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Autore: G RAFFA uwetta    30/09/2019    3 recensioni
Giovanni e Daniele non avevano compreso che la Vita era un Dono finché lei non aveva preteso la loro attenzione.
Non era stato facile venire a capo del groviglio che era la loro esistenza, ma la reciproca vicinanza aveva reso più semplice l’accettazione. Perché si sa, quando si ama ogni ostacolo non sembra più così insormontabile.
Attraverso alcuni episodi conosceremo un po’ della loro storia.
Questa sarà una raccolta disomogenea.
Le flash partecipano al contest ‘Il contest del Simbolismo’ indetto da Arianna.1992, rilevato da Little_Rock_Angel5 sul forum e si sono classificate al primo posto.
La oneshot 'Il vuoto nel cuore' si è classificata seconda al contest 'OUT & PROUND – Originali e Fanfiction’ indetto da Nuel2 sul forum.'
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un amore nato dal caso



L’umanità del Signor Nessuno


Cercando di sembrare ciò che non siamo, cessiamo di essere quel che siamo. (Ernst Jùnger)


Il cimitero era silenzioso. Una leggera brezza espandeva il lieve profumo di fiori freschi che ingentiliva il paesaggio grigio. L’erba appena tagliata attutiva i passi frettolosi di chi provava il desiderio di sentirsi vicino ai propri cari. La presenza di un piccolo escavatore strideva fortemente con la poesia del luogo.

Giovanni si passò una mano sul viso in cerca di quelle lacrime che faticavano a scendere. Era passato molto tempo dal terribile scoppio che aveva stravolto la città dove viveva e, il fatto di essere stato il solo sopravvissuto alla tragedia, aveva contribuito a creare un vuoto dentro di lui. Più volte, la psicologa gli aveva ordinato di recarsi sulla tomba dello zio, di fare pace con lui ma soprattutto con se stesso. Perché le cose non accadono mai per caso. Gli diceva di continuo con la sua fastidiosa voce da bambina. Cosa che lui non aveva fatto fino a quel momento.

«Se preferisci rimanere solo mi sposto sotto quell’albero laggiù.» La voce gentile del suo compagno lo riscosse. Voltò il capo e lo vide indicare una grande pianta dove stava, nascosta dalle fronde, una panchina in pietra. Al suo assenso, Daniele gli sfiorò le labbra con le proprie, sorridendo triste e al contempo incoraggiante, per poi incamminarsi facendo scrocchiare la ghiaia bianca.

Rimasto solo, Giovanni si inginocchiò e accarezzò con riverenza la foto che ritraeva lo zio. Aveva un sorriso bellissimo, caldo e avvolgente. Portava i capelli lunghi alla moda degli hippies che brulicavano nelle città americane degli anni settanta. Adorava l’America, avrebbe tanto voluto vivere lì ed essere sepolto a Los Angeles, ma la sua famiglia si era opposta fermamente.

«Sono qui per chiedere perdono, zio. Per non essere stato un buon nipote e perché quel giorno me ne sono uscito di casa senza averti detto quanto ti amavo, quanto ero orgoglioso di fare parte della tua vita. Se potessi vedermi ora, sono certo che saresti fiero di me. Ho fatto tesoro di ogni tuo insegnamento e sono riuscito a costruire delle solide basi per potere vivere al meglio la mia vita, esattamente come volevi tu. Ora, ho un compagno meraviglioso che amo alla follia.» Giovanni tolse le rose avvizzite dal vaso in peltro.

«Avrei tanto voluto dimostrare che ero degno di te quando eri in vita, ma ero uno stupido sciocco accecato dalla mia vana gloria. Hai sempre avuto ragione su tutto e il mio più grande rammarico è non averti più accanto.

«Mi vergogno un po’ ad essere così felice mentre tu sei rinchiuso in una scatola sotto metri di terra.» Con l’aiuto di una spugna umida, ripulì dalla polvere la lapide in marmo bianco.

«Allora, ero così cieco, così sordo e così concentrato su me stesso da essere finito per identificarmi con tutto ciò che odiavo di più. Ero diventato uno qualunque in un mare di banalità. Mi ero impegnato così tanto a non somigliare a mio padre, troppo attaccato alla divisa militare, che ho abbracciato il lato opposto della barricata. Finendo così per confondermi tra loro: un signor nessuno senza arte né parte.

«Sai, ho imparato a mie spese che nella vita ho incontrato tante maschere e pochi volti1. La più terrificante fra tutte era proprio la mia.»


***


L’appartamento all’ultimo piano di un anonimo palazzo di quartiere era inondato dalla calda luce serale. Le pareti azzurre avevano assunto un tenue colore lilla mentre decine di fotografie, chiuse in austere cornici, ammiccavano felici. I mobili datati, curati ed essenziali, rendevano il modernissimo televisore un pesce fuor d’acqua. Un gatto maculato, fino a pochi istanti prima acciambellato sulla poltrona in velluto a coste, dopo essersi sgranchito le membra, era uscito con le coda ben ritta, infastidito dal cicaleccio degli altri due occupanti del locale.

«Ti ho visto alla rimessa con Paolo, che combinavi?» aveva chiesto Luigi mentre posava gli occhiali da lettura sopra il libro che stava leggendo.

«Nulla che ti riguarda,» aveva risposto sgarbato Giovanni, ingollando una birra fresca. L’uomo aveva sospirato preoccupato.

«Giovanni, lo sai che devi stare lontano da lui. È così giovane eppure così corrotto. Puoi frequentare chiunque, perché insisti appresso a lui?»

«Zio, io non lo frequento. Abbiamo un rapporto… lavorativo, ecco,» aveva risposto sbrigativo, afferrando un paio di prugne secche da un piatto sul tavolo.

«Ma cosa dici? Lavorativo? Quel ragazzino ha quattordici anni! Che lavoro potrebbe mai fare? E tu, da quando lavoreresti?» aveva ribattuto incredulo lo zio. Giovanni aveva sbuffato irritato.

«Lo sai che aiuto Paride al pub!»

«E lo chiameresti lavorare essere impegnato tre sere a settimana? Un lavoro serio è quello che ti permette di guadagnare abbastanza da vivere in modo autonomo.»

«Mi stai cacciando di casa?» aveva chiesto irriverente Giovanni mentre sputava il nocciolo della prugna facendo canestro in un vaso di peonie lì accanto.

«Giovanni!» l’aveva ripreso Luigi. «È questa l’educazione che ti ho insegnato?» Il ragazzo aveva fatto spallucce mettendo in bocca un altro frutto. «Ringrazia il cielo che ho la caviglia fasciata altrimenti avrei sistemato a modo mio la testaccia dura che ti ritrovi!» l’aveva minacciato. Giovanni aveva sorriso accondiscendente e gli aveva spedito un bacio sulla punta delle dita.

Sebbene passassero il tempo a bisticciare, zio e nipote si volevano molto bene.

Giovanni era approdato a casa di Luigi appena adolescente per frequentare le scuole superiori, troppo lontane dal paese di provincia dove era nato.

Quando suo padre aveva scaricato le valige sul pianerottolo, Giovanni aveva letto nei suoi occhi il sollievo di essersi liberato di uno come lui. Quella cosa l’aveva ferito profondamente, nonostante sapesse che aveva procurato solo dispiaceri ai propri genitori. Così, stringendo i denti per non urlare il proprio disappunto, aveva alzato il mento spavaldo per non fare notare il magone che gli stava attorcigliando le budella.

A salvarlo dai pensieri cupi, era arrivato Luigi che, dopo avere spalancato la porta, l’aveva stretto in un caldo abbraccio, invitando entrambi ad entrare. L’interno era spoglio e puzzava di vernice fresca, ma era apprezzabile, soprattutto per i pasticcini che imbandivano il tavolo in cucina.

Il padrone di casa era il fratellastro della mamma di Giovanni, un uomo di mondo ma che classificava la vita in scomparti separati.

Oltre le tende, il sole era calato e il nero della notte stava sgomitando con gli ultimi barlumi rossastri. In quella serata limpida, i rumori delle autovetture, che stavano sostando sul grande raccordo, arrivavano nitidi come i pigolii dei passerotti affamati. Il gatto Paride aveva sbirciato dalla porta spalancata e, miagolando forte, aveva attirato l’attenzione del padrone. Luigi si era alzato e l’aveva seguito in cucina dove aveva riempito la sua ciotola di croccantini. Dopo poco, dal bagno in cui si era rifugiato a causa del suo amore per le prugne, Giovanni l’aveva sentito rovistare nei cassetti.

«Hai spostato tu i cento euro che avevo messo nel barattolo del sale?» aveva chiesto corrucciato.

Giovanni aveva incrociato lo zio nel piccolo corridoio che separava la zona giorno da quella della notte. A Luigi era bastata una fugace occhiata agli espressivi occhi viola del giovane per leggere tutta la sua colpevolezza.

«Accidenti! E adesso che faccio? Quei soldi servivano per pagare alcune fatture e domani la banca è chiusa.»

«E con questo? Cosa vuoi da me! Se sei smemorato non è di certo colpa mia,» aveva sputato infastidito rientrando in sala. Per alcuni secondi, lo zio l’aveva guardato interdetto, poi l’aveva rincorso zoppicante e l’aveva bloccato a un passo dall’uscio di casa.

«Tu non me la racconti giusta, Giovanni. Sono giorni che ti comporti in modo strano. Bighelloni dalla sala alla tua camera per poi sparire per delle ore. Cosa stai combinando?» gli aveva chiesto picchiettando il dito sul suo petto. Il ragazzo aveva scosso le spalle indifferente.

«A volte, vorrei tanto che i tuoi genitori fossero ancora vivi, sono certo che tuo padre saprebbe raddrizzarti,» aveva sussurrato piano passando la mano nei lunghi capelli scuri.

«Sì, certo. Proprio lui, il grande e irreprensibile Stefano Ghilbertone che non ha trovato di meglio che scaricarmi davanti a casa tua perché si vergognava di avere un figlio troppo ribelle.» Come un violino scordato, nella voce di Giovanni aveva vibrato tutta la sua amarezza. Luigi aveva fatto un passo indietro, sbigottito dall’acredine che stava manifestando il nipote.

«Ma cosa? Ma come? Non...» aveva balbettato portando una mano davanti alla bocca.

«Ero solo un accessorio, un motivo in più per brindare alla sua grandezza. Fin dalla mia nascita aveva panificato ogni cosa: l’asilo, gli amici, le scuole, gli sport e perché no, anche cosa dovevo mangiare. Tutto ciò che facevo doveva essere supervisionato e approvato da lui; ci mancava solo che mi contasse i minuti spesi in bagno ed hai un quadro completo di ciò che ho passato.

«Tutto doveva essere perfetto e impeccabile, peccato che non abbia mai speso un secondo della sua vita a chiedere a me cosa davvero mi piacesse. E visto che non mi era concesso oppormi alla sua volontà, ho iniziato a trasgredire le regole al di fuori del suo dominio. Quando potevo marinavo la scuola, fumavo nei bagni delle ragazze, rubavo qua e là piccole cose che rivendevo. Più venivo messo in punizione, più aumentavo la posta. Ma per lui contavano solo le apparenze e mai le mie esigenze.

«L’ultimo affronto è stato quello di obbligarmi a frequentare lo Scientifico, quando l’avevo supplicato di mandarmi all’Alberghiero! Perché fare il cameriere è umiliante per un Ghilbertone mi diceva ogni volta che tentavo di dissuaderlo.

«Ora, mi senti padre? Servo il Pirlo ai vecchietti il venerdì sera,» aveva urlato così forte che il gatto era schizzato miagolando verso le camere. Luigi l’aveva fatto sfogare restando in silenzio, perduto nell’osservare la sua rabbia. Come ho potuto non accorgermi di niente? Si stava ripetendo addolorato come un mantra.

«Quando è morto mi sono sentito finalmente libero e, al contempo, ancora terribilmente in gabbia. L’unico pensiero che mi ha permesso di restare a galla sei stato tu, zio. Quell’amore che mi avevi donato senza reticenze, senza che l’avessi chiesto, senza avere nulla in cambio, è stato l’edera che mi ha tenuto ancorato a terra, non permettendomi di crollare.

«È vero, ti devo molto più di quello che non sarò mai in grado di restituire ma non ti permetto di immischiarti nei miei affari,» aveva concluso tronfio, gli occhi viola che lanciavano dardi.

«Io… Giovanni, non voglio ficcare il naso, semplicemente credo che tu abbia ancora bisogno di una figura genitoriale che ti guidi,» aveva detto cauto, sondandolo negli occhi. «Sei così giovane e così pieno di rabbia che mi si stringe il cuore.»

«Non ho bisogno di niente e di nessuno,» era scattato. «Men che meno una presenza asfissiante e ingombrante come era quella di mio padre.»

«Oh certo! Il grande Giovanni si crede un uomo navigato,» aveva iniziato risentito dalle parole del nipote. «Un uomo che ha fatto sempre le scelte giuste, come quella di abbandonare gli studi o finire a bighellonare con la banda di Maurizio. Pensavi fossi del tutto cieco? Eppure vieni qui a fare la morale, credi di essere migliore di tuo padre, Giovanni?» gli aveva urlato contro lo zio. «Tu non sei nessuno! Sei un volto vuoto in mezzo a facce dipinte. Ecco cosa sei. Te ne vai in giro tronfio. Io faccio come credo e smetto quando voglio.» l’aveva scimmiottato. «In realtà sei patetico, uno stupido pusillanime che non è in grado di prendersi le proprie responsabilità.»

«E tu, invece?» aveva infierito Giovanni indicando i quadri appesi. «Che mi dici di Alberto? Delle seghe che ti fai pensando a lui? Hai paura che crolli la tua perfetta facciata rispettabile se venissero a sapere che sei un frocio?»

Nella stanza era calato un pesante silenzio, corrosivo e indigesto come un limone acerbo.

Improvviso, lo schiaffo l’aveva colpito in pieno volto facendogli scattare la testa di lato. Lo zio l’aveva guardato a lungo, ferito e deluso. «Alberto è morto dieci anni fa di AIDS, due giorni prima che riuscissimo a formalizzare la nostra unione a Los Angeles.» Era uscito zoppicando dalla stanza senza degnarlo di uno sguardo.

Quella era stata l’ultima volta che l’aveva visto.

Mezz’ora dopo, un’esplosione aveva ridotto in macerie fumanti alcuni palazzi del quartiere dove abitavano. Per un caso fortuito, Giovanni era stato l’unico a uscire vivo da quell’inferno.


***

Un pettirosso planò leggero ad un passo da Giovanni e il suo trillare felice lo ridestò dai ricordi. Si perse per un attimo a osservare il suo zampettare tra l’erba profumata in cerca di cibo. Poi, un rumore alle sue spalle allontanò l’uccellino e lui si volse infastidito verso il disturbatore.

«Mi scusi, dobbiamo iniziare a scavare.» Due uomini con la divisa comunale sporca di terra lo guardavano appoggiati all’escavatore.

«Certo, certo!» balbettò imbarazzato Giovanni. Si alzò in piedi così velocemente da rischiare di cadere.

«Per sicurezza è meglio che si sposti un poco più in là,» gli disse professionale quello più smilzo con gli occhi iniettati di sangue. A passo lento, Giovanni raggiunse Daniele che lo accolse tra le sue braccia.

«Credi che sia la cosa giusta da fare?» chiese titubante.

«Certamente. Sarà felice di tornare a Los Angeles dal suo Alberto.» Giovanni soffocò un singhiozzo nel suo collo mentre lui gli accarezzava gentilmente le guance. «Stai piangendo,» mormorò tra i suoi capelli.

Giovanni spalancò gli occhi e davanti a sé vide tutto sfocato, come se il mondo fosse finito dietro un filtro. Ogni cosa era indefinita, senza consistenza, piatta, un po’ come la sua vita prima di conoscere Daniele. Sbatté le ciglia e i colori tornarono a sorridere.

Dentro di sé, sentì le ultime briciole della maschera che portava anni addietro disciogliersi nelle lacrime che scorrevano lente.

«Grazie, Luigi. La mia felicità la devo a te che, con il tuo amore e i tuoi insegnamenti, hai aperto una breccia nella mia corazza, permettendomi di capire cosa davvero volevo dalla vita.»

Mentre seguivano mesti la bara appena riesumata verso il crematorio, il pettirosso gli volò davanti al viso, quasi volesse contribuire a lavare via le sue colpe con le proprie ali.


Nessuno può cambiare una persona, ma una persona può essere la ragione per cui qualcuno cambia. (Anonimo)



Note dell’autrice: per emergere sopra gli altri non bisogna per forza essere dei grandi, degli eroi o dei ricchi. Per distinguerci dagli altri basta essere speciali per qualcuno.

Giovanni non vuole diventare un uomo inquadrato come suo padre: un uomo sterile e privo di cuore. Disubbidendo alla volontà del genitore è convinto di essere un ribelle. Invece diventerà un disgraziato qualunque che non riesce a riconoscere la felicità a portata di mano.

Ulteriori note: questa storia avrebbe dovuto partecipare al contest ‘Contest – Una macchia di storia’ indetto da Inchiostro_nel_Sangue e elli2998 con il pacchetto segreto A occhi chiusi:

quadro: l’uomo con la bombetta.

frase di Pirandello: imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.

condizione: qualcuno sta mangiando una prugna.

Il pacchetto prevede un obbligo: descrivere come ultima scena (in metafora o figurativa) la scena presentata nel quadro assegnato.


Come sempre ho divagato e sono uscita fuori tema.

Buona lettura e i commenti sono graditi.

Disclaimer: l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi diritto.

1Citazione di Luigi Pirandello

   
 
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