Hai sempre
avuto ragione su tutto e il mio più grande rammarico
è non averti
più accanto.
«Mi
vergogno un po’ ad essere così felice mentre tu
sei rinchiuso in
una scatola sotto metri di terra.» Con l’aiuto di
una spugna
umida, ripulì dalla polvere la lapide in marmo bianco.
«Allora,
ero così cieco, così sordo e così
concentrato su me stesso da
essere finito per identificarmi con tutto ciò che odiavo di
più.
Ero diventato uno qualunque in un mare di banalità. Mi ero
impegnato
così tanto a non somigliare a mio padre, troppo attaccato
alla
divisa militare, che ho abbracciato il lato opposto della
barricata. Finendo così per confondermi tra loro:
un signor
nessuno senza arte né parte.
«Sai,
ho imparato a mie spese che nella
vita ho
incontrato tante maschere e pochi volti.
La più terrificante fra tutte era proprio la mia.»
***
L’appartamento
all’ultimo piano di un anonimo palazzo di quartiere era
inondato
dalla calda luce serale. Le pareti azzurre avevano assunto un tenue
colore lilla mentre decine di fotografie, chiuse in austere cornici,
ammiccavano felici. I mobili datati, curati ed essenziali, rendevano
il modernissimo televisore un pesce fuor d’acqua. Un gatto
maculato, fino a pochi istanti prima acciambellato sulla poltrona in
velluto a coste, dopo essersi sgranchito le membra, era uscito con le
coda ben ritta, infastidito dal cicaleccio degli altri due occupanti
del locale.
«Ti
ho visto alla rimessa con Paolo, che combinavi?» aveva
chiesto Luigi
mentre posava gli occhiali da lettura sopra il libro che stava
leggendo.
«Nulla
che ti riguarda,» aveva risposto sgarbato Giovanni,
ingollando una
birra fresca. L’uomo aveva sospirato preoccupato.
«Giovanni,
lo sai che devi stare lontano da lui. È così
giovane eppure così
corrotto. Puoi frequentare chiunque, perché insisti appresso
a lui?»
«Zio,
io non lo frequento. Abbiamo un rapporto… lavorativo,
ecco,» aveva
risposto sbrigativo, afferrando un paio di prugne secche da un piatto
sul tavolo.
«Ma
cosa dici? Lavorativo? Quel ragazzino ha quattordici anni! Che lavoro
potrebbe mai fare? E tu, da quando lavoreresti?» aveva
ribattuto
incredulo lo zio. Giovanni aveva sbuffato irritato.
«Lo
sai che aiuto Paride al pub!»
«E
lo chiameresti lavorare essere impegnato tre sere a
settimana?
Un lavoro serio è quello che ti permette di guadagnare
abbastanza da
vivere in modo autonomo.»
«Mi
stai cacciando di casa?» aveva chiesto irriverente Giovanni
mentre
sputava il nocciolo della prugna facendo canestro in un vaso di
peonie lì accanto.
«Giovanni!»
l’aveva ripreso Luigi. «È questa
l’educazione che ti ho
insegnato?» Il ragazzo aveva fatto spallucce mettendo in
bocca un
altro frutto. «Ringrazia il cielo che ho la caviglia fasciata
altrimenti avrei sistemato a modo mio la testaccia dura che ti
ritrovi!» l’aveva minacciato. Giovanni aveva
sorriso
accondiscendente e gli aveva spedito un bacio sulla punta delle dita.
Sebbene
passassero il tempo a bisticciare, zio e nipote si volevano molto
bene.
Giovanni
era approdato a casa di Luigi appena adolescente per frequentare le
scuole superiori, troppo lontane dal paese di provincia dove era
nato.
Quando
suo padre aveva scaricato le valige sul pianerottolo, Giovanni aveva
letto nei suoi occhi il sollievo di essersi liberato di uno
come lui. Quella cosa l’aveva
ferito profondamente,
nonostante sapesse che aveva procurato solo dispiaceri ai propri
genitori. Così, stringendo i denti per non urlare il proprio
disappunto, aveva alzato il mento spavaldo per non fare notare il
magone che gli stava attorcigliando le budella.
A
salvarlo dai pensieri cupi, era arrivato Luigi che, dopo avere
spalancato la porta, l’aveva stretto in un caldo abbraccio,
invitando entrambi ad entrare. L’interno era spoglio e
puzzava di
vernice fresca, ma era apprezzabile, soprattutto per i pasticcini che
imbandivano il tavolo in cucina.
Il
padrone di casa era il fratellastro della mamma di Giovanni, un uomo
di mondo ma che classificava la vita in scomparti separati.
Oltre
le tende, il sole era calato e il nero della notte stava sgomitando
con gli ultimi barlumi rossastri. In quella serata limpida, i rumori
delle autovetture, che stavano sostando sul grande raccordo,
arrivavano nitidi come i pigolii dei passerotti affamati. Il gatto
Paride aveva sbirciato dalla porta spalancata e, miagolando forte,
aveva attirato l’attenzione del padrone. Luigi si era alzato
e
l’aveva seguito in cucina dove aveva riempito la sua ciotola
di
croccantini. Dopo poco, dal bagno in cui si era rifugiato a causa del
suo amore per le prugne, Giovanni l’aveva sentito rovistare
nei
cassetti.
«Hai
spostato tu i cento euro che avevo messo nel barattolo del
sale?»
aveva chiesto corrucciato.
Giovanni
aveva incrociato lo zio nel piccolo corridoio che separava la zona
giorno da quella della notte. A Luigi era bastata una fugace occhiata
agli espressivi occhi viola del giovane per leggere tutta la sua
colpevolezza.
«Accidenti!
E adesso che faccio? Quei soldi servivano per pagare alcune fatture e
domani la banca è chiusa.»
«E
con questo? Cosa vuoi da me! Se sei smemorato non è di certo
colpa
mia,» aveva sputato infastidito rientrando in sala. Per
alcuni
secondi, lo zio l’aveva guardato interdetto, poi
l’aveva rincorso
zoppicante e l’aveva bloccato a un passo dall’uscio
di casa.
«Tu
non me la racconti giusta, Giovanni. Sono giorni che ti comporti in
modo strano. Bighelloni dalla sala alla tua camera per poi sparire
per delle ore. Cosa stai combinando?» gli aveva chiesto
picchiettando il dito sul suo petto. Il ragazzo aveva scosso le
spalle indifferente.
«A
volte, vorrei tanto che i tuoi genitori fossero ancora vivi, sono
certo che tuo padre saprebbe raddrizzarti,» aveva sussurrato
piano
passando la mano nei lunghi capelli scuri.
«Sì,
certo. Proprio lui, il grande e
irreprensibile Stefano
Ghilbertone che non ha trovato di meglio che scaricarmi
davanti a
casa tua perché si vergognava di avere un figlio troppo
ribelle.»
Come un violino scordato, nella voce di Giovanni aveva vibrato tutta
la sua amarezza. Luigi aveva fatto un passo indietro, sbigottito
dall’acredine che stava manifestando il nipote.
«Ma
cosa? Ma come? Non...» aveva balbettato portando una mano
davanti
alla bocca.
«Ero
solo un accessorio, un motivo in più per brindare alla sua
grandezza. Fin dalla mia nascita aveva panificato ogni cosa:
l’asilo,
gli amici, le scuole, gli sport e perché no, anche cosa
dovevo
mangiare. Tutto ciò che facevo doveva essere supervisionato
e
approvato da lui; ci mancava solo che mi contasse i minuti spesi in
bagno ed hai un quadro completo di ciò che ho passato.
«Tutto
doveva essere perfetto e impeccabile, peccato che non abbia mai speso
un secondo della sua vita a chiedere a me cosa
davvero mi
piacesse. E visto che non mi era concesso oppormi alla sua
volontà,
ho iniziato a trasgredire le regole al di fuori del suo dominio.
Quando potevo marinavo la scuola, fumavo nei bagni delle ragazze,
rubavo qua e là piccole cose che rivendevo. Più
venivo messo in
punizione, più aumentavo la posta. Ma per lui contavano solo
le
apparenze e mai le mie esigenze.
«L’ultimo
affronto è stato quello di obbligarmi a frequentare lo
Scientifico,
quando l’avevo supplicato di mandarmi
all’Alberghiero! Perché
fare il cameriere è umiliante per un Ghilbertone
mi diceva ogni
volta che tentavo di dissuaderlo.
«Ora,
mi senti padre? Servo il Pirlo ai vecchietti il venerdì
sera,»
aveva urlato così forte che il gatto era schizzato
miagolando verso
le camere. Luigi l’aveva fatto sfogare restando in silenzio,
perduto nell’osservare la sua rabbia. Come ho
potuto non accorgermi di niente?
Si stava
ripetendo addolorato
come un mantra.
«Quando
è morto mi sono sentito finalmente libero e, al contempo,
ancora
terribilmente in gabbia. L’unico pensiero che mi ha permesso
di
restare a galla sei stato tu, zio. Quell’amore che mi avevi
donato
senza reticenze, senza che l’avessi chiesto, senza avere
nulla in
cambio, è stato l’edera che mi ha tenuto ancorato
a terra, non
permettendomi di crollare.
«È
vero, ti devo molto più di quello che non sarò
mai in grado di
restituire ma non ti permetto di immischiarti nei miei
affari,»
aveva concluso tronfio, gli occhi viola che lanciavano dardi.
«Io…
Giovanni, non voglio ficcare il naso, semplicemente credo che tu
abbia ancora bisogno di una figura genitoriale che ti guidi,»
aveva
detto cauto, sondandolo negli occhi. «Sei così
giovane e così
pieno di rabbia che mi si stringe il cuore.»
«Non
ho bisogno di niente e di nessuno,» era scattato.
«Men che meno una
presenza asfissiante e ingombrante come era quella di mio
padre.»
«Oh
certo! Il grande Giovanni si crede un uomo navigato,» aveva
iniziato
risentito dalle parole del nipote. «Un uomo che ha fatto
sempre le
scelte giuste, come quella di abbandonare gli studi o finire a
bighellonare con la banda di Maurizio. Pensavi fossi del tutto cieco?
Eppure vieni qui a fare la morale, credi di essere migliore di tuo
padre, Giovanni?» gli aveva urlato contro lo zio.
«Tu non sei
nessuno! Sei un volto vuoto in mezzo a facce dipinte. Ecco cosa sei.
Te ne vai in giro tronfio. Io faccio come credo e smetto
quando
voglio.» l’aveva scimmiottato.
«In realtà sei patetico, uno
stupido pusillanime che non è in grado di prendersi le
proprie
responsabilità.»
«E
tu, invece?» aveva infierito Giovanni indicando i quadri
appesi.
«Che mi dici di Alberto? Delle seghe che ti fai pensando a
lui? Hai
paura che crolli la tua perfetta facciata rispettabile se venissero a
sapere che sei un frocio?»
Nella
stanza era calato un pesante silenzio, corrosivo e indigesto come un
limone acerbo.
Improvviso,
lo schiaffo l’aveva colpito in pieno volto facendogli
scattare la
testa di lato. Lo zio l’aveva guardato a lungo, ferito e
deluso.
«Alberto è morto dieci anni fa di AIDS, due giorni
prima che
riuscissimo a formalizzare la nostra unione a Los Angeles.»
Era
uscito zoppicando dalla stanza senza degnarlo di uno sguardo.
Quella
era stata l’ultima volta che l’aveva visto.
Mezz’ora
dopo, un’esplosione aveva ridotto in macerie fumanti alcuni
palazzi
del quartiere dove abitavano. Per un caso fortuito, Giovanni era
stato l’unico a uscire vivo da quell’inferno.
***
Un
pettirosso planò leggero ad un passo da Giovanni e il suo
trillare
felice lo ridestò dai ricordi. Si perse per un attimo a
osservare il
suo zampettare tra l’erba profumata in cerca di cibo. Poi, un
rumore alle sue spalle allontanò l’uccellino e lui
si volse
infastidito verso il disturbatore.
«Mi
scusi, dobbiamo iniziare a scavare.» Due uomini con la divisa
comunale sporca di terra lo guardavano appoggiati
all’escavatore.
«Certo,
certo!» balbettò imbarazzato Giovanni. Si
alzò in piedi così
velocemente da rischiare di cadere.
«Per
sicurezza è meglio che si sposti un poco più in
là,» gli disse
professionale quello più smilzo con gli occhi iniettati di
sangue. A
passo lento, Giovanni raggiunse Daniele che lo accolse tra le sue
braccia.
«Credi
che sia la cosa giusta da fare?» chiese titubante.
«Certamente.
Sarà felice di tornare a Los Angeles dal suo
Alberto.» Giovanni
soffocò un singhiozzo nel suo collo mentre lui gli
accarezzava
gentilmente le guance. «Stai piangendo,»
mormorò tra i suoi
capelli.
Giovanni
spalancò gli occhi e davanti a sé vide tutto
sfocato, come se il
mondo fosse finito dietro un filtro. Ogni cosa era indefinita, senza
consistenza, piatta, un po’ come la sua vita prima di
conoscere
Daniele. Sbatté le ciglia e i colori tornarono a sorridere.
Dentro
di sé, sentì le ultime briciole della maschera
che portava anni
addietro disciogliersi nelle lacrime che scorrevano lente.
«Grazie,
Luigi. La mia felicità la devo a te che, con il tuo amore e
i tuoi
insegnamenti, hai aperto una breccia nella mia corazza, permettendomi
di capire cosa davvero volevo dalla vita.»
Mentre
seguivano mesti la bara appena riesumata verso il crematorio, il
pettirosso gli volò davanti al viso, quasi volesse
contribuire a
lavare via le sue colpe con le proprie ali.
Nessuno
può cambiare una persona, ma una persona può
essere la ragione per
cui qualcuno cambia. (Anonimo)
Note
dell’autrice: per emergere sopra gli
altri non bisogna per
forza essere dei grandi, degli eroi
o dei ricchi.
Per distinguerci dagli altri basta essere speciali per qualcuno.
Giovanni
non vuole diventare un uomo inquadrato come suo padre: un uomo
sterile e privo di cuore. Disubbidendo alla volontà del
genitore è
convinto di essere un ribelle. Invece diventerà un
disgraziato
qualunque che non riesce a riconoscere la felicità a portata
di
mano.
Ulteriori
note: questa storia avrebbe dovuto partecipare al
contest
‘Contest – Una macchia di storia’ indetto
da
Inchiostro_nel_Sangue e elli2998 con il pacchetto segreto A
occhi
chiusi:
quadro:
l’uomo con la bombetta.
frase
di Pirandello: imparerai a tue spese che nel
lungo
tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
condizione:
qualcuno sta mangiando una prugna.
Il
pacchetto prevede un obbligo: descrivere come ultima scena (in
metafora o figurativa) la scena presentata nel quadro assegnato.
Come
sempre ho divagato e sono uscita fuori tema.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.