Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John
Powell)
Cavallo
in (latitudine Nord) 14 e (longitudine Est) 41:
scacco matto
Seppure
con difficoltà, Adelhaide corse per i corridoi semi bui. Le
luci di
emergenza rendevano l’ambiente claustrofobico e alla ragazza
terrorizzata pareva che, a ogni passo, si stesse stringendo su di
lei. Si sentiva soffocare e non aiutava la strana pesantezza che
avvertiva nelle ossa.
«Robert!»
urlò sollevata quando lo raggiunse. «Robert di
là…» Con il
braccio tremante indicava la direzione da cui era appena
sopraggiunta. «Quel coso… È orribile!
Vieni con me…» balbettò.
«Adelhaide
non c’è tempo
per i tuoi
deliri. Qualsiasi cosa sia, può aspettare,»
l’interruppe seccato.
«Non
so come, ma sembra
che alcuni strumenti di questa base siano in grado di prevedere, con
un certo margine d’anticipo, la prossima Esplosione. Ho
controllato
la mappa dei venti, e le correnti spingeranno le radiazioni fino alla
zona denominata Arata, nel vecchio stato dell’Eritrea. Una
delle
poche aree non ancora contaminate.
Preparati perché siamo diretti lì.»
«No!
Aspetta, Robert. Tu devi vedere… quella cosa…
oddio!» urlò,
contorcendosi dal dolore.
In
quell’istante, tre uomini, con lo stemma della guardia
imperiale
nigeriana stampato sulle tute verdi, fecero il loro ingresso.
«Capo
Oganda, a rapporto, signore,» disse il più vecchio
facendo il
saluto militare. Robert, impegnato a soccorrere la ragazza, fece loro
un cenno distratto. «Ho il permesso di parlare?»
chiese il
militare. «È stato tutto predisposto. In
mezz’ora raggiungeremo
Vegas Ohuru dove ad attenderci ci sarà il
suo velivolo,
signore.»
«Robert,
ti supplico. Devi vederlo. Lui è… è
ovunque. Lo sento nella mia
testa. Lo vedo… oddio… è
ovunque,» continuò a farfugliare
Adelhaide, dalla sua posizione raggomitolata.
«Oganda,
procura un calmante. In queste condizioni non riusciremo a
trasportarla in superficie.»
«Sì,
signore!»
Robert
sollevò la ragazza come fosse un fuscello e la
consegnò agli altri
due soldati che le fecero indossare la sua tuta gialla. Poi,
affiancandola, l’aiutarono a camminare, quasi sorreggendola
di peso.
Attraversarono
la Wepu Radieshon, le cui porte erano state
squarciate da una
morsa ad aria compressa. Sembravano le fauci spalancate di un Abali.
«Cosa
è successo?» chiese Robert osservando un corpo
rattrappito in un
angolo. Avvicinatosi, poté scorgere una bomba a mano, con
ancora
l’innesco inserito, racchiusa tra le dita mummificate.
«Ma questo
è Sebastian.» Sussultò stupito.
«Non
sappiamo cose gli sia capitato, signore,» rispose uno dei
militari.
«È
stato lui! È stato lui! Io lo so. Io lo vedo. Io lo
sento,»
cantilenò Adelhaide tenendosi la testa tra le mani.
«Cresce e si
espande…» rise istericamente. «Non
mangia, lui beve.»
«Ma
cosa?»
«Non
prestatele attenzione. È solo sconvolta. Piuttosto, come
risaliamo?»
«Per
di qua, signore.» Oganda li aveva raggiunti spuntando da
dietro la
cascata. «Ecco il calmante.» Con
efficienza, inserì una
fiala blu in uno scomparto alla base della visiera della ragazza.
«Farà effetto tra dieci minuti, il tempo di
issarla con la
carrucola.»
Appoggiata
alla lamiera gelida del velivolo, Adelhaide ascoltava distrattamente
i discorsi degli altri. Si sentiva bruciare dall’interno, il
suo
corpo ardeva e prudeva e si contraeva sottopelle. Lame di fuoco le
incendiavano le vene, spasmi sottili come spilli le scuotevano le
membra. Avrebbe tanto voluto togliersi la tuta, strapparsela di dosso
per tornare a respirare a pieni polmoni, come se l’epidermide
avesse fame di luce. Razionalmente sapeva di non poterlo fare per via
delle radiazioni, ma il desiderio aumentava dentro di lei a pari
passo con la consapevolezza che qualcosa in lei stava mutando. E non
era niente di buono.
«Dobbiamo
portarla in un centro di cura per contagio da radiazioni,
signore,»
insistette uno dei soldati.
Adelhaide
percepiva le parole come se giungessero da un luogo straniero, quasi
prive del loro significato. La testa le doleva ed era colma di
immagini sconosciute, di sensazioni crude e primitive, fatte di
istinto animale. I suoi ricordi si confondevano e si fondevano in un
vortice
continuo, sempre più
stretto, sempre più veloce.
«Qualcosa
nel processo della Wepu Radieshon
è andato storto.
Forse per il fatto che è incinta. Non so. È una
tecnologia che non
avevo mai visto prima.»
«Non
sono incinta, non ho l’utero,» smozzicò
le parole come un
ubriaco, per poi ridere istericamente. La sua voce le era diventata
estranea, un’accozzaglia di suoni dal timbro troppo alto e
sottile.
Decisamente irritante. Scosse la testa che si mosse come un
palloncino in balia del vento. «Robert, mi hanno tolto
l’utero
all’età di sedici anni dopo avere subito un
incidente,» sciorinò
le parole lentamente, quasi faticasse a comprendere ogni suono
enunciato.
«Come,
scusa?» domandò perplesso, l’attenzione
finalmente catturata.
Adelhaide si lasciò andare a un’altra risata,
quasi un rantolo che
le gorgogliò
in
gola.
«Signore.»
Oganda, sull’attenti, porse un foglio a Robert.
«È appena giunto
questo comunicato dalla Nigeria, signore. La Quarantunesima
Esplosione ha raso al suolo tutta l’America settentrionale.
Ogni
segnale di vita proveniente dal bunker 14 in Nevada si è
spento.
Secondo i nuovi calcoli verremo investiti dalle radiazioni appena
sorvoleremo la Dancalia, nel Corno d’Africa, tra meno di
venti
minuti.»
«Quindi,
ciò che nascondeva l’Area 51 è morto
con essa. Ogni possibile
cura per risanare il pianeta è andata perduta.»
«Lui
non è morto, lui vive in ogni sua creatura, lui cresce in
me,» bofonchiò Adelhaide in contemporanea
all’uomo.
«Non
mi importa come, ma tra dieci minuti voglio atterrare sul
suolo di Arata. È un ordine!» dispose perentorio.
«Cosa dicevi a
proposito dell’utero?» chiese aggressivo alla
ragazza mentre la
scuoteva senza premura.
Adelhaide
fece una smorfia che le contorse il viso in una maschera orrenda.
Quell’odore, quel profumo di vita che le confondeva la mente,
era
davvero inebriante. Sentiva una brama ampliarsi nelle proprie vene,
un canto di sirena ammaliante. Allungò un dito e
sfiorò la
giugulare di Robert che batteva forsennata, accattivante e colma di
promesse. Il suo corpo ebbe un nuovo spasmo e si inarcò fino
quasi a
spezzarsi mentre venivano investiti dalle radiazioni.
«È
troppo tardi,» sussurrò roca, la sua voce
l’eco di un’altra.
Febbrilmente si tolse la tuta, la pelle arroventata che si
liquefaceva.
«Mi
avete tenuto su questo pianeta incatenato come una bestia, sfruttando
la mia conoscenza per i vostri scopi. Mi avete sottoposto a ogni tipo
di esperimento, mi avete violato in ogni maniera possibile e
immaginabile.» Robert estrasse un pugnale ma la ragazza, o
ciò che
ne rimaneva, fu più veloce e, afferrato il braccio, glielo
torse
dietro la schiena, spezzandolo. Le sue urla attirarono i soldati ma
lei si fece scudo con il corpo di Robert. Adelhaide inspirò
l’odore
dolciastro che
proveniva
dall’incavo del collo dell’uomo e si
leccò le labbra affamata.
«Siete
così stupidi, voi umani. Così facilmente
abbindolabili,» rise, un
suono vuoto, inumano. «Mi prenderò tutto
ciò che vi è più caro:
la vostra stessa vita. Spazzerò via dall’Universo
la vostra
inutile esistenza,» sentenziò lapidario. Con un
salto atterrò sui
soldati e, dopo una breve lotta, li scaraventò contro le
pareti del
velivolo, tramortendoli.
«Ma…
cosa sei? Come fai a parlare attraverso la ragazza?» biascicò
Robert, stringendo
i denti dal dolore.
«Io
sono tutto e niente. Sono un popolo errante che migra ovunque
ci sia cibo. Il mio gregge vive con me e dentro di me. Prendo
possesso degli ospiti in cui inietto le larve, rendendoli
me, attraverso quella che voi chiamate Wepu
Radieshon.»
«Quindi
gli Abali in Nevada erano…»
Robert inghiottì a vuoto. «E
tutti gli altri sono…» balbettò senza
trovare il coraggio di
concludere la frase.
Un
leggero rollio fu l’unico segno che il velivolo stava
atterrando.
Adelhaide denudò i denti, lunghi e taglienti come rasoi.
«Ci
siamo,» disse annusando l’aria avido, scrollandosi
di dosso il
resto dell’involucro che un tempo era la ragazza. Davanti a
Robert,
troppo terrorizzato per urlare, a conferma della sua tesi, apparve un
Abali. «Appena io e la mia razza
saremo sazi, lasceremo
questo posto con la nave che mi avete gentilmente
ricostruito
e attende addormentata sotto questo suolo.»
Ma
Robert non capì cosa diceva, con quel linguaggio fatto di
latrati e
mugolii che gli ricordavano tanto il suo adorato cane Adholf.
«Poi
un
giorno,
seppure mi sgolassi, non
si presentò
alla mia porta. Lo trovai rinsecchito dentro un fosso. Ora
so
perché,» sussurrò del tutto
irrazionalmente mentre si arrendeva
alla Morte che gli stava succhiando via l’anima.
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
libri’ indetto
da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, ferma in un parcheggio commerciale, ho notato che il posto
auto era, appunto, 1441.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
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