Capitolo XXVIII
Insieme
Genzo
accarezzò il volto di Elena, illuminato dalla luce lunare
che filtrava
attraverso le imposte semiaperte della stanza d'albergo in cui si
trovavano, a
Roma.
I
capelli
biondi sparsi sul cuscino. Il volto sudato, ancora trasfigurato dal
piacere.
La
loro
intesa era cresciuta sempre più in quei mesi, dopo che
avevano cominciato a
viversi anche sotto quell'aspetto.
Gli
imbarazzi e le esitazioni si erano via via attenuati e diradati, fino a
sparire.
Non
c'era
zona del corpo in cui non l'avesse lambita, con le mani o con la bocca.
E
lei,
dopo un periodo di leggero impaccio, in cui si era lasciata soprattutto
guidare, aveva cominciato a giocare con maggiore disinvoltura con quel
lato di
sé che lui le aveva fatto scoprire, ogni volta di
più.
Le
posò un
bacio su una spalla e poi adagiò la testa sul suo petto e
chiuse gli occhi.
Lei
gli
passò le braccia attorno alla schiena e gli
accarezzò piano i capelli,
intenerita e sorpresa allo stesso tempo.
Che
fosse
Genzo Wakabayashi a posarle la testa sul petto chiedendole tacitamente
di
cullarlo, forse persino confortarlo … aveva sempre pensato
fosse lui il più
forte nella coppia e lei ad avere più bisogno di sostegno e
protezione.
Era
lui
che la consigliava, la spronava e la riportava alla ragione nei momenti
in cui
vedeva tutto nero e stava per scoppiare.
Il
suo
percorso universitario e lavorativo era stato fin lì degno
di quello di Genzo
in Bundesliga, Champions League e Coppa di Germania: stava sostenendo i
suoi
esami nei tempi previsti e con ottime valutazioni. Insieme a Gabriele
stava
preparando le sue allieve del corso di ginnastica artistica per le gare
del
Land della Baviera, e sperava in un buon piazzamento. Non aveva trovato
un'Arimi tedesca, ma era un gruppo di ragazze appassionate e con una
grande
voglia di imparare.
Genzo
si
era ormai adattato alla sua nuova vita a Monaco, dopo i primi mesi in
cui aveva
cercato anzitutto di non lasciarsi schiacciare dalle aspettative con
cui era
stato caricato un po' da tutti, chi apertamente, chi in modo implicito.
Con
lui in
porta, i dirigenti e i tifosi si aspettavano la Champions League, oltre
all'ennesima riconferma in Bundesliga. Era stato acquistato proprio per
completare la squadra, per renderla imbattibile anche a livello
continentale e
mondiale.
Quelle
spalle così larghe e quel fisico solido e possente
sembravano fatti per
sopportare qualsiasi peso. Così pensava chi lo conosceva in
modo superficiale.
Ma
lei
poteva dire di aver conosciuto l'uomo e non solo il calciatore. E di
conseguenza, anche quelle fragilità invisibili a chi
considerava solo
l'immagine pubblica di Genzo Wakabayashi, il Super Great Goal Keeper.
Pensò
ai
suoi racconti di quando era arrivato in Germania, le
difficoltà incontrate nel
doversi adattare a una società diversa, a un'altra cultura e
lingua. La lotta
quotidiana per essere accettato dai nuovi compagni di squadra, che lo
avevano
osteggiato dapprima per le sue origini giapponesi, poi per paura che
potesse
diventare titolare, visto che Schneider aveva intuito il suo potenziale
e lo
stava aiutando a farlo emergere.
In
quei
giorni difficili non aveva mai potuto rifugiarsi nell'abbraccio di sua
madre,
specie dopo che era stato selvaggiamente e vigliaccamente picchiato dal
portiere delle giovanili e da altri tre compagni di squadra. E poi, gli
altri
momenti critici che si era trovato a vivere nella sua carriera,
contando solo
su sé stesso per superarli.
In
fondo,
anche dopo la fine brusca e dolorosa della sua lunga avventura
amburghese aveva
cercato conforto, in qualche modo. La sua famiglia, i suoi amici
d'infanzia, la
storia con Asami.
Doveva
essersi sentito perduto, in quel periodo …
Avrebbe
voluto sussurrargli qualcosa, ma non disse nulla. Non ce n'era bisogno,
né lui
le aveva chiesto di farlo.
Genzo
poteva mostrarle il suo lato più fragile e umano, senza
vergognarsi o temere di
non essere capito.
Se
l'amore
era affetto e fiducia reciproca, allora il legame che li univa si stava
consolidando, giorno dopo giorno.
Erano
arrivati a Roma poche ore prima, dove Genzo avrebbe finalmente
conosciuto i
genitori di Elena.
Avevano
avuto giusto il tempo di sistemarsi nella stanza d'albergo prenotata da
un paio
di settimane, e poi erano bastati un'occhiata e uno sfiorarsi di mani
per
finire l'uno tra le braccia dell'altra.
La
ragazza
pensava di aver scelto il periodo giusto per farli incontrare: passare
qualche
giorno di vacanza insieme avrebbe dato a Genzo quella
serenità indispensabile
per affrontare quell'impegnativo scorcio di stagione.
Mancavano
pochi punti alla vittoria aritmetica del Meisterschale,
anche se proprio per questo nessuno, nel Bayern, si sognava di
abbassare la
guardia. E soprattutto, le semifinali di Champions League, che per
ironia della
sorte e forza delle rispettive squadre, avrebbe messo l'uno contro
l'altro le
quattro stelle della Nazionale giapponese: Tsubasa avrebbe sfidato
Genzo con il
suo Barcellona, Taro avrebbe affrontato Hyuga che con i suoi gol aveva
trascinato la Juventus a un passo dall'ultimo atto.
Era
ormai
aprile e Roma era baciata da splendide giornate di sole.
Giunsero
davanti all'appartamento della famiglia Rulli in tarda mattinata.
Ad
aprire
la porta fu la madre di Elena, che la accolse con un abbraccio. Poi
alzò gli
occhi, azzurri come quelli della figlia, e gli strinse la mano.
«Piacere
di conoscerti, Genzo.» gli disse, in tedesco.
Il
portiere ricambiò il suo saluto e la guardò con
ammirazione. Era molto bella e
fine nei modi. Con ogni probabilità Elena avrebbe avuto quel
volto, alla sua
età.
«Vieni,
ti
presento mio marito. Valerio, è arrivata Elena con il suo
fidanzato!»
Nel
salotto comparve un uomo non molto alto, piuttosto corpulento, con uno
sguardo
sveglio e vispo.
«Finalmente
vi vedo insieme dal vivo.» commentò con ironia,
nel suo bizzarro e un po'
claudicante tedesco dall'accento romano, riferendosi alle fotografie
apparse
sulle riviste di gossip tedesche e italiane, per via della
nazionalità della
"ragazza che aveva fatto perdere la testa al SGGK".
Lo
salutò
con una stretta di mano e gli mise le mani sulle spalle.
«Ci
credo
che prendi pochissimi gol. Uno come te incute soggezione solo a vederlo
tra i
pali della porta.» commentò, facendogli un
occhiolino.
Genzo
sorrise, divertito.
I
signori
Rulli erano come la figlia: non avevano atteggiamenti affettati e
cerimoniosi,
né mostravano inutili complessi di inferiorità o
ansia di piacergli. Nessun
compiacimento né presunzione per il fatto di avere una
figlia fidanzata con un
calciatore famoso, e parlavano del suo lavoro quasi come se fosse
un'occupazione qualsiasi. Valerio in particolare, dimostrò
di essere un ottimo
intenditore di calcio, ed Elena doveva certamente a lui la sua passione
per
quello sport.
Erano
persone semplici e lo stavano trattando come uno di loro, proprio come
aveva
fatto Carlo, quando l'aveva conosciuto nella palestra Shiroyama.
E
come
avevano fatto anche i nonni e gli altri zii di Elena, nelle ormai
diverse volte
in cui aveva pranzato con loro a Bad Tölz. Solo il piccolo
Sebastian lo
considerava una specie di semidio, ma dal punto di vista di un
dodicenne tifoso
sfegatato del Bayern era comprensibile. Ricordava la sua espressione
sbalordita
e incantata quando, insieme a Elena, si era presentato al centro di
allenamento
di Säßener
Straße, per conoscere i
giocatori della sua squadra del cuore, in particolare Schneider, il suo
idolo
di sempre.
Lo
disse a
Elena, quando lasciarono la sua casa per portarlo a fargli visitare un
po' la
città. I suoi genitori e parenti lo facevano sentire parte
della loro famiglia.
Di
quel
viaggio avrebbe ricordato un momento in particolare.
Seduti
sulla Fontana di Trevi, Elena gli fece una domanda apparentemente
strana.
«Sai
perché si usa gettarvi una moneta?»
«Certo.
È
la promessa di ritornare a Roma.»
Elena
assentì. «Non tutti sanno però che si
deve esprimere un desiderio, mentre si
lancia la moneta. Se lo si fa, questo ha grandi probabilità
di avverarsi.»
Lui
chiuse
gli occhi e scosse leggermente la testa, con un sorriso. «Non
credo molto a
queste cose.»
Elena
sorrise di rimando. «Tentare non nuoce. Dai,
provaci.» lo esortò, dandogli una
moneta.
«E
va
bene.» concesse, aprendo il palmo della mano. Si
girò e chiuse gli occhi, e
compì il lancio.
Elena
ridacchiò e gli passò un braccio attorno al suo.
«Quando
l'hai buttata, ho espresso anch'io un desiderio. Sono convinta che
è uguale al
tuo.» mormorò, con un ammicco.
La
prima
semifinale vide opposte il Barcellona e il Bayern Monaco.
Dopo
tanti
anni, finalmente Tsubasa e Genzo rinnovavano la loro sfida personale.
L'andata,
disputatasi in Germania, era finita a reti inviolate, rimandando ogni
risoluzione alla gara di ritorno.
L'incontro
iniziò in salita per la squadra tedesca.
Dopo
venti
minuti in cui le due compagini si erano esaminate a vicenda, un
intervento in
difesa di Payol diede avvio a una rapidissima azione dei blaugrana. Grandios
ricevette il pallone poco
prima della linea di metà campo e passò a
sinistra, verso Rivaul. Quest'ultimo
lanciò il pallone a Tsubasa, che anticipò
l'intervento di Magath e calciò verso
Luikal, che era scattato in avanti.
Genzo
tentò un'uscita, ma l'attaccante olandese passò
nuovamente il pallone al
giovane giapponese, che nel frattempo si era avvicinato ed era giunto
praticamente a tu per tu con il suo vecchio amico e rivale. Tsubasa
finse di
calciare con il piede sinistro, ma poi colpì il pallone con
il destro,
spiazzando Genzo.
Il
Barcellona passò così in vantaggio, grazie a
un'astuta finta di Tsubasa.
Il
portiere del Bayern Monaco digrignò i denti e
assestò un pugno sul terreno di
gioco, irritato con sé stesso per essersi lasciato ingannare.
Fece
un
profondo respiro, cercando di calmarsi.
Non
doveva
e non voleva più ricadere in quell'errore di
mentalità che lo aveva messo nei
guai un anno e mezzo prima: l'intima convinzione di non avere
più nulla da
imparare.
Il
kickboxing, uno sport in cui la scaltrezza e l'autocontrollo contavano
moltissimo, gli aveva insegnato anche questo.
Si
rialzò
e si riposizionò tra i pali della porta, con rinnovata
fiducia e
concentrazione.
Nelle
successive azioni del Barcellona, attese ogni volta l'ultimo passaggio,
prima
di intervenire. Diede istruzioni ai difensori e ai centrocampisti
affinché
formassero una rete che impedisse ai campioni di Spagna di avvicinarsi
all'area
di porta.
Tsubasa,
Rivaul e gli altri giocatori furono così costretti a
tentativi da fuori area.
Anche
Schneider retrocedeva verso il centrocampo in copertura, se necessario.
A
tre
minuti dal termine del primo tempo, il tedesco mostrò la sua
forza e capacità
di calcolo sottraendo il pallone a Tsubasa.
Karl
avanzò dalla trequarti fino all'area di rigore del
Barcellona, inesorabile come
un carro armato. Con un tiro preciso infilò il pallone nella
parte sinistra
della porta lasciata incustodita da Valtes, che aveva tentato una
precipitosa
uscita.
Il
pareggio turbò i giocatori della squadra spagnola, convinti
di avere costretto
il Bayern a giocare una partita tutta in difesa, subendo le loro
iniziative.
Inoltre, era un risultato che qualificava proprio gli avversari.
Nel
secondo tempo, il ritmo della partita scese, soprattutto da parte dei
giocatori
della squadra di casa, che avevano speso molte energie nei primi
quarantacinque
minuti di gioco.
Il
Bayern
ne approfittò dapprima con Levin che, con una serie di
finte, sfuggì alla
marcatura dei difensori e segnò con un tiro di straordinaria
potenza.
A
distanza
di pochi minuti, arrivò la doppietta di Schneider, con un
siluro da metà campo
che gli avversari quasi non scorsero.
Karl
strinse i pugni e alzò un indice al cielo, memore delle
giornate dedicate a
mettere a punto quel tiro con cui era riuscito, dopo tanto tempo, a
battere
Wakabayashi in allenamento.
Quel
gol
fiaccò ulteriormente il morale del Barcellona. I gol da
segnare per
riagguantare la qualificazione erano diventati tre … e
mancavano solo sette
minuti.
E
in porta
c'era Genzo Wakabayashi, che in quella stagione non aveva mai
subìto più di due
gol in una partita e aveva trovato il modo di imbrigliare le azioni
degli
avversari.
Sarebbe
servita più di un'invenzione, ma nemmeno Tsubasa sapeva
più cosa escogitare
contro l'unico giocatore che non gli era mai riuscito di sconfiggere.
Quegli
ultimi minuti furono poco più di un conto alla rovescia.
«Elena,
siamo in finale!» esultò Angelina, abbracciando la
cugina, che aveva i pugni
stretti dalla gioia.
Vide
Genzo
sorridere soddisfatto e scambiare strette di mano e pacche sulle spalle
con i
suoi compagni, per poi fermarsi a parlare con il suo amico e rivale di
sempre,
Tsubasa.
Ora
toccava al Paris Saint Germain superare l'ultimo ostacolo sul fin
lì strepitoso
percorso verso la finale: la Juventus, che quel trofeo lo agognava da
anni.
Sarebbe
stato fantastico vedere Genzo e Taro affrontarsi nello stadio di
Wembley, sotto
gli occhi suoi e di Kumi.
Tsubasa
batté una pacca sulla spalla di Genzo, che aveva appena
scambiato la consueta,
energica stretta di mano con Schneider.
«Non
c'è
niente da dire. Siete i più forti.»
«Il
più
forte è quello che vince. E noi non abbiamo ancora vinto
nulla.» replicò Karl.
Il
fuoriclasse giapponese lo guardò e fece un cenno
d'approvazione.
«Devo
rivelarti una cosa, Wakabayashi.» disse poi, mentre Schneider
si dirigeva verso
la panchina.
«Un
segreto?» rispose Genzo, con un mezzo sorriso.
Tsubasa
ridacchiò. Wakabayashi stava vivendo un periodo felice, sia
sotto il punto di
vista professionale sia sotto quello affettivo.
La
storia
con Elena aveva accentuato quel lato scherzoso che già
possedeva. E lo aveva
reso ancora più determinato e tenace in campo.
«Ho
evitato di dirtelo prima perché la scorsa estate ti ho visto
molto combattuto,
e non volevo influenzare la tua decisione. Ti ricordi quel sogno che
Sanae
aveva fatto durante il nostro viaggio dal Brasile verso l'Europa? Beh
… la
casacca che indossavi tu era proprio quella del Bayern
Monaco.» gli svelò.
Genzo
spalancò gli occhi, sorpreso ma anche divertito.
«Pensa un po' … Sanae
preveggente.»
«Già.»
«Allora
il
nostro scontro in una finale di Champions è soltanto
rimandato.» affermò,
strizzandogli un occhio.
Tsubasa
annuì. «Poco ma sicuro. Stasera ho capito che sei
tu la mia vera bestia nera. E
potrò ritenermi il calciatore più forte al mondo
solo dopo averti battuto.»
«Allora
credo che quel momento arriverà tra molti anni.
Forse.» lo punzecchiò, per poi
passargli un braccio attorno alle spalle, con una risata, a mostrare la
grande
amicizia che li legava, oltre ogni rivalità.
La
sera
successiva, nell'altra semifinale, il Paris Saint Germain
batté la Juventus.
I
campioni
d'Italia, che avevano vinto per 1-0 nell'andata disputata a Torino, si
portarono in vantaggio dopo pochi minuti con una cannonata di Hyuga, ma
nel
secondo tempo i francesi reagirono, dapprima ristabilendo la
parità con un
potentissimo tiro di Napoléon, analogo a quello
dell'attaccante giapponese, e
passando poi in vantaggio con una triangolazione tra Misaki, Leblanc e
Ochado
che mandò in confusione i centrocampisti e i difensori
bianconeri e si concluse
con la rete, a due passi dalla porta, del capitano della Nigeria.
A
pochi
minuti dalla fine, Gentile fece un intervento in scivolata su Taro,
appena
entrato in area di rigore dopo aver superato quattro giocatori
avversari con
una serie di dribbling.
L'intervento
fu giudicato falloso dall'arbitro, che assegnò un rigore.
Fu
Taro
stesso a presentarsi sul dischetto, dopo aver chiesto e ottenuto da
Leblanc,
rigorista designato, il permesso di batterlo.
Dopo
una
breve rincorsa, Taro calciò il pallone e lo mandò
in rete. A nulla valsero i
tentativi del portiere di deconcentrarlo, anzi finì per
buttarsi dalla parte
opposta alla traiettoria del tiro.
Sugli
spalti del "Parco dei Principi" proruppe la gioia dei tifosi di casa.
Kumi
scattò in piedi dal divano del salotto ed emise un
gridolino, al colmo della
felicità, coinvolgendo anche Reiko, che stava seguendo la
partita insieme a
lei.
Poco
dietro di loro, Shinji sorrise. Aveva appena finito di annodarsi la
cravatta e
aveva la ventiquattrore pronta sul tavolo.
«È
valsa
la pena fare una levataccia, allora.» commentò,
avvicinandosi allo schermo, in
cui si vedeva Misaki stringere i pugni e scambiare strette di mano e
pacche
sulle spalle con i suoi compagni di squadra.
«Puoi
dirlo forte!» gridò Kumi, voltandosi verso di lui
con un'espressione raggiante.
Il
suo
Taro aveva regalato al Paris Saint Germain la finale di Champions
League, e
l'altro
contendente alla "coppa dalle grandi orecchie" sarebbe stato il
Bayern Monaco!
Lei
ed
Elena si sarebbero ritrovate nello stesso stadio, anche se il tifo le
avrebbe
stavolta divise.
Taro
e
Kojiro si strinsero le mani.
«Stavolta
hai vinto tu, Misaki.»
«Beh,
un
po' per uno, Kojiro. Ai campionati scolastici del liceo mi hai sempre
battuto,
ora mi prendo la rivincita.» replicò, strizzando
un occhio.
Hyuga
sorrise e incrociò le braccia. «Ora affronterai
Wakabayashi e Schneider. Il
Bayern ha una difesa e un attacco formidabili, ma la tua squadra non
è da meno.
Potete giocarvela.»
«Non
ci
tireremo indietro. Più forte è l'avversario,
più grande è la motivazione.»
replicò Taro.
Kojiro
fece un cenno d'approvazione.
Il
suo
primo anno in Europa aveva fatto crescere ulteriormente Misaki: non era
più lo
spensierato ragazzino che si divertiva a fare splendide evoluzioni con
il
pallone, ma un calciatore maturo, grintoso, desideroso di mostrare
tutto il suo
valore e di ritagliarsi un ruolo da protagonista, pur continuando a
mandare in
rete i compagni in una posizione migliore.
Il
suo
stesso sguardo lo dimostrava.
I
due
ragazzi si tolsero le rispettive maglie e le scambiarono, stringendosi
la mano.
Taro
parcheggiò l'auto nel box del condominio in cui aveva preso
un appartamento nel
quartiere di Montmartre, a venticinque minuti di macchina dal centro di
allenamento di Camp de
Loges.
Gli
andava
bene così: abitava in una zona tranquilla e che conosceva
bene, e guidare gli
piaceva.
Pensò
alla
sua prima stagione in Europa, giunta ormai all'ultima fase. Con il
Paris Saint
Germain aveva vinto la Ligue 1 con quattro giornate di anticipo ed era
arrivato
all'ultimo atto della Champions League.
Sarebbe
stata una finale difficilissima.
La
favorita era, ovviamente, il Bayern. Da un lato, la pressione sarebbe
stata
tutta sulla squadra bavarese, dall'altro c'erano i risultati, che
giustificavano pienamente il ruolo attribuito.
Non
erano
tanto i gol messi a segno, comunque tantissimi, a preoccuparlo, quanto
quelli
subiti.
La
stagione di Wakabayashi era stata fin lì splendida.
Schneider
aveva avuto ragione nel definirlo il "tassello mancante" alla
costruzione di un Bayern Monaco capace di dominare in ogni competizione.
Nessun
infortunio, pochissime assenze dovute a ragioni di turnover, non aveva
mai
incassato più di due gol ed era andato molto vicino a
stabilire il record di
minuti giocati mantenendo la porta inviolata. La sua eccellente difesa
aveva
permesso al Bayern di vincere o comunque non perdere anche nelle
prestazioni
meno brillanti.
Ogni
volta
spostava l'asticella un po' più in su: la sua elevazione, la
sua potenza, i
suoi riflessi … tutti miglioramenti frutto anche degli
allenamenti di
kickboxing.
«Pensa
che
potresti entrare nel club dei pochi che sono riusciti a fare un gol a
Wakabayashi!» gli aveva detto Kumi, quando ne aveva parlato
con lei, al
telefono.
Forse
aveva avuto ragione Kinuyo, quando gli aveva detto che aveva bisogno di
una
ragazza
capace di condividere i suoi sogni.
Kumi
sapeva trovare il lato positivo in ogni cosa.
La
sua
passione per il calcio, la voglia di giocare e vincere era aumentata,
da quando
stava con lei. La chiamava quasi ogni giorno, per sentirla vicina
almeno con la
voce.
Tra
poco
meno di un mese l'avrebbe riavuta accanto a sé.
Genzo
scrutava con leggera apprensione i tabelloni con gli orari dei voli.
Mancava
ormai pochissimo alla sua partenza per Londra, dove di lì a
quattro giorni,
avrebbe disputato la finale di Champions League.
A
Wembley,
erede dell'omonimo stadio, tempio del calcio mondiale.
Elena
non
aveva lezioni da seguire all'università e aveva voluto
accompagnarlo
all'aeroporto: poteva e voleva salutarlo prima della partita
più importante
della stagione, il motivo per cui i dirigenti del Bayern avevano scelto
lui
come portiere.
Ogni
tanto
alcuni compagni, a qualche metro di distanza, gli lanciavano delle
occhiate
maliziose. Genzo era però abituato a fare finta di niente e
a liquidare tutto
con un mezzo sorriso, come a sottolineare la loro malcelata invidia.
Lei
gli
stava raccontando un episodio divertente accaduto
all'università, che lo fece
ridere.
Era
così
bello il suo Genzo, quando rideva … perché quella
risata così spontanea la
concedeva a pochi, e lei era tra questi.
L'altoparlante
annunciò il volo per Heathrow.
Lei
gli
posò un bacio sulle labbra. «In bocca al
lupo.»
«Ci
vediamo a Wembley.» replicò lui.
«Sì.»
mormorò, con un cenno del capo.
Le
sorrise
un'ultima volta, poi si voltò e si incamminò
verso compagni e allenatore.
Aveva
mosso pochi passi quando Elena sgranò gli occhi, come se si
fosse ricordata di
qualcosa all'improvviso.
«Ah,
Genzo!» lo chiamò, raggiungendolo e toccandogli un
braccio.
Lui
si
arrestò e si girò, con aria interrogativa.
«Dimmi.»
Lo
guardò
e abbassò la testa, esitante. Poi sorrise e puntò
gli occhi nei suoi.
«Ti
amo.»
Lui
quasi
trasalì. Il suo cuore perse un battito, e un lampo di
emozione gli attraversò
le iridi nere. Per un momento gli sembrò che tutto, attorno
a lui, si fosse
fermato e fosse rimasta solo Elena, di fronte a lui.
Distese
le
labbra in un sorriso e la attirò a sé.
Le
accarezzò una tempia con le labbra.
«Anch'io,
Elena.» mormorò, sfiorandole l'orecchio e
provocandole un piacevole brivido.
«Wakabayashi,
vuoi giocarla questa finale oppure no?» gridò un
irritato Frank Schneider,
mentre la speaker annunciava per la seconda volta il volo con il quale
la
squadra doveva imbarcarsi.
«Arrivo,
mister!» rispose Genzo di rimando, staccandosi con riluttanza.
Scambiò
un
ultimo sguardo con Elena, poi afferrò la maniglia del
trolley e si voltò,
andando a raggiungere il resto della squadra.
Elena
lo
accompagnò con lo sguardo finché non
sparì verso il gate.
La
partita
più attesa della stagione infine arrivò.
Elena
e
Kumi, sedute in tribuna a poca distanza da Mikami e Katagiri,
attendevano
trepidanti l'ingresso in campo dei calciatori.
A
Wembley,
stavano per affrontarsi in campo le due squadre più forti
rispettivamente in
Germania e in Francia, entrambe fresche vincitrici di Bundesliga e
Ligue 1,
pronte a contendersi la Coppa dei Campioni oggetto del desiderio di
ogni
calciatore e allenatore, che troneggiava fuori dal tunnel degli
spogliatoi, in
attesa di essere incisa con il nome e di essere ornata con i nastri
recanti i
colori sociali del club vincitore.
Ad
assistere alla gara erano giunti anche molti famosi giocatori, tra cui
Kojiro
Hyuga accompagnato dalla fidanzata Maki, Shingo Aoi, Kaltz e alcuni
campioni
del Real Madrid.
I
calciatori della "Generazione d'Oro" avrebbero certamente assistito
in tv alla "partita dell'anno", incuranti del fuso orario,
così come
Tsubasa e Sanae a Barcellona.
Il
Bayern
appariva praticamente privo di punti deboli, con Wakabayashi in porta e
Schneider, Levin e Sho in attacco. Una squadra ricca di campioni in
tutti i
reparti che incuteva timore soltanto elencandone la formazione.
La
speranza era che la creatività di Misaki e Leblanc e la
potenza di Ochado e
Napoléon scalfissero l'impenetrabilità della
difesa bavarese.
Gli
allenatori e i giocatori delle due squadre si erano scambiati solo
parole di
elogio, tranne che per una pepata querelle
a distanza tra Napoléon e Schneider, pretendenti al titolo
di capocannoniere
della competizione, in cui si era inserito Wakabayashi che, con la
consueta
ironia, rivendicava il ruolo di ago della bilancia, a vivacizzare la
vigilia e
far accrescere l'attesa, già alta, per l'inizio del match.
I
giocatori delle due squadre entrarono in campo, ognuno tenendo per mano
un
bambino o una bambina, insieme alla terna arbitrale.
Tutti
cercavano di non far trasparire l'emozione che doveva pervaderli.
Stavano
calpestando l'erba dello stadio di Wembley, di lì a poco
avrebbero giocato la
finale del massimo torneo continentale.
Nell'impianto
risuonò l'ormai celeberrimo inno della competizione.
La
mitica
"Coppa dalle grandi orecchie" stava lì a qualche metro, come
un
magnifico miraggio.
O
come un
bersaglio da centrare, come sembravano comunicare gli occhi glaciali di
Karl
Heinz Schneider.
I
cameramen e i giornalisti poterono gustare lo sguardo di sfida lanciato
da
Louis Napoléon a Karl prima e a Wakabayashi poi,
opportunamente ricambiato da
entrambi.
Più
cordiali e amichevoli le strette di mano e gli sguardi scambiati con
Misaki e
Leblanc.
Dopo
le
fotografie di rito, il Kaiser
e il
centrocampista francese si scambiarono i gagliardetti.
Il
rito
della monetina sancì il calcio d'inizio per il Bayern Monaco.
L'arbitro
fischiò. Il tocco di Levin verso Schneider diede inizio alle
ostilità.
Non
era
più tempo di sogni ad occhi aperti.
L'inizio
fu in salita per la corazzata tedesca.
La
difesa
e il centrocampo del Paris Saint Germain avevano bloccato le vie di
passaggio
verso Schneider e Levin.
Misaki
e
Leblanc, con la collaborazione di Ochado, cercarono di tessere una
serie di
passaggi che potessero mettere Napoléon o un altro giocatore
davanti alla
porta.
Louis
aveva fatto anche innumerevoli esercizi per potenziare le sue gambe,
nella
previsione e nella speranza di affrontare proprio Wakabayashi. Era
l'unico,
nella squadra, ad avere la potenza necessaria per segnare al SGGK un
gol da
fuori area.
Ma
il
portiere aveva predisposto la stessa ragnatela in cui era rimasto
avviluppato
il Barcellona: i difensori bavaresi arrivavano sempre in anticipo e le
rare
volte in cui non riuscivano a intercettare un passaggio o venivano
superati da
un avversario, Genzo bloccava il pallone con sicurezza.
Il
primo
tempo si concluse sullo 0-0.
Il
Bayern
Monaco aveva avuto poche occasioni.
I
rinvii
con cui Genzo aveva cercato di servire Levin, Sho o Schneider erano
stati
intercettati da Misaki o da altri giocatori su istruzione del
centrocampista
nipponico, che conosceva molto bene il suo vecchio amico e compagno di
Nazionale.
Kumi
sospirò, mentre guardava le due squadre rientrare negli
spogliatoi. «Come pensi
finirà?» chiese, rivolta a Elena.
L'italiana
si strinse nelle spalle e fece una piccola smorfia. «Non lo
so. Sembra una
partita a scacchi.»
«È
vero.»
intervenne Mikami. «Fin qui hanno neutralizzato le rispettive
azioni, una dopo
l'altra. Questa finale potrebbe anche decidersi ai supplementari o
addirittura
ai rigori.»
Katagiri
non sembrava completamente d'accordo con Tatsuo. «Il Bayern
sta facendo una
partita molto simile alla semifinale contro il Barcellona. Il Paris
Saint
Germain ha giocato e ha avuto qualche occasione in più, ma
nessuna davvero
pericolosa. Con Wakabayashi in porta, servirebbe un'invenzione di
Misaki o
Leblanc, ma sarei curioso di vedere Napoléon tentare un tiro
da fuori area. E
se la situazione rimarrà questa, probabilmente lo
farà.»
Le
parole
del giovane dirigente della JFA infusero ottimismo in Kumi, mentre
Elena fece
una smorfia, contrariata. Poi sorrise, con aria saputa.
«Schneider, contro il
Barcellona, ha segnato con il tiro con cui ha battuto Genzo in
allenamento,
dopo mesi. Napoléon dovrà fare un tiro ancora
più potente.»
Nel
secondo tempo, il Bayern mostrò un atteggiamento
più propositivo e molte furono
le azioni in cui la difesa e il centrocampo parigini dovettero fermare
i
giocatori bavaresi, anche con interventi al limite del regolamento.
I
minuti
passavano e con essi cominciarono a diminuire anche energie,
concentrazione e
lucidità.
Louis
guardò Wakabayashi fermo tra i pali della porta. Aveva
sempre ritenuto il
portiere giapponese un presuntuoso, per via di quel soprannome: Super
Great
Goal Keeper.
Ma
doveva
ammettere che era più che meritato, non solo per le parate
strepitose: era
anche un vero stratega.
Il
modo in
cui aveva disposto i difensori, aveva vanificato persino le iniziative
e i
passaggi di due giocatori pieni di talento come Misaki e Pierre.
E
il suo
unico tiro in porta era stato bloccato senza difficoltà.
Ricevette
il pallone proprio dal giovane giapponese. Impeccabile, come sempre.
Avanzò
con
la palla al piede, cercando di spaccare la difesa bavarese, ma davanti
a lui si
parò il grande acquisto della sessione di gennaio,
l'argentino Galvan.
Preferì
passarla indietro, ancora verso Taro.
Fu
così
che prese la decisione.
La
partita
era ormai entrata nel recupero, i calciatori erano stanchi, la paura di
perdere
cresceva.
Tanto
valeva provarci.
Si
voltò e
corse verso la linea di centrocampo.
«Misaki,
ripassami la palla!» gridò, facendogli cenno con
le dita.
Taro
lo
accontentò.
Aveva
ragione … era quasi finita, perché non tentare il
tutto per tutto?
Louis
si
impadronì del pallone.
Fu
questione di pochi secondi, dare un fugace sguardo alla porta di
Wakabayashi e
calciare prima dell'intervento di Galvan.
Genzo
riuscì soltanto a deviare quella cannonata.
L'arbitro
assegnò il calcio d'angolo. Mancava un minuto alla fine dei
tempi regolamentari
…
Taro
si
incaricò di andarlo a battere.
Era
un'occasione d'oro. Poteva provare a segnare direttamente da
lì ...
Scosse
la
testa. Sarebbe stato bello, ma probabilmente Wakabayashi aveva messo in
conto
quella possibilità. No, serviva qualcosa di imprevedibile.
Dopo
una
breve rincorsa, colpì il pallone di sinistro, verso
Napoléon.
Louis
lasciò passare il pallone, notando Ochado posizionato meglio
di lui.
Il
capitano della Nigeria effettuò un tiro potente, che Genzo
respinse.
Il
pallone
finì sui piedi di Leblanc, che evitò i difensori
con una serie di dribbling e
passò a Misaki, che per scavalcare i difensori
eseguì un pallonetto.
Genzo
non
lo vide partire, perché alcuni giocatori gli avevano coperto
la visuale.
Non
sarebbe mai riuscito a raggiungerlo in tempo …
Un
intervento in acrobazia di Schneider, rientrato in copertura,
impedì al pallone
di varcare la linea.
La
sfera
finì sui piedi di Sho, che iniziò così
un'azione di contropiede.
Karl
scattò in avanti rapidissimo, anticipando i difensori
avversari, che si
ritrovarono così a doverlo inseguire.
I
due
fuoriclasse del Bayern correvano affiancati, a pochi metri di distanza,
in una
progressione inarrestabile.
I
giocatori del Paris Saint Germain cercarono di raggiungerli.
Invano.
Al
difensore Jean Rust non restò che tentare un intervento in
scivolata, doveva
evitare il gol, a costo di rimediare un cartellino.
Sho
fu un
secondo più veloce e prima di essere messo a terra dal
giovane francese calciò
un tiro fortissimo verso Schneider, che scaraventò in rete
un pallone carico
della potenza sua e del campione cinese.
Il
portiere non aveva neppure provato a muoversi.
I
bavaresi
esultarono, elettrizzati.
Genzo
alzò
i pugni al cielo, con un grido liberatorio.
Elena,
che
aveva trattenuto il fiato fin dal tiro di Napoléon,
scattò in piedi e mise una
mano sulla spalla di Mikami, che si girò e gliela strinse.
Kumi
strinse le labbra, condividendo lo scoramento dei giocatori francesi,
fermi con
la testa bassa e le mani sui fianchi, altri in ginocchio.
Era
finita
… l'arbitro, infatti, eseguì il triplice fischio
non appena venne battuto il
primo calcio da metà campo.
Sotto
la
luna piena che dominava il cielo di Londra, il Bayern Monaco celebrava
la
conquista della vetta d'Europa.
I
giocatori, l'allenatore, l'intero staff del Bayern salirono sul palco
allestito
in tribuna, per la premiazione. Tutti ricevettero la medaglia d'oro, e
toccarono o posarono un bacio sulla Coppa, come ad assicurarsi che
fosse reale.
A
Karl
toccò l'onore di sollevarla al cielo, in un'esplosione di
fuochi d'artificio e
tripudio di festoni e coriandoli bianchi e rossi.
L'attaccante
la cedette poi al padre e allenatore Frank, che aveva plasmato una
squadra che
aveva appena aperto un ciclo destinato a durare molti anni. Poi fu la
volta di
Levin, Sho, Wakabayashi e via via tutti gli altri.
Taro
e i
suoi compagni di squadra guardarono con un misto di rassegnazione e
invidia le
scene di festa e di giubilo dei giocatori del Bayern, presto raggiunti
da
mogli, fidanzate e figli.
Vide
Genzo
passare un braccio attorno alla schiena di Elena e stringerla a
sé, posandole
un bacio sulla fronte e facendole toccare la Coppa.
Le
medaglie d'argento al loro collo, dopo essere stati a un passo dalla
vittoria
erano una consolazione così magra che alcuni di loro, come
Louis, se l'erano
sfilata.
Il
volto
del cannoniere francese era ancora umido delle lacrime versate al
prolungato
fischio finale che aveva posto fine al sogno.
Il
suo
corpo disteso a pancia in giù sul terreno di gioco e le
braccia incrociate a
coprire il volto, era l'immagine della delusione del Paris Saint
Germain.
Taro
lanciò uno sguardo verso di lui, che di tanto in tanto
scambiava qualche parola
con Leblanc.
E
lui
stava quasi per dare la vittoria alla sua squadra ...
«Coraggio.
Oggi hanno vinto loro, ma prima o poi toccherà a
noi.» la voce di Kumi,
sedutasi accanto a lui, lo fece sobbalzare.
Era
così
assorto da non averla sentita arrivare.
Lui
sorrise.
«Ci
puoi
giurare.» disse, abbracciandola.
Kumi
seguì
Taro a Parigi, al ritorno da Londra.
Aveva
deciso di trascorrere alcuni giorni con lui, rimediando almeno in parte
al
lungo periodo di distacco.
Il
ragazzo
la ospitò a casa sua e la portò a visitare la
città: era rimasta incantata
dagli Champs-Elysées, dal panorama che si poteva vedere
dalla cima della Torre
Eiffel, dal Sacré Coeur.
Avevano
attraversato la Senna di notte sul bateau
mouche, e Kumi si era fatta fare un ritratto da uno dei
disegnatori di
Montmartre.
Il
dinamismo, l'entusiasmo e la curiosità della ragazza furono
la miglior medicina
contro la delusione.
Tornavano
a casa sempre a tarda notte.
«Non
riesci a darti pace?» gli chiese, mentre si preparavano ad
andare a dormire.
«Quando
ho
fatto quel pallonetto, credevo veramente alla vittoria. Wakabayashi era
fuori
posizione, ma Schneider era lì in copertura e noi ci siamo
fatti sorprendere
dal contropiede di Sho.»
«Ci
riproverai il prossimo anno, e se non dovesse andare bene, tra due
anni. Questo
sogno rappresenta la tua vita. È così: Taro
Misaki non potrebbe vivere senza il
calcio.»
«Soprattutto
ora che ci sei tu a condividere le mie gioie e le mie
delusioni.» disse,
cingendole la schiena.
Lei
prese
ad accarezzargli il viso e il petto.
C'era
ancora un po' di timidezza, di ingenuità nel suo modo di
toccarlo.
La
sollevò
tra le braccia e le baciò piano il collo.
Kumi
socchiuse gli occhi e sospirò.
Pochi
istanti dopo, giacevano insieme nel letto di Taro.
Kumi
aprì
gli occhi, destata dai raggi di sole che rischiaravano la stanza.
Il
posto
accanto a sé era vuoto, ancora tiepido del corpo di Taro.
Vi
passò
sopra una mano, lentamente.
Avvertì
un
profumo gradevole provenire dalla cucina.
Era
caffè
….
Si
alzò,
infilò la sua camicia da notte e, dopo una breve permanenza
nel bagno,
raggiunse Taro che, come aveva immaginato, stava preparando la
colazione.
Gli
si
avvicinò e si accostò dietro di lui, sbirciando.
«Che
si
cucina?»
Taro
alzò
la testa e si voltò.
Kumi
era
lì, con le mani dietro la schiena e l'espressione
incuriosita e molto
interessata.
Sorrise.
«Pane tostato, confettura di ciliegie e crème
au chocolat.»
La
ragazza
lo guardò con aria interrogativa. «L'ultima cosa
sarebbe?»
Taro
le
indicò il barattolo con la crema al cioccolato.
«Ah,
allora so cosa fare!» cinguettò, prendendo una
fetta di pane e mettendola sul
tavolo, coperto da una tovaglia e su cui era collocato anche un paniere
con
alcune brioche. Cominciò a spalmarla per metà con
la crema e per metà con la
confettura di ciliegie.
Taro
scosse la testa e sorrise.
Kumi
era
sempre così entusiasta e vispa …
Stavolta
fu il turno del centrocampista di mettersi dietro di lei.
Impietoso,
le scostò i lunghi capelli e la baciò sotto la
nuca.
La
sentì
fremere tra le sue braccia.
«Pare
che
abbia scoperto un altro punto sensibile …»
sussurrò.
Lei
emise
una risata soffocata. Le labbra di Taro presero a percorrerle una
spalla, e le
sue mani si posarono sul suo grembo.
La
fetta
parzialmente spalmata rischiò di scivolarle dalla mano.
«Ehi,
avrei voglia di mettere qualcosa sotto i denti …»
protestò debolmente, cercando
di reprimere, senza successo, il piacere provocatole dal suo tocco.
Taro
ridacchiò e la sciolse dal suo abbraccio, permettendole di
sedersi a tavola e
iniziare a mangiare.
«Verrai
a
vivere qui con me, dopo aver finito il tanki-daigaku?»
le chiese, dopo essersi seduto a sua volta.
Kumi
alzò
la testa, un po' spiazzata da quella domanda così diretta.
Piegò le labbra da
un lato. «Non lo so … a Nankatsu ho la
cartolibreria, a Fuji la Uchiyama
Shoten. Qui a Parigi non ho niente, a
parte te. Non so neppure il francese.»
«Non
ti
preoccupare di questo, Kumi. Conosco una scuola molto valida. Una volta
imparato a esprimerti in un francese comprensibile vedrai che
sarà tutto più
semplice. E per quanto riguarda i manga … qui in Francia ci
sono tanti
appassionati di fumetti e di cultura giapponese. Troverai terreno
fertile.»
Lei
distolse lo sguardo per alcuni istanti, dubbiosa.
Era
una
richiesta impegnativa. Lasciare il Giappone, la sua famiglia e forse
momentaneamente il suo lavoro, per trasferirsi a migliaia di chilometri
di
distanza, dalla parte opposta dell'emisfero.
Amava
Taro, per mesi aveva sognato momenti come quelli che stavano
condividendo, e la
esaltava l'idea di costruire il suo futuro insieme a lui.
Ma
si
sentiva intimorita dall'idea di passare da una cittadina di poche
migliaia di
abitanti come Nankatsu, in cui ci si conosceva tutti o quasi, a una
metropoli
come Parigi, immensa e cosmopolita, ancora tutta da scoprire. E
capitale di un
Paese con una società, una mentalità, una cultura
molto diverse da quelle
giapponesi.
Confessò
a
Taro le sue perplessità e il sentirsi impreparata ad
affrontare un cambiamento
così radicale.
«Anche
a
me Parigi è sembrata subito troppo grande e troppo diversa,
quando sono
arrivato con mio padre. E questo nonostante fossimo abituati a continui
spostamenti. Ci siamo ambientati giorno dopo giorno, affrontando ogni
situazione, aiutandoci e sostenendoci.» le prese una mano.
«Tu
sei
una ragazza in gamba, Kumi. Non sei il tipo che si arrende alle prime
difficoltà. Inoltre ci sarò io ad aiutarti,
quando ti sembrerà di non farcela.»
La
ragazza
lo guardò, poi sorrise e gli accarezzò una
guancia e un angolo delle labbra con
un dito.
«E
va
bene. Magari mi metterò a studiare un po' già
quest'anno, così non arriverò
completamente digiuna.»
«Potrei
già insegnarti io qualcosa.» replicò,
con un'espressione maliziosa.
Kumi
ammiccò, di rimando. «Io ho già
imparato una breve frase. Senti se la pronuncio
bene.» ribatté, sporgendosi leggermente e
avvicinando la sua bocca all'orecchio
del ragazzo.
«Je t'aime.»
sussurrò.
Taro
spalancò gli occhi.
«Ripetilo.
Credo di non aver capito bene ...»
Lei
sorrise e inclinò la testa, intrecciando le dita sul tavolo.
«Se
mi
porti a visitare il Louvre, la Cattedrale di Notre-Dame e il "Parco dei
Principi".»
«Certo,
quella è la parte migliore, l'ho tenuta per ultima
apposta.»
Il
sorriso
di Kumi si allargò. «Allora te lo ripeto se lasci
a me l'ultimo croissant.»
disse, usando volutamente il
termine in francese.
Taro
alzò
un sopracciglio.
«Ah,
ma
allora avevo ragione: sei una piccola strega!»
La
ragazza
rise e prese la brioche, ancora fragrante, dal paniere.
Poi
la
tese a Taro, che ne afferrò una parte e spezzò il
dolce a metà, mentre le loro
bocche si fondevano nuovamente in un bacio.
Genzo
uscì
nel grande giardino illuminato dell'imponente e lussuosa villa, poco
fuori
Monaco, di proprietà del presidente del Bayern Monaco, il
signor Richter, dove
si stava svolgendo la festa organizzata per celebrare la vittoria del
trofeo.
Era
passata una settimana dalla finale.
I
giorni
immediatamente seguenti erano stati frenetici e permeati da
un'atmosfera quasi
irreale.
Aveva
ricevuto una caterva di telefonate e messaggi, dal Giappone e
dall'Europa. I
genitori, Hiroji e Annie con il contributo di Kenichi, Keisuke, Carlo,
i suoi
amici e compagni di squadra in Nazionale.
Aveva
passato più di mezz'ora a rispondere a tutti.
Poi
c'era
stato il giro sul grande pullman, con le strade di Monaco invase dai
tifosi in
visibilio. Infine, la lettura di tutti gli articoli celebrativi della
conquista
della Coppa dei Campioni, pieni di narrazioni al limite dell'apologia e
dell'epica.
Gli
sembrava di essere immerso in un sogno. Aveva già provato
sensazioni simili
quando aveva vinto i Mondiali juniores e l'Olimpiade, ma la risonanza
avuta sui
media di tutto il mondo non era paragonabile.
La
persona
che più di tutti aveva condiviso con lui quel senso di
appagamento e di
felicità era stata, oltre ovviamente al resto della
squadra, Elena.
Quando
erano arrivati alla festa, erano stati investiti da una salva di flash,
e la
ragazza si era stretta istintivamente a lui, come a cercare protezione.
Ricevette
molti sguardi ammirati e complimenti, e le vennero rivolte molte
domande sulla
sua relazione con il SGGK.
Ciò
le
creò qualche imbarazzo: era evidente che non era abituata a
tutto quel clamore.
Altre
donne presenti sembravano invece nel loro contesto naturale e aveva la
sensazione che deridessero la sua scarsa dimestichezza con
quell'ambiente.
Fortunatamente
non tutte: alcune di loro, come la fidanzata di Galvan e la moglie del
secondo
portiere Drenner, avevano dimostrato comprensione, trattandola con
simpatia.
Ciò
non le
impedì di chiedere a Genzo di ritagliarsi alcuni minuti
soltanto per loro ed
evadere per un po' da quell'atmosfera soffocante.
«Mi
sento
un po' a disagio.» ammise, appoggiandosi alla ringhiera del
portico.
Genzo
le
sorrise, comprensivo. Si mise di fianco a lei, osservando il grande
parco
illuminato, con le mani nelle tasche della giacca.
Elena
tirò
fuori il suo smartphone e scorse alcuni messaggi.
«Arimi
e
Mayuko ti fanno tanti complimenti.»
«Ringraziale
da parte mia.»
«Già
fatto.» disse, chiudendo la custodia e rimettendolo nella sua
piccola borsa.
Il
ragazzo
stava per dirle qualcosa, quando un rumore di porta che veniva aperta
li fece
voltare.
«Ehi Wakabayashi, torna
dentro per favore. C'è il
presidente che vuole accanto a sé i giocatori per un
discorso.» gli annunciò
Karl, con un'espressione seria, quasi seccata.
«Beh,
non
basta il capitano per questo?» replicò Genzo.
Karl
socchiuse gli occhi e scosse la testa, con un sorriso sornione.
«Tu sei stato
il grande acquisto della stagione, e Herr Richter vuole che tu dica
qualcosa a
tutti i costi. Non vorrai mica sottrarti.»
Il
portiere sospirò. «E va bene. Accontentiamo il
signor Richter.» disse, alzando
gli occhi al cielo.
Il
Kaiser
distese le labbra con un lieve cenno
del capo, e rientrò.
«Cosa
dirai nel tuo discorso?» chiese Elena, dopo che furono
rimasti nuovamente soli.
Genzo
diede un'alzata di spalle, con una piccola smorfia. «Immagino
che ringrazierò
il presidente, Herr Rummenigge e mister Schneider per avermi dato la
possibilità di giocare nel Bayern Monaco e che spero sia
solo l'inizio di una
lunga serie di trionfi.» affermò, come se stesse
recitando il programma di uno
spettacolo.
«Tutto
qui? Nessuna dedica speciale?» domandò alzando il
mento, con un sorriso
birichino.
Genzo
sorrise. «Quelle per me sono una cosa privata, lo
sai.»
Indugiò
su
di lei con lo sguardo, come se stesse cercando le parole adatte a dirle
una
cosa importante.
«Sai
Elena
… da quando stiamo insieme, ho la sensazione che ci sia
stata una vita prima di
conoscerti e un'altra dopo averti conosciuta.» disse,
riavvicinandosi.
La
ragazza
avvertì una sensazione di calore diffondersi nel petto.
Fece
un
profondo respiro e sorrise dolcemente.
«Io
non so
se sono davvero la donna della tua vita.» gli
confidò, con uno sguardo serio.
«Ma un modo per scoprirlo c'è.» aggiunse.
«Quale
sarebbe?»
Elena
inclinò la testa e sorrise. «Restare con te.
Seguire tutte le tue partite,
condividere soddisfazioni e delusioni e superare insieme i momenti
difficili. E
anche accompagnarti alle feste ufficiali, quando proprio non se ne
può fare a
meno.» ironizzò, alzando gli occhi al cielo.
Lui
sogghignò. «Non si può avere tutto
dalla vita.»
Elena
accennò una risata. «Dai, meglio rientrare,
altrimenti fai arrabbiare Karl.»
disse, mettendogli una mano su un braccio.
Il
portiere fece spallucce. «Io ho sempre la mia carta da
giocare, e lui lo sa.»
La
ragazza
chiuse gli occhi e scosse la testa, ridacchiando. Quando Genzo le aveva
raccontato della scommessa fatta a Madrid, era rimasta dapprima
incredula, poi
era scoppiata in una risata quasi incontenibile.
«Sei
tremendo!» esclamò.
Lui
rise
di rimando.
Le
passò
un braccio attorno alla schiena e lei gli si accostò,
lasciandosi avvolgere
dalla sensazione di protezione che lui sempre le sapeva dare.
Rientrarono,
stretti l'uno all'altra, sperando in cuor loro di vivere ancora molti
momenti
simili a quello.
Quattro anni dopo.
Le onde salivano e si smorzavano sulla
battigia con ritmo calmo
e regolare.
Genzo
ed
Elena passeggiavano ormai da un paio d'ore sulla spiaggia di Miho no
Matsubara,
un luogo speciale per entrambi: lì, per la prima volta, quel
pomeriggio di
cinque anni prima, avevano smesso di guardarsi come dei semplici amici.
Il
giovane
alzò gli occhi verso il cielo, azzurro e limpido.
Come
gli
occhi della ragazza che amava e che era ormai una presenza
indispensabile nella
sua vita.
Erano
fidanzati da ormai quattro anni, e da due condividevano anche
l'appartamento in
cui vivevano insieme da quando Angelina si era sposata con Mattias.
I
due si
erano stabiliti in una villetta, sempre a Monaco, e a Genzo era venuto
spontaneo chiedere a Elena di trasferirsi da lui.
Erano
tornati in Giappone una settimana prima, per trascorrervi parte delle
loro
vacanze.
Il
mese
precedente, avevano visto Arimi trionfare nell'all-around dei
campionati
mondiali di ginnastica artistica, svoltisi proprio a Monaco. E ora
tutti i
titoli erano per la ventenne ginnasta giapponese che aveva sbaragliato
le
grandi potenze statunitensi e russe.
La
ragazza
era andata a salutarli e ad abbracciarli in tribuna, dopo la
premiazione.
Per
ogni
traguardo raggiunto in carriera, oltre che a Mayuko Shiroyama, sarebbe
stata
eternamente grata anche a Elena Rulli e a Genzo Wakabayashi.
La
sua ex
insegnante aveva risvegliato la passione autentica, l'amore per lo
sport al di
là delle legittime ambizioni di vittoria.
Il
calciatore aveva saputo mettersi nei suoi panni, perché
aveva ragionato come
lei, in passato. E un po' di quella sicumera a volte riaffiorava,
seppure di
rado e in dosi tutto sommato limitate e persino benefiche.
Un carattere orgoglioso e
caparbio che aveva permesso a Genzo di mandare
in archivio un'altra annata ricca di soddisfazioni: il Bayern Monaco aveva
conquistato l'ennesima
Bundesliga e riscattato la delusione di un anno prima, patita contro il
Real
Madrid, vincendo la Champions League.
Continuava
a perseguire l'obiettivo di diventare il secondo portiere a ricevere il
Pallone
d'Oro.
Ci
era
andato vicino due volte, ma era stato sempre sconfitto nonostante i
trofei
vinti: in entrambe le occasioni era stato Schneider a precederlo.
Stesso
palmarès, ruolo diverso.
«Ho
capito
che non prenderanno mai sul serio l'idea di dare questo premio a me, un
portiere, finché non vincerò il
Mondiale.» aveva commentato, senza polemica nei
confronti del suo compagno di squadra e amico di lunga data, durante
un'intervista per il canale ufficiale online del Bayern.
Il
ragazzo
aveva ormai messo radici a Monaco: aveva prolungato il suo contratto
con il
club più prestigioso di Germania ed Elena aveva conseguito
la laurea.
La
giovane
aveva inviato il suo curriculum a molte aziende e nel frattempo
continuava con
successo il suo lavoro come insegnante di ginnastica.
Era
stato
un anno significativo non solo per loro, ma anche per molti amici e
persone
vicine.
Kumi
era
una delle autrici più apprezzate della Uchiyama
Shoten, ormai non più una piccola casa
editrice, ma una delle realtà
emergenti più interessanti del panorama dell'editoria
giapponese, per quanto
riguardava i manga e le pubblicazioni per bambini e adolescenti.
Taro
aveva
anch'egli rinnovato il suo contratto con il Paris Saint Germain,
resistendo
alle lusinghe del Real Madrid e della Juventus, pronte a sborsare cifre
ingenti
per averlo.
Ma
a lui
non interessava diventare un nababbo: ormai Parigi era di fatto la sua
seconda
casa e gli piaceva l'idea che i suoi compagni di Nazionale e amici
giocassero
ognuno in una squadra di un Paese diverso.
Il
fatto
che ognuno di loro conoscesse bene i campionati europei più
competitivi aveva
permesso alla Nazionale di giocare alla pari, e in diversi casi
battere, le più
forti selezioni europee.
Inoltre,
il rapporto tra lui e Kumi aveva trovato stabilità da quando
la sua donna si
era trasferita a Parigi. Terminato il tanki-daigaku,
per il centrocampista era stato naturale rinnovarle la richiesta di
andare a
vivere insieme a lui.
E
Kumi
aveva accettato. Dopo i primi difficili mesi di adattamento, aveva
cominciato a
farsi conoscere e apprezzare anche dal pubblico francese, senza
interrompere la
collaborazione con la casa editrice che l'aveva lanciata.
Shun
Nitta
e Madoka Shimokawa si preparavano al trasferimento in Inghilterra.
L'attaccante
era stato ingaggiato dall'Arsenal: aveva finalmente deciso per il
grande salto,
dopo tre stagioni in Russia, allo Zenit San Pietroburgo, in cui aveva
giocato
per potersi mettere alla prova in un campionato europeo senza
allontanarsi
troppo dal Giappone e dalla sua ragazza. Ma ora Madoka si era
brillantemente
laureata in Legge alla Keio ed era disposta a mettersi in gioco in
Europa. Era
sempre stata una studentessa dotata e avrebbe frequentato un corso di
specializzazione al King's College di Londra.
Nella
Premier League, Shun avrebbe affrontato Hikaru Matsuyama, ormai
affermato
difensore del Manchester United.
Anche
per
Asami Ujimori la vita era andata avanti. L'ereditiera aveva
metabolizzato la
fine della storia con Genzo, legandosi a un imprenditore nel settore
dell'edilizia, con cui si era sposata un anno prima.
Il
progetto di acquisizione della Ujimori Heavy Industries dalla
Wakabayashi
Electrics non era andato in porto, anche se sussistevano alcune
collaborazioni
e c'era stata una distensione nei rapporti tra le due famiglie.
Elena
sospettava che il motivo fosse legato ad Asami, che non voleva
rischiare di
avere ancora a che fare con Genzo.
Gli
affari
dell'azienda della famiglia Wakabayashi avevano però
prosperato.
Erano
state effettuate acquisizioni e stretti accordi di partnership con
aziende
giapponesi e anche europee, in particolare tedesche e britanniche, che
avevano
allargato le aree di competenza e rafforzato il prestigio e la presenza
sui
mercati.
Hiroji
Wakabayashi era riconosciuto come uno dei più validi e
capaci imprenditori
della nuova generazione e aveva un ottimo collaboratore nel fratello
Keisuke,
che dirigeva con competenza il dipartimento Ricerca e sviluppo.
Annie
teneva corsi di formazione in inglese per i dipendenti stranieri, per
avere più
tempo da dedicare ai bambini, che stavano crescendo e avevano bisogno
della
presenza costante della madre.
Con
i
figli che avevano preso sempre più in mano le redini,
Yasuhiro si era via via
defilato, continuando a presiedere la holding e il consiglio
d'amministrazione,
ma intervenendo raramente, pur senza mai far mancare i suoi
suggerimenti,
quando richiesti.
Genzo
si
voltò e vide Elena china su alcune conchiglie, che stava
raccogliendo ed
esaminando. Sorrise. Aveva mosso pochi passi in sua direzione, quando
il suo
smartphone squillò.
Era
Hiroji.
Accettò
la
chiamata.
Come
immaginava, lo aveva contattato per comunicargli che la riunione era
stata
fissata per la settimana dopo.
Genzo
era
entrato nel consiglio d'amministrazione della Wakabayashi Electrics due
anni
prima. Si era iscritto alla facoltà di Economia della LMU, e
il suo rendimento
era ottimo, pur non frequentando le lezioni per via dei suoi impegni.
Aveva
sempre portato a termine ogni cosa con il massimo impegno,
così sarebbe stato
anche con lo studio.
Dopo
tre
anni e numerose discussioni con un padre persistente e ostinato, Genzo
era
riuscito a trovare un compromesso tra carriera calcistica e impegno
nell'azienda di famiglia, pur continuando a dare priorità
alla prima.
«Ricordati
di venire a Yomiuri Land, domani!» si raccomandò,
infine.
«Lo
dici
proprio a me, Hiroji?»
Il
dirigente rise. «Hai ragione. A domani, allora.»
Genzo
chiuse la chiamata e rimise il suo smartphone nella tasca dei pantaloni.
Kenichi
avrebbe disputato la finale dell'ormai storico torneo delle scuole
elementari.
Lui
e
Daichi Oozora avevano trascinato la selezione della città di
Nankatsu, allenata
come sempre da Tadashi Shiroyama, che avrebbe affrontato un'altra
celebre
scuola, la Musashi.
«Genzo!»
Si
voltò nuovamente, e
stavolta vide Elena che stava correndo verso di lui, con un braccio
teso, a
mostrargli la grossa conchiglia che teneva in mano.
Indossava
un leggero vestito di lino bianco, che lasciava parzialmente scoperte
le sue
gambe. I suoi capelli oscillavano come lunghe onde auree.
«Guarda
questa, che meraviglia.» disse, mostrandogli sul palmo di una
mano, il grosso
guscio ovale dai luminescenti colori verde e blu.
Genzo
annuì. «Sì, è una delle
più belle che si possano trovare, su queste coste. Si
chiama abalone, oppure orecchia di mare.»
Elena
spalancò gli occhi. «Tanto bella la conchiglia,
quanto bizzarro il nome.» rise,
infilandola nella piccola sacca che aveva portato con sé.
«Il
suo
nome scientifico è Haliotis.»
replicò,
strizzando un occhio.
«Suona
già
meglio.» convenne, con un cenno del capo.
In
quegli
anni, aveva scoperto che Genzo era anche un esperto di conchiglie.
Era
stato
suo padre a insegnargli tutti i nomi, fin da quando lui e i suoi
fratelli erano
bambini.
E anche lei aveva finito per diventare
un'appassionata
collezionista e approfittava di ogni gita al mare per cercare e
raccogliere
qualche nuovo esemplare, di cui lui le forniva puntualmente il nome e
descriveva le caratteristiche.
I
suoi
occhi si posarono sulla pineta e poi spaziarono fino alla baia di
Suruga.
Erano
passati cinque anni dal giorno in cui, su quel punto della spiaggia,
erano
finiti l'uno addosso all'altra durante l'improvvisata partita di
pallavolo con
Taro.
Era
stato
allora che si era aperta la prima breccia in un cuore che era convinta
di avere
chiuso a doppia mandata.
Ricordava
l'ostinazione con cui aveva cercato di reprimere quei sentimenti che,
alla
fine, non era più riuscita ad arginare.
Guardò
il
ragazzo accanto a sé e pensò a ciò che
aveva rischiato di perdere.
Il
loro
era ormai un rapporto saldo, la loro sintonia e intimità era
tale che spesso si
capivano soltanto con lo sguardo.
Le
feste
ufficiali avevano continuato a essere il suo tallone d'Achille per
diverso
tempo, ma le numerose vittorie del Bayern l'avevano costretta ad
abituarcisi,
anche se non era ancora riuscita a perdere quell'istinto di stringersi
a Genzo,
ogni volta che i fotografi li bersagliavano con i loro flash.
Si
era
però ormai rassegnata a trovare, quando le capitava di
sfogliare qualche
rivista, fotografie sue e del portiere mentre passeggiavano per le vie
di
Monaco, come una comune coppia di fidanzati.
La
loro
normalità e la loro discrezione li aveva aiutati a vivere la
loro storia con
serenità.
Aveva
riallacciato i rapporti con Shiori. Tra loro non era tornata l'antica
amicizia,
ma se capitava di incontrarsi, scambiavano quattro chiacchiere,
parlando delle
rispettive vite.
Aveva
saputo così che Gianluca era tornato a Roma e continuava la
sua lotta per
conquistare qualche pezzo in più di autonomia.
Il
suo
atteggiamento verso la vita era cambiato. Aveva trovato uno scopo: si
era
iscritto all'università, dove studiava Informatica. Sperava
di diventare un
bravo programmatore.
Aveva
scelto non di buttarsi via, ma di darsi una possibilità.
Sarebbe
stata una lotta difficilissima, ma lui aveva deciso di intraprenderla.
Quella
notizia l'aveva spinta a chiedere a Genzo e alla sua famiglia di
finanziare,
con la loro fondazione, dei progetti per l'aiuto e il sostegno ai
disabili.
Richiesta
che era stata immediatamente accolta con favore da tutti i Wakabayashi.
«Guarda.»
gli disse, mostrandogli il suo smartphone.
Kumi
le
aveva inviato una foto scattata con Taro e con il signor Misaki. Erano
sul
terrazzo della loro nuova casa a Parigi. Il ragazzo la abbracciava da
dietro e
le posava le mani sul grembo. Ichiro sorrideva accanto a loro.
«Aspetto
un altro messaggio, a breve.» gli confidò.
«Kumi mi ha parlato di un ritardo
sospetto …»
Genzo
distese le labbra in un sorriso. «Sarebbe
splendido.»
Si
riferiva certamente alla loro coppia di amici, da cui avrebbero
trascorso
alcuni giorni di vacanza prima di tornare in Germania, ma anche a lui
ed Elena.
Ogni volta che la vedeva giocare con la piccola Aiko, che la adorava,
pensava
che il giorno in cui l'avrebbe vista tenere in braccio un figlio loro,
avrebbe
davvero potuto dire di aver avuto dalla vita tutto ciò che
desiderava.
«A
cosa
stai pensando?»
Genzo
abbassò la testa verso di lei e sorrise. «Il
prossimo anno voglio realizzare
almeno tre obiettivi.»
«Triplete, Mondiale
…»
Genzo
fece
un cenno d'assenso e rimase a guardarla, come se si aspettasse di
sentirla
menzionare anche il terzo.
«E
il
Pallone d'Oro?»
Lui
scosse
la testa.
«Quello
semmai è il quarto, e dipende da una giuria spesso
prevenuta.»
Elena
sbatté un paio di volte le palpebre con aria pensosa, poi
fece una piccola
smorfia.
«Devi
dirmelo tu.»
Genzo
piegò le labbra nel suo classico sorriso obliquo, poi trasse
un lieve respiro.
«A
quindici anni, si pensa che basti un pallone e giocare a calcio tutto
il giorno
per sentirsi felici. Poi diventando adulti, il proprio punto di vista
cambia.
Si comincia a sentire il bisogno di condividere la propria passione, a
voler
celebrare i successi e metabolizzare le sconfitte con qualcuno che non
sia
l'allenatore e i compagni di squadra.» disse, interrompendosi
brevemente e
guardandola attentamente. Lei inclinò la testa,
incoraggiandolo a continuare.
«Perciò
il
mio terzo desiderio è il più grande ed
è anche il più importante. Ma non posso
realizzarlo da solo. Mi serve il tuo consenso.»
Elena
spalancò gli occhi. Quella tensione che aveva avvertito poco
prima si stava
trasformando in una morsa che le stringeva il cuore.
Lui
sorrise ed estrasse dalla tasca dei pantaloni una piccola scatola
rivestita di
velluto blu, con l'effigie di una nota gioielleria.
«Genzo
…»
mormorò, giungendo le mani all'altezza delle labbra.
Lui
aprì
la scatola, facendo comparire un bellissimo anello in oro, impreziosito
da una
fila di piccoli zaffiri.
Lei
lo
guardò mentre compiva quei gesti, la vista parzialmente
offuscata dalle lacrime
che sentiva scorrere sul suo viso e le confermavano che era tutto
incredibilmente, magnificamente reale.
Allungò
la
mano sinistra, leggermente tremante, per permettere a Genzo di
infilarle
l'anello al dito.
Piegò
le
dita e guardò quel prezioso circoletto brillare sul suo
anulare.
Lui
le
accarezzò piano il viso, asciugandolo dalle lacrime.
Elena
alzò
gli occhi su di lui.
«Cominciavo
a credere che non me l'avresti mai chiesto.»
Genzo alzò un
sopracciglio,
poi le afferrò i fianchi e la sollevò in una presa
salda, ma senza farle male.
«Ehi!»
gridò lei, ridendo e prendendogli il viso tra le mani.
«Ti
diverte proprio afferrarmi così, a tradimento,
eh?» finse di protestare.
«Non
ci
rinuncerei per niente al mondo.» ribatté lui,
senza battere ciglio.
Avrebbe
voluto cristallizzare l'immagine che aveva davanti agli occhi.
Elena
era
bellissima ...
Il
vento
giocava con i suoi capelli biondi, e i suoi occhi azzurri sembravano
quasi
trasparenti per il riflesso del sole.
La
fece
scivolare giù piano, fino a farle raggiungere la sua stessa
altezza.
«Cosa
ti
ha fatto pensare che non volessi sposarti?»
«Non
hai
mai accennato all'argomento.» spiegò,
semplicemente.
Genzo sgranò gli occhi e la
guardò dispiaciuto, come a
scusarsi di averle dato quell'impressione.
Certo,
era
praticamente l'unica cosa di cui non aveva mai parlato, con lei.
Com'era
facile essere fraintesi …
«Ho
solo
voluto lasciare che ti concentrassi sui tuoi obiettivi, e aspettare che
li
raggiungessi.» la rassicurò.
Elena
dischiuse le labbra.
Sentì
i
suoi occhi inumidirsi.
«Genzo
...» mormorò, mentre lui la rimetteva a terra.
Aveva
voluto darle il tempo di costruirsi il suo futuro da donna
indipendente, prima
di chiederle di legarsi a lui ...
«Sarei
una
stupida se ti dicessi di no.» mormorò di nuovo,
accarezzandogli una guancia e
avvicinando il viso.
Si
scambiarono un bacio.
Quando
si
staccarono, rivolsero i loro volti verso il mare.
Due
anziani coniugi stavano passeggiando a pochi metri da loro, mano nella
mano e
dovevano aver assistito alla scena perché li stavano
guardando con
un'espressione intenerita e perfino commossa, forse ricordando
sé stessi da
giovani.
Elena
e
Genzo ricambiarono il sorriso e poi si guardarono, divertiti ed
emozionati allo
stesso tempo.
Lui
le
passò un braccio attorno alla schiena e la attirò
a sé, e lei gli posò la testa
su una spalla.
Ripresero
la loro camminata sulla spiaggia, osservando di tanto in tanto
l'orizzonte,
dove la luce del sole si rifletteva sulle onde del mare.
FINE
***Note***
Haliotis è un genere
di molluschi gasteropodi marini, conosciuti anche come aliotidi,
orecchie di
mare o abaloni. Hanno grosse conchiglie dai colori iridescenti e con
l'interno
rivestito di madreperla, le cui dimensioni variano dai 2,5 ai 30
centimetri.
Fonte:
Wikipedia
In
Germania, si usa portare l'anello sull'anulare sinistro durante
il periodo del
fidanzamento.
Nel
giorno
del matrimonio, viene spostato sull'anulare destro.
E il momento fatidico
è arrivato, seppure con un lieve
contrattempo.
Per me si conclude una piccola
"odissea"
durata quasi 10 anni tra stesure multiple, pubblicazioni, lunghe pause,
cancellazioni.
Ma sono contenta di non aver mai
negato una
possibilità a questa fanfiction e ai suoi personaggi.
Ringrazio tutti coloro che mi
hanno accompagnata in
questa lunga avventura, leggendo e/o commentando e inserendo questa
storia in
una delle tre liste, e chi potrebbe farlo in futuro.
Un grosso abbraccio a tutti voi.
Sandie