PREMESSA
Sion è così Roccocò. E questa roba è angst.
Non che angst e roccocò siano due cose direttamente
collegate, per quanto ne so.
In buona parte PoV di Doko, perché mettersi nei panni altrui
è importante.
“Conosci il tuo seme” insegna il carlino di chi scrive, che
è un filosofo mica da poco.
Dedichine, dedichine!
A Doko. Con tanto amore çOç. Anche se sento che dovrò
preparare un sacco di tè verde, poi.
Alle Nespole, che dovranno cimentarsi nel nuovo gioco
dell’estate: “Scova la Nespolata”. Perché sì, fra queste lacrimevoli pagine si
annida una nespolata terrificante.
Ad Aphrodite, che ha scagliato oggetti contundenti
contro chi scrive, ed è la fonte d’ispirazione della nespolata di cui sopra. Presto
organizzeremo la Resistenza assieme agli altri sopravvissuti, non temere.
Appuntamento a mezzanotte in Piazzetta.
A Death Mask, che quasi certamente dopo questa roba
si trasformerà in Lavi e frignerà le lacrime dell’inferno, salvo poi finire
affettato. Che triste destino.
Ad Hades Sama, che non sa nulla di questa cosa, e che
si renderà conto dell’angst solo quando sarà troppo tardi. Ma non temere,
supereremo anche questa nel nome del sakè. E comunque, la sua Surplice mi sta
d’incanto. <3
~ The Everwaiting ~
But touch my tears
with your lips.
E così, era giunta.
Dopo tanto
aspettare, la battaglia.
Sospirata e temuta
come un sogno premonitore.
Era notte piena, il
momento più inaspettato per cominciare a combattere: la notte, solitamente,
significa fine, quanto la mattina significa inizio.
Doko avanzò di un
passo nell’aria salina che risvegliava il suo corpo intorpidito e un po’ lo
inzaccherava. L’armatura di Libra abbracciava le sue membra ritrovate come una
vecchia, paziente amica.
Un altro vecchio,
paziente amico, lo fronteggiava, fiammeggiando il suo cosmo inconfondibile,
sventolandolo come una bandiera di rivincita, e Doko ebbe l’istinto di tendere le
mani e lasciarsele scottare.
- Dokoyo. –
Era una domanda, a
cui Libra rispose di sì con enorme sollievo.
Sion alzò allora gli
occhi al cielo, interrogando le stelle. Gli venne così naturale farlo, anche
loro vecchie amiche, e poi sorelle per un certo tempo. Le guardò come se fosse
stato in procinto di tendersi verso di loro e raggiungerle, tanto che Doko
disse – No! –
Sion disse solo: –
Grazie. – a fior di labbra.
- Sion, amico caro
al mio cuore. Ti credevo perduto. –
- Non lo sono.
Combattiamo, ora, Doko. –
- Sei un’illusione?
Un trucco del nostro nemico? –
- Non lo sono.
Combattiamo, ora, Doko. –
Sì.
Dopotutto, la battaglia
non andava dimenticata.
Dimenticare lo
scopo per cui si era vissuti più di duecento anni solo a causa di due occhi un
po’ troppo grandi e pericolosi sarebbe stato disonorevole.
Libra non ci aveva
mai creduto davvero. Che la notte fosse una fine, e la mattina un inizio. Lui
si era lasciato Atene alle spalle che il sole ancora faticava a levare il capo
oltre l’orizzonte, e non aveva mai considerato quel momento come un nuovo
inizio. Piuttosto, come un lungo, lunghissimo intervallo.
Che lo aveva condotto…
… A questo.
Perché non riusciva
a stupirsene quanto sarebbe stato giusto?
Cominciò a spirare
un vento un po’ più fresco e un po’ più secco, che scompigliò i suoi capelli
già in disordine, mentre quelli di Sion, lunghissimi, ondeggiavano come ulteriori
strati del suo Cosmo. E la Via Lattea non avrebbe illuminato i marmi venerandi
della casa di Aries con più intensità nemmeno se fosse stata cosparsa di
dozzine di lune piene.
Due guerrieri che
non erano mai stati tanto soli come in quel momento, con le loro memorie
tradite e le loro speranze infrante soltanto in apparenza.
Aries che era
sempre stato dorato, e invece che cos’era quell’armatura atroce, disegnata in
punta di coltello e brillante di una luce che si inghiottiva ogni altro colore?
L’oro a bagnargli la fronte purissima, l’oro sulla sua pelle, l’oro fra i
capelli, l’oro ad incorniciargli gli occhi.
Oro della notte.
Oro della morte.
Segretamente, Doko
lo trovava bellissimo.
- Combattiamo. –
Ma lo disse con
troppo amore nella voce. Sion, finalmente, si aprì in un sorriso soffice e
svuotato da ogni malizia complottistica. Taceva perché la sua voce si stava
ammorbidendo pian piano nella sua gola, lo sapeva.
E comunque Doko non
ci aveva mai creduto davvero. Che la notte fosse una fine, ma anche che Sion
fosse un traditore. Aveva baciato le sue labbra innumerevoli volte, e non erano
quelle di un traditore. Le aveva trovate fresche e dolci come pesche appena
raccolte, altre volte calde come la luce del fuoco, altre volte sanguigne, e
poi chissà quante altre cose ancora, ma mai amare, mai.
- Combattiamo, sì.
–
Aveva una voglia
incontenibile di toccarlo. Quando il vortice di cosmo che li avvolgeva cominciò
a sciogliersi, poté farlo. Le sue mani irruvidite e umide di sudore corsero al
volto bello di Sion, catturandolo. Lui, Aries, formò un sorriso pieno di
condivisione che lo fece sentire stupido, ma incredibilmente capito.
- Anche tu, Sion,
cuor mio. – rispose a parole ad un abbraccio che voleva dire “Mi sei mancato”.
La casa di Aries
era vuota del suo coraggioso custode, e chiamava con dignitosa nostalgia il suo
antico signore. Sion prese Doko per mano, gli prese entrambe le mani, e fece il
primo passo indietro, guardandolo con gli occhi di chi invita ad entrare non
per la prima volta, ma per la seconda, e già ben sa che cosa dovrà accadere di
lì a poco.
Libra se le portò
alle labbra e le baciò punto per punto.
- Spegni. –
pronunciò Sion, scosso. – Il tuo Cosmo. Che il mondo si dimentichi di noi per
qualche tempo. –
Alcune colonne
erano abbattute, altre semidistrutte, ed era il sipario perfetto per loro due
che erano così vivi, oh, così vivi, mentre camminavano in fretta e senza mai
slacciare le loro dita.
Sì, la casa di
Aries si ricordava bene anche di Doko, ospite gentile di tante notti. La porta
si chiuse in magico silenzio alle loro spalle, senza che nessuno dei due
l’avesse sfiorata.
Temuta e sospirata,
la battaglia era cominciata.
This world has only one sweet moment
Set aside for us
E così era giunta.
Dopo la battaglia,
l’alba.
Che non era affatto
un inizio, tanto quanto la notte appena trascorsa non era stata una fine.
Circondò con un
braccio le spalle solide di Sion, che era rapito nell’ascoltare il suo cuore palpitare
energicamente nel petto. Per alcuni istanti fu come se, semplicemente, il tempo
fosse tornato indietro ad un’epoca remota, ma ammantata di altrettanta gloria.
La disperazione del loro stringersi era addolcita, però, dagli anni.
E dalla
consapevolezza di essersi già perduti. Faceva meno male di quanto Doko avesse
mai potuto pensare. Faceva male in modo diverso, non un macigno che ti stritola
il petto, ma uno stiletto che dilaniando la carne irradia vertigini e languore.
Chiuse gli occhi, pensando che morire con le dita di Sion affondate nel cuore sarebbe
stata la benedizione da chiedere ad Athena come ricompensa per tanti devoti
servigi.
Morire, dopotutto,
è il solo riposo per un Cavaliere di Athena.
- Vorrei che il
Maestro fosse qui. – disse Sion con un filo di voce. Come se i suoi
diciott’anni fossero davvero diciotto.
- Sarebbe
orgoglioso di te. –
- Non posso far
altro che pregare che Saga e gli altri riescano a compiere la loro missione. –
- Lo sai. Il
compito più gravoso di un capo è quello di mandare i suoi uomini a morire. –
- Vorrei gridare a
tutti loro la verità, come l’ho bisbigliata a te. –
- Verrà il momento.
–
Le carezze devote
fra i lunghi capelli sciolti acquietarono Sion, che smise la sua aria grave per
riprendere i morbidi assalti al suo petto. Lo carezzava audacemente, abbandonato
giocherellò un po’ con il suo capezzolo, sorrise sottilmente quando lo vide
inturgidirsi, e lo mordicchiò. Doko lo lasciò fare, ridacchiando tenue, di gola.
Era così appagato dalla presenza di Sion che lasciò che il soffio regolare dei
loro respiri coprisse ogni altra percezione e gli riempisse tutti i sensi.
Perciò sobbalzò
quando, all’improvviso, Sion trattenne il respiro, e si tirò su a sedere.
- Athena. –
Anche Doko l’aveva
sentito. Forte e chiaro, come se invece di spegnersi il cosmo divino fosse
sorto.
- Dobbiamo andare.
–
- Sì. Sbrighiamoci.
–
La luna era rossa
come la guerra. Non come il sangue, come la guerra. E faceva impressione per
quanto era grande. A Doko fece venire in mente certi colossali medaglioni posti
a sacra guardia dei più antichi templi, in Cina. Da bambino ne aveva visti a
decine, nelle località più disperse, incastrate fra le colline e i fiumi. Non
gli era più capitato di rivederli, dopo il periodo di addestramento: dal Goro
Ho non si vedeva alcun tempio. Quella luna, ora, sembrava pronta a rovesciarsi
sulle loro spalle con il suo peso immane, ma allo stesso tempo era anche una
guida. Il cono di luce spettrale che proiettava a terra tracciava un sentiero
netto, l’unico su cui ci si potesse fidare a mettere i piedi.
Sion era lacerato.
La parte più
razionale di lui esultava, ma il suo cuore sanguinava.
Doko ne conosceva
bene il motivo, gliel’aveva spiegato parlando fitto fitto per un minuto intero,
prima di lasciarsi interrompere dall’amore che pian piano li aveva sommersi come
un’onda potente e placida. Ma non poteva condividere l’orrore con lui, quello
che Sion aveva deliberatamente trattenuto fra i denti parlando, e che lui aveva
solo intravisto baluginare come una pozione tossica.
Cercò di non
pensarci troppo, mentre correva al suo fianco, con la coda dell’occhio su di
lui per cercare di saziarsi del suo profilo.
La notte insegue il
giorno, e il giorno insegue la notte. E Sion non era un traditore, ma un eroe.
- Che cosa accadrà,
adesso? – domandò di getto, continuando a correre. Ora che il cosmo sovrumano
di Athena si era estinto per insinuarsi in un mondo non loro – non suo, avrebbe
dovuto pensare, ma preferì non farlo – non ricordava nemmeno dove stessero
andando.
- Doko. Perché me
lo chiedi. Non hai paura di saperlo? –
- Ho paura, certo.
Te ne andrai, non è vero? –
Sion allungò il
passo. Falcate eleganti che tagliavano la via tutta in salita. Doko correva con
le gambe ancora molli di languore, e si stupiva di come Sion potesse restare
così superbamente ritto dopo aver patito per ore gli assalti di un guerriero di
Athena che aveva bramato di riaverlo fra le braccia per più di due secoli.
Rise, e si disse
che le sue capacità amatorie dovevano essersi un po’ appannate per via della
lunga astinenza forzata.
Rise, e si disse
che avrebbe recuperato in fretta, in un modo o nell’altro.
Dopotutto, ora che
lo aveva rivisto sapeva che era solo questione di tempo. Era vicinissimo, era
sempre stato vicinissimo, anche quando era salito fra le stelle, a brillare intensamente
su nella Bilancia per vegliare su di lui.
- Te ne andrai di
nuovo. –
- Dokoyo. –
- No, ti prego.
Sion, tu sai che non poteva bastarmi. Non poteva bastarmi la consolazione che
tu, forse, da qualche parte, chissà come, eri ancora con me. –
- Sì. Però battevo
nel tuo cuore. –
- Il mio cuore non
potevo abbracciarlo. Avrei prima dovuto strapparlo dal petto. –
- Dammi la tua
mano. Corriamo insieme ancora. –
Doko afferrò al
volo il palmo di Sion, guantato nella Surplice dai riflessi sinistri che era
prova del suo eroismo. Per quella stessa armatura, avrebbe perduto di nuovo la
vita dopo appena una notte di tregua.
Che poi, era stata
una tregua di schiaffi, che lui aveva incassato con ammirevole risolutezza,
negandosi persino l’onore del martirio per metter su una faccia cattiva che gli
riusciva magnificamente. Erano bastate poche parole, a lui, per capire che
l’aveva ritrovato soltanto per perderlo di nuovo.
Ma le loro speranze
erano state infrante soltanto in apparenza, perché, segretamente, Doko lo trovava
bellissimo.
- E’ l’alba. –
- Sì. È già l’alba.
–
- Oh, l’alba. –
Gli occhi di Sion
brillavano come splendide Afroditi, e Doko capì come si sentisse a vedere il
sole sorgere dopo tredici anni di buio, lo capì dal fremito elettrico delle sue
dita, che strinse ancora più forte.
All’improvviso, lo
sentì rallentare. Sion ansimava, come se d’un tratto le forze gli fossero
venute a mancare, e Libra non poté far altro che guardarlo terrorizzato e
implorare “no, no!”, con lo stomaco squassato da una nausea violenta e i
capelli soffici della nuca rizzati come aghi.
Non c’era davvero
più tempo. Nemmeno una briciola.
Who dares to love forever
Dopo l’alba, più
niente.
Non sarebbe giunto
più niente.
Doko guardava la
figura imponente di Sion, stagliata nel rovinoso panorama del Santuario, con
tutto l’amore con cui non aveva potuto guardarla per tanto tempo.
Sion che gli aveva
fatto il dono, o la cattiveria, di non andarsene subito.
- Sarà fra le mie
braccia, stavolta. – disse ad alta voce, fiero, come a dimostrare che aveva
deciso lui per l’altro.
Sion fece qualche
passetto dall’aria tremendamente instabile.
- Dokoyo. –
sussurrò, straziandolo.
Doko quasi lo
incenerì con i suoi occhi verdi come il coraggio e bagnati di disperazione.
- Quanto vorrei
restare qui a parlare ancora con te. –
“Ma che cosa dici.
Tu te ne stai andando, Sion, non io. Tu”.
E si odiò, per
averlo pensato. Al punto da non avere più la forza per guardarlo. Sion non lo
rimproverò.
“Resta.”
E invece disse: -
Aspettami. –
Sarebbe stato più
semplice.
Sion rispose che
l’avrebbe aspettato, ma questo non servì a placare lo strazio, non servì a
niente. Cominciò a tremare senza poterci fare niente, miserevole di ogni
miseria, ferito, ma non abbastanza a fondo perché potesse farla finita lì con
tutto quel dolore.
E siccome, quella
volta di tredici anni prima, aveva visto tutto, con gli occhi della mente,
stavolta si risparmiò almeno quel dolore. Ma non perse nulla del suo
incantevole svanire, perché lasciò svegli i suoi sensi tesi dall’angoscia:
doveva essere una prova di fuoco e di sangue per lui, un viaggio attraverso il
dolore, come unica via per uscirne.
- Saraba. Tomoyo. –
“Addio. Addio,
Sion, Sion mio.”
Quanto aveva
sperato di potergli almeno dire addio.
E mentre glielo diceva,
qualcosa si allentò nel suo petto, come benedetto dalla mano di Sion che lo
salutava con grazia. Respirò aria l’aria fresca e l’umidore delle proprie
lacrime come se fosse reduce da un’apnea lunga tredici anni. Riemerse sotto una
cascata di stelle, che erano Sion stesso che gli si dedicava con amore nelle
sue ultime ore di vita – e di solitudine.
Non fu fra le sue
braccia, ma fu davanti ai suoi occhi.
Vide l’oro
riaffiorare dai riflessi bluastri dell’armatura spettrale, e capì dov’era
rimasto nascosto: non negli occhi, non fra i capelli, no.
Nel sangue.
Sion della neve,
Sion fatto di sabbia, Sion della materia dei sogni. Pregò di poter baciare il
suo ultimo respiro, per poter raccogliere la sua anima e darle pace nelle
profondità della sua.
C’era sempre stato
spazio per lui.
Quanto erano stati
sfortunati, loro due, amanti caparbi, splendidi innamorati. Sion gliel’avevano
portato via crudelmente, e lui non era stato lì con lui, non gli aveva chiuso
amorevolmente gli occhi, nutrendo la sua anima delle lacrime che le spettavano.
Lontani per tutta
la vita, e lontani persino nella morte. La salvazione, dunque, poteva giungere
soltanto con un addio.
Dopo tanto
aspettare, la battaglia, e dopo la battaglia, l’alba.
E dopo l’alba, una
nuova battaglia.
Ché non esistono
veri inizi e vere fini.
Non esistono notti
né albe. Soltanto una lunga vita.
- E’ tempo di
andare. – disse alzandosi. Il fatto che Kanon dei Gemelli fosse lì ad
ascoltarlo era probabilmente del tutto secondario.
Aveva le gambe
pesanti di muscoli e di anni, ma qualche passo ancora, si disse, poteva farlo.
Presto,
prestissimo, l’alba sarebbe scomparsa dietro la più grande delle notti, e
allora, forse, avrebbe avuto riposo, il vero riposo di un Cavaliere di Athena.
Ne valeva la pena.
Chissà perché,
immaginava che Sion lo aspettasse dietro ad un immenso portale di pietra.
Who waits forever anyway…
ANGOLINO!
Nota:
“Everwaiting” è una parola che non
esiste. Ma credo che il suo significato sia abbastanza lampante. Qualcosa come
“la semprattesa”. Che sembra un incantesimo di Harry Potter, ecco.
Gli stralci di canzone sono tratti dalla celeberrima “Who
wants to live forever”, dei Queen. Perché è struggente, ma soprattutto perché
Gucci pensa che Freddie abbia le gambe più belle del mondo. Questo non è vero,
dato che le gambe più belle del mondo sono senza alcun dubbio le mie.
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Farai felice
milioni di scrittori.