Lenkerthen Lyoko Cap 4
Terra
– Francia – Parigi – Domenica 18
Settembre 2005 – Ore 15:22
“Huy!
Mi sento tutta
l’Armata Russa
marciarmi in testa” fu questa la prima frase che disse Avier
non
appena si svegliò. Il capo
gli pulsava in un’emicrania lancinante che gli rese
difficile anche solo pensare, si sentiva disidratato come un profugo
nel
deserto e debole come un malato terminale. Quello era il peggior post
sbornia della sua vita,
ma
non era nulla
a confronto
dell’orticaria
che piagava la sua pelle. Cadere nel lago e farsi quella doccia
così
lunga la sera precedente avevano scatenato il peggio nella sua cute,
che ora era arrossata come non
mai e piena
di piccoli ponfi
nelle zone più sensibili. E
prudeva,
prudeva
terribilmente. Se avesse passato la notte nudo in un cumulo di lana,
non avrebbe sentito neanche
la metà di
quell’irritazione
infernale.
“Ehi,
come ti senti?” la voce di Jeremy fece sobbalzare il ragazzo,
la
sua mente era così confusa che
si era
dimenticato di avere
un compagno di stanza. Si
girò verso di lui, il ragazzo indossava
una camicia
a quadri neri e
rossi e un paio di pantaloni beige. Nel suo stato confusionale, Avier
vide qualcosa di profondamente interessante in quei pantaloni. Non
sapeva cosa, ma iniziò a fissarli intensamente, come
incantato. Il
suo sguardo però era puntato in modo un po’
infelice
“Mi
stai guardando il pacco?” il russo sobbalzò di
nuovo, poi ricadde
con la testa sul cuscino e iniziò a parlare fissando il
soffitto
“Ehi!
Ma da quando ti esprimi così? C’entra la mia
influenza? Forse è
meglio che non parli di questa amicizia a tua madre”
“Chiamala
amicizia… Vedo che ti sei ripreso comunque”
“Se
fossi al posto mio, capiresti che vorrei non averlo fatto” si
risollevò di nuovo stringendosi la fronte per il dolore e si
mise a
gambe incrociate sul letto, poi prese il suo borsone e
iniziò a
frugarci dentro
“Ti
serve qualcosa?” domandò Jeremy con tono
sinceramente preoccupato,
non poteva negare di sentirsi più accondiscendente nei
confronti del russo. Dopo quello che aveva visto, non riusciva ad
odiarlo. Non che gli stesse simpatico, ma non lo odiava.
“Acqua.
Tanta acqua” disse mentre estraeva un barattolo di crema per
la
pelle e una confezione di antistaminico dalla borsa. Jeremy fece per
andarsene, quando si fermò a metà strada
“Riguardo
ciò che hai detto ieri sera…”
“Lo
farò, l’ho promesso” il tono di Avier si
fece più basso e
serio, anche il suo volto perse quel tono di costante esaltazione che
lo caratterizzava. Per quanto fosse ovvio, capì come
l’argomento
fosse davvero pesante.
Jeremy
non ebbe altro da dirgli, ma Avier lo chiamò quando fu sulla
soglia
della porta, facendolo fermare
“Si?”
“Solo
una cosa. Potreste perdere dieci minuti prima di venire qui? Mi devo
spalmare questa crema. Non sia mai apriate la porta mentre la
strofino sulle…”
“Ho
capito”
Quando
Jeremy tornò con le bottiglie d’acqua e gli altri
tre Guerrieri
erano passati più di dieci minuti, ma preferì
bussare lo stesso.
Il
silenzio che si fece in quella stanza fu quasi innaturale, i quattro
se ne stavano seduti sul letto di Jeremy mentre sul suo Avier si
era messo a
gambe incrociate.
Solo i rumori provenienti
dall’esterno rompevano quel silenzio, si
sentivano
degli uccellini cantare e il vociare di alcune persone nella
scuola. Il Sole splendeva forte e la sua luce filtrava attraverso la
finestra, il cielo era sereno con solo qualche nuvola bianca candida
a decorarlo. Era una così bella giornata, perché
doverla
rovinarla con quella storia? Questi erano i pensieri di Avier in quel
preciso momento, forse dovuti al suo voler sfuggire a quella
promessa, a quell’obbligo. Però no, le cose
dovevano andare così.
C’era solo un’ultima cosa da fare, un ultimo gesto
prima di
iniziare.
“Dobbiamo
fare un patto”
“Che
genere di patto?” domandò Ulrich, stranamente non
acido come
sempre. Anche lui era rimasto scosso da ciò che aveva visto
la sera
prima.
“Un
patto da gentiluomini. Voi
quattro dovete essere gli unici a sapere la mia storia. E ripeto, GLI
UNICI. Né
i vostri altri due amici, né qualsiasi altro essere vivente
fuori
questa stanza deve saperla se non vi autorizzo io. Chiaro?”
sapeva
tanto di una minaccia e
il suo tono di voce non rassicurava. Si alzò in piedi e
allungò la
mano destra davanti a sé, i ragazzi apparvero confusi. Il
ragazzo
spiegò subito
“Stringetemi
la mano, tutti. Così sigliamo il patto. Si
vis pacem…”
Jeremy si alzò, guardò confuso il ragazzo e poi
gli strinse la mano
“…para
bellum?”
aggiunse con tono
incerto. Avier gli sorrise e gli pizzicò la guancia con fare
amichevole
“Bravo
il mio sapientone”
Dopo
pochi secondi tutti ebbero eseguito quel rituale. Avier
sentì di
non aver più nessuna scusa per rimanere in silenzio, si mise
a
sedere sul bordo del letto, giunse le mani incrociando le dita e
iniziò a raccontare
“Dunque…”
[Racconto
di Avier] – Russia – Dal 1988 al 2004
-Vladivostok
Il
mio nome è Avier Antonovic Anisimov. Immagino proprio che
questo lo
sappiate già. Eppure, mi fa sempre strano constatare come
nasconda
una storia così lunga. La mia storia.
Come
rivela il patronimico, mio padre si chiamava Anton. Anton Mikahilovic
Anisimov per l’esattezza. Un uomo greve e volgare, aveva
passato la
sua vita a pulire i cessi della metropolitana, a spazzare
l’immondizia dalle strade e a incazzarsi con gli altri. Mia
madre
si chiamava invece Alma Gutiérrez, di famiglia spagnola
arrivata in
Russia per qualche motivo. Non ho mai saputo quale, così
come non ho
mai saputo come abbia incontrato mio padre, o se lo avesse mai amato,
o se papà avesse mai amato lei. Sulle ultime due, posso dire
che
tutto quello che so mi porta a pensare che non abbiano mai provato
nulla tra loro. A partire dalla mia nascita: i miei genitori si sono
sposati il 7 Ottobre del 1987, io sono nato 24 Aprile del 1988.
Capirete che, per quanto io sia gracile, dubito fortemente di essere
nato prematuro di due mesi.
Il
mio primo ricordo sono le urla di mia madre, un misto di rabbia e
disperazione che sembrava come distorcerla, rendeva la sua voce
sofferente e le consumava i nervi. Mio padre invece parlava poco, lui
alzava la voce una volta sola e poi passava alle mani. Lo fece anche
quella volta, diede un pugno a mia madre così forte che
rimbombò
per tutta la casa. Alle sue grida di rabbia e disperazione si unirono
quelle di dolore, facevano spavento. Solo mio padre riusciva a
rimanere indifferente davanti quello che causava, se ne andò
di casa
quella sera. Non sarebbe scappato, non lo faceva mai. Se ne stava
semplicemente lontano da lì per un po’, poi
tornava che puzzava di
alcol. Non so cosa sperasse di ottenere facendo così, di
certo non
si calmava.
Quando
se ne fu uscito, mia madre pianse ancora per un quarto d’ora,
poi
entrò nella mia camera. Io me ne stavo sotto le coperte,
avevo solo
quattro anni e pensavo che, così facendo, sarei stato
protetto dalle
paure e dai pericoli del mondo. Quel giorno imparai che non era
così.
Mia madre entrò nella mia camera e si mise ad abbracciarmi,
vorrei
dire che lo fece per rassicurarmi, ma neanche questo è
così. Ero
così piccolo, eppure già lo sospettavo, oggi ne
ho la certezza. Lei
non voleva che io mi sentissi meglio, voleva sentirsi meglio lei.
Magari pensava che avessi qualche superpotere del cazzo, che guarissi
al contatto. Che cazzo ne so!
Non
funzionò comunque, lei si innervosì ancora di
più, voleva
sfogarsi. Iniziò a stringere il braccio che mi stava
accarezzando,
poi infilò le unghie e mi graffiò. Ricordo ancora
la carne che si
apre e il sangue che inizia a colare, ed io che piango. Lei mi diceva
“Mi dispiace”, ma con uno sguardo… Uno
sguardo… Non lo riesco
a definire. Era come se dicesse “Mi dispiace che tu esista
solo per
soffrire”. Per lei, per mio padre, per i miei genitori non
ero
niente. Un incidente di percorso, un problema. Il mio primo ricordo
sono io che piango e mi sento incazzato allo stesso tempo, tradito
dalle stesse persone che avrebbero dovuto crescermi.
Quella
sera mi portò nel bagno per medicarmi, il pigiama si era
sporcato di
sangue e me lo fece togliere. Vidi il mio petto, c’erano
già dei
lividi. Sapevo di non essermeli fatti da solo, ma non ricordavo
quando mi erano stati provocati. È quello che pensate, avevo
solo
quattro anni e venivo già picchiato.
Il
futuro non poteva essere radioso, infatti non lo fu.
Crescere abituati al dolore, ai colpi di cinghia di mio padre, alle
unghiate di mia
madre. Alle urla, alle lacrime, al sangue… Non è
naturale, non lo
è affatto. La
paura che provavo… Io… Non riesco a descriverla.
So solo che
iniziai ad odiare la realtà, me ne volevo allontanare ogni
volta che
potevo. Parlavo poco, il meno possibile. A scuola non avevo amici,
non avevo neanche contatti, a malapena ascoltavo quello che dicevano
le maestre. Loro non si interessavano a
me dopotutto, non facevano mai domande nonostante vedessero che ci
fosse qualcosa di strano in me. Io so che lo vedevano!
Leggevo
molto, di tutto. La lettura mi tranquillizzava, mi teneva lontano dai
pericoli, mi illudeva di poter scappare. Ero troppo debole per
pensare di andarmene sul serio, di scappare da quella casa. Non
sapevo che fare, dove andare, come sopravvivere. Quindi rimanevo in
stallo, bloccato a non fare nulla. Mi sento così stupido!
E
il tempo passava, io diventavo più alto, le cicatrici aumentavano,
così come il mio odio. Ero ormai una sorta di schizofrenico,
non
riuscivo più a controllare ciò che mi passava per
la testa. Ero
pieno di tic, strizzavo gli occhi, facevo colpire le dita tra loro e
avevo spasmi facciali. Eppure non avevo il coraggio di fuggire o
di ribellarmi, non ci riuscivo. Sapevo di dover fare qualcosa, ma
avevo paura. Come cazzo potevo essere così imbecille? Ogni
volta che
ci ripenso me lo domando, me lo ridico in continuazione.
“Avier,
perché ci hai messo così tanto?
PERCHÈ?”. Se Dio esiste, mi deve
tante risposte.
Fatto
sta che un giorno ci riuscii. Ricordo tutto come se fosse ieri, sono
quei momenti della tua vita che dimenticherai solo alla tua morte,
non so se avete presente. Era il 4 Dicembre del 1997, le dieci di
sera. Dieci e ventuno minuti per l’esattezza, avevo visto
l’orologio poco prima che tutto iniziasse. Mio padre quel
giorno
era più incazzato del solito, pare che rischiasse di essere
licenziato poiché se l’era presa con il tipo
sbagliato, sarebbe
stata l’ennesima volta che capitava.
Quel
giorno era armato, aveva una pistola, una classica 9mm con un
caricatore mezzo vuoto. Aveva rubato quell’arma al cadavere
di un
tizio in un vicolo, doveva essere un teppista coinvolto in uno
scontro a fuoco. La sventolava
davanti mia madre minacciando
di sparare se non si fosse
stata
zitta.
Mia
madre pareva
ignorarlo,
era
particolarmente disperata “Moriremo di fame! Sei un
mostro!”
gridava, sempre più forte. Io me ne stavo in un angolo della
stanza,
paralizzato per il terrore. Non riuscivo a muovermi e volevo che
tutto quello finisse. Improvvisamente vidi mia madre afferrare il
braccio armato di mio padre mentre continuava a urlargli contro, lui
reagì d’istinto spingendola a terra ma, senza
accorgersene, fece
partire un colpo. L’arma non era rivolta verso mia madre, ne
tanto
meno verso mio padre, era rivolta verso di me. Ricordo
ancora il rumore dello sparo, il mio gettarmi
a terra in preda a un dolore lancinante al piede e il vedere la
scarpa bucata e grondante di sangue. Fu così che persi
il mignolo del piede destro, un colpo di pistola.
Quel
dolore così forte, così ingiusto. Fece svegliare
qualcosa dentro di
me, mi caricai come di adrenalina, tant’è che
riuscii a rimettermi
in piedi nonostante il dolore tremendo. In
quel momento esplosi, dissi tutto quello che mi era sempre passato
per la testa “Io
vi odio! Dovete morire! Morire!”. Continuai fino a quando non
vidi
mio padre
avvicinarsi
per
cercare di tirarmi un ceffone, di solito rimanevo impalato. Ma vi ho
detto, qualcosa era cambiato dentro di me. Riuscii a muovermi, a
correre. Dal soggiorno alla cucina, fino all’uscita. E poi,
libero.
La
notte era gelida, nevicava fitto e i miei piedi affondavano nella
neve. Provavo dolore a quello ferito, ma era come se non mi
importasse. Volevo soltanto muovere un piede dopo l’altro,
sempre
più veloce, più veloce. Non avevo neanche una
meta, non ero mai
scappato di casa e non avevo pianificato una fuga. Non pensai neanche
di dirigermi verso la stazione e prendere il treno, o di fare
l’autostop, o cose del genere. Continuai semplicemente ad
andare
diritto, attraversai vicoli squallidi e bui, sentii il puzzo della
degradazione, un odore a cui ero abituato ma che mi colpì
particolarmente quella volta. Poi arrivai fuori dalla città,
avevo
corso per almeno un’ora, le forze iniziavano a mancarmi ma
volevo
continuare. C’erano alberi ovunque, alberi altissimi e
ricoperti di
neve. Dal cielo continuava ad aumentare
l’intensità dei fiocchi
che cadevano, il freddo si faceva più aggressivo e io non
ero
vestito nel modo adatto. Lo sentivo consumarmi la pelle, divorarmi le
ossa, togliermi le forze. Se
avessi continuato sarei morto, ma non mi interessava. Mi sentivo
finalmente libero.
Dopo
un po’ mi mancarono le forze e mi accasciai a terra. Sentii i
gelidi cristalli di neve a contatto con il viso, quel freddo
così
intenso da provocare dolore. Ma ero felice, perché avevo
scelto io
di fare tutto quello. Nella morte, sarei stato qualcuno. Quel
qualcuno che avevo sempre voluto essere, che i miei genitori non
riconoscevano, vedendomi solo come il frutto dei loro errori. Non il
nulla, ma Avier Antonovic Anisimov. Morire
sarebbe stata una grande avventura…
“Colpo
di scena”, sono sopravvissuto. Non so come, credo fosse
impossibile
con quel freddo, ma ci riuscii. Sul momento pensai
che tutta la mia sfiga dovesse
venir
compensata
da qualche parte. Però so come continua la mia storia, non
mi sento
fortunato. L’unica
cosa certa è che
quella notte feci
un sogno, una figura angelica. Una donna bellissima, dai lunghi
capelli biondi ed emanante una luce sovrannaturale. Indimenticabile!
Mi
rialzai e
mi fu
chiaro che, continuando per la
foresta innevata,
non sarei andato da nessuna parte. Dovevo tornare in città,
nonostante non volessi, e trovare un modo più intelligente
per
scappare.
Ai tempi ero troppo ingenuo, non riuscii a passare inosservato, non
ero abbastanza scaltro. Un poliziotto mi riconobbe e mi prese di peso
quando tentai di scappare. Io iniziai a piangere, gli implorai di non
riportarmi a casa, lui mi disse che
non lo avrebbe fatto.
Ero
chiaramente confuso, non capii
cosa intendesse. Lui mi spiegò che, durante la notte, il
riscaldamento della casa si era guastato e aveva iniziato a far
fuoriuscire monossido di carbonio. Il monossido di carbonio non ha
odore, non ha sapore, è un veleno silenzioso e subdolo. I
miei
genitori lo avevano respirato tutta la notte senza accorgersene,
intossicandosi e morendone prima
ancora che capissero cosa gli stesse succedendo. E nessuno se ne
sarebbe accorto per giorni non fosse stato per un tipo a cui mio
padre doveva dei soldi. Da giorni diceva che sarebbe entrato con la
forza non avesse ricevuto quello che gli spettava, quella mattina lo
fece davvero, si ritrovò davanti due morti e
denunciò il tutto alla polizia.
Io
invece,
scappando di
casa, mi ero salvato la vita.
Ricordo
ancora il volto del poliziotto quando ebbe finito di raccontarmi
tutto, era sconvolto. Non per l’accaduto, ma per la mia
reazione,
per la mia assenza di reazione. Ero tranquillo come non lo ero mai
stato prima. Avevo perso la mia famiglia e la mia casa, eppure non me
fotteva un cazzo.
-Orfanotrofio
Lev Borisovic Kamenev
C’è
gente che ancora oggi si chiede che cazzo c’entri Lev Kamenev
con
gli orfani, sono convinto che neanche i costruttori di quel posto lo
sapessero. Magari erano tutti ubriachi alla scelta del nome, o
avevano scelto a caso da un libro di storia su uno scaffale. Tutte
teorie che si condividevano tra loro gli orfani, una delle poche cose
divertenti che si poteva fare lì. Per il resto, capii subito
che
quel luogo lo avrei odiato. Non appena misi piede in quella
struttura, mi sembrò di essere a casa. Voi capirete che nel
mio caso
non era una cosa positiva.
Quel
posto era l’Inferno. Mi ero liberato dei miei genitori e mi
trovavo
davanti ad altri soprusi, questa volta si erano moltiplicati. Gli
educatori erano gente senza qualifiche, si trovavano lì solo
per lo
stipendio, era evidente. A quegli esseri non si sarebbe dovuto
affidare un cane, gli avevano dato delle vite umane, dei bambini. Non
si facevano problemi ad essere aggressivi, a picchiarci e umiliarci.
Ricordo
una cosa che mi accadde qualche mese dopo il mio arrivo. Nonostante
avessi nove anni e nonostante i miei trascorsi, non mi ero ancora
temprato abbastanza. C’erano momenti in cui la paura prendeva
il
sopravvento, mi entrava nel corpo come una droga e mi rincoglioniva
totalmente, facendomi perdere il controllo del mio corpo. Una volta
un mio compagno lanciò una cucchiaiata della roba che ci
servivano
alla mensa verso un educatore che passava di lì,
l’uomo si girò e
credette fossi stato io a farlo.
Non
provò neanche ad accettarsi di aver ragione, mi
incolpò e basta.
Ero il capro espiatorio ideale, abbastanza incazzato e ribelle da
odiare le regole e non rispettarle, ma troppo piccolo e novellino per
capire come difendermi al meglio. Quell’uomo mi prese e
iniziò ad
aggredirmi verbalmente, non alzò neanche la mani su di me.
Eppure mi
spaventò tanto, come mai prima d’ora qualcuno era
riuscito a fare.
Era il suo modo di fare, il perché faceva tutto quello. Non
era
stupido e ignorante come mio padre, neanche isterico come mia madre.
No, lui era sadico.
Si
divertiva in quello che faceva, nel vedere soffrire qualcuno
più
piccolo e debole di lui. Quella era l’ultima cosa che non
riuscivo
a concepire, la pura crudeltà. Il piacere nel far del male,
lo vidi
nei suoi occhi e me la feci addosso. Non sto usando metafore, me la
feci LETTERALMENTE addosso.
E
lui se ne accorse. Vide i miei pantaloni inscurirsi, il pavimento
bagnarsi. Vide tutto questo, e sorrise. Mi fece ancora più
paura, ma
non aveva ancora finito. Mi costrinse ad alzarmi, mi abbassò
le
braghe e invitò tutti a guardare quello che era successo, a
ridere
di me. E lo fecero, come cani ammaestrati. Chi per paura, chi per
odio. Tutti presero a deridermi, a darmi del pisciasotto. Ricordo
così bene ogni cosa, sento ancora rigarmi il volto dalle
lacrime.
Non so per quanto tempo piansi in quel momento, ma so che dentro di
me c’era una rabbia, una rabbia incredibile. Una furia cieca
che
non appartiene a un essere umano, figurati a un bambino. Mi dissi che
avrei messo a ferro e fuoco quel posto. Ho mantenuto la
promessa…
Si,
ho dato fuoco a quel posto. Il 16 giugno del 1999, avevo undici anni
e me ne sentivo centoundici addosso. Il tempo in quel posto sembrava
non passare mai, ma io avevo un piano. Quando sei imprigionato,
rinchiuso nelle stesse mura uguali ogni giorno. Inizi a vedere cose
che non noteresti mai altrimenti, piccoli dettagli che sfuggono alle
persone più distratte. Errori, falle, imperfezioni. La mia
mente
iniziò a non provare emozioni, a voler soltanto calcolare
ogni cosa,
ogni passo per il mio obiettivo. Quale obiettivo? L’unico che
contava: la fuga. Avevo solo quella in mente, come se non potessi
pensare ad altro. Ragionavo solo su come fare, finché non
riuscii a
ideare un piano a dir poco perfetto. O almeno così
sembrò a me.
Durante
i due anni passati lì mi ero fatto sei amici, anche se forse
è
meglio chiamarli “compagni di sventure”. Erano
alimentati dal mio
stesso desiderio di libertà e potevo leggergli in faccia
come
sarebbero stati disposti a vendere la propria anima pur di farlo.
Ormai sapevo capire molte cose dalle espressioni facciali, non
avevano quasi più segreti per me. Dissi loro della mia idea,
ne
rimasero stupiti, poi aggiunsero qualche dettaglio e alla fine
accettarono. Pochi semplici passi, dovevamo solo aspettare la notte.
E
la notte venne.
Uscimmo
dalla stanza. Alla sera le porte venivano chiuse, ma la maggior parte
delle serrature erano scadenti e poco sicure. Artyom, uno di noi,
riusciva ad aprire la porta della nostra stanza con la cinghia della
sua cintura, lo fece anche quella volta.
Così
ci trovammo fuori, era buio e soltanto la luce della Luna che
filtrava attraverso le finestre illuminavano i corridoi.
C’era
qualcosa di surreale in quell’atmosfera, una forza mistica
che ci
spingeva ad andare avanti, a proseguire nel mio piano. So che sembra
un discorso delirante, pensai anche io ci fosse qualcosa di folle sul
momento, eppure in seguito anche gli altri dissero di essersi sentiti
diversi quella notte.
Io
mi diressi verso la porta d’acciaio che conduceva al piano
sotterraneo, lì c’erano i salvavita
dell’edificio, dovevamo
togliere la corrente all’orfanotrofio. Questo avrebbe
attirato il
controllore che era di guardia la notte. Succedeva ogni volta che
mancava la corrente, sarebbe stato così anche quella volta.
Il piano
sotterraneo era chiuso da una porta di ferro, quella Artyom non la
sapeva forzare, così come non sapeva forzare la cassetta di
sicurezza dove erano tenute le chiavi del cancello d’uscita.
Forse
saremmo anche riusciti a scavalcarlo, ma nessuno ne era sicuro e
nessuno voleva perdere tempo. Fortunatamente le chiavi di quella
porta di ferro erano tenute in un semplice cassetto, facendo
attenzione e rimanendo silenziosi si poteva raggiungere senza farsi
notare.
Rimasi
ad aspettare sperando che tutti stessero facendo bene le cose,
seguendo i miei consigli su come muoversi e dove nascondersi,
mantenendo anche l’orientamento senza perdersi nel buio. Per
un po’
ebbi paura, ma poi vidi arrivare due di loro e mi tranquillizzai. Uno
si chiamava Valery, aveva le chiavi di quella porta, l’altro
Boris
e aveva una tanica di benzina e un pacco di fiammiferi. Boris era
quello su cui avevo nutrito maggior timore, le taniche si trovavano
in un capanno all’esterno, servivano per alimentare un
generatore a
benzina usato per le emergenze. Per uscire dall’edificio
principale
dell'orfanotrofio bastava aprire una finestra, non erano fatte per
essere chiuse a chiave. Però quella del capanno non si
poteva
aprire, la porta aveva una serratura troppo complicata per forzarla.
L’unico modo era rompere il vetro con un sasso e sperare che
il
rumore non avesse attirato nessuno. Fortunatamente fu così,
lui
riuscì a far entrare quella tanica senza farsi notare. La
fuga vera
e propria poteva iniziare.
Come
previsto, quando abbassai gli interruttori del salvavita togliendo la
corrente, quel supervisore si apprestò ad entrare
lì. Il locale era
immerso nel buio, cosa che lo stranì perché la
luce di emergenza si
accendeva sempre, inoltre lo sentii chiaramente lamentarsi dello
strano puzzo di benzina che sentiva. Non poteva prevedere…
Quando
alzò gli interruttori, la luce tornò in quel
posto. Noi, io e
Valery, eravamo in quella stanza, dietro di lui. Nel buio non ci
aveva visti. Tenevo un fiammifero in mano, pronto ad accenderlo
“Non
muoverti e non parlare. Oppure appicco un incendio. Cazzo se lo
faccio! C’è benzina ovunque” gli dissi
cercando di essere più
minaccioso possibile. Dovetti essere particolarmente convincente,
perché quando si girò e vide me e il pavimento
bagnato ovunque dal
carburante, sbiancò. Mi sentivo così potente in
quel momento
“Le
chiavi della cassetta di sicurezza e della tua macchina. Lanciale a
Valery. ORA” basavo il mio comportamento sui film
d’azione che
avevo visto. Ce ne sono tanti con criminali e ostaggi, sperai che
fossero abbastanza realistici da funzionare. Sul momento parve di
sì,
l’uomo fece come detto. Gli intimai di non muoversi mentre
noi ci
spostavamo, non lo perdevo di vista un momento mentre mi dirigevo
verso l’uscita. Poi fui alla porta, lui cercò di
raggiungerci con
uno scatto, ma noi uscimmo prima e Boris chiuse immediatamente a
chiave la porta. Lo sentimmo insultarci, darci dei pazzi furiosi,
minacciare di ucciderci mentre prendeva a pugni la porta. Stava
facendo casino, avrebbe attirato sicuramente qualcuno. Bisognava
sbrigarsi.
Non
so se avete mai corso sapendo che tutto potrebbe finire male. Con
l’ansia galoppante che fa battere il cuore fortissimo, quasi
da far
male, come se potesse esplodere da un momento all’altro. Con
le
gambe che tremano ma allo stesso tempo non sentono fatica, drogate
dall’adrenalina. L’aria che ti passa attorno e ti
fa venire i
brividi sulla pelle. Il respiro irregolare e un misto di emozioni
incomprensibili dentro di te, emozioni che ti spaventano ma ti fanno
andare avanti. Non dimenticherò mai quella notte, dovessi
morire ora
non fosse così.
Facemmo
tutto a una velocità assurda, disumana. Aprimmo la cassetta
di
sicurezza e tirammo fuori le chiavi quasi strappando gli anelli di
ferro con cui erano agganciate all’interno. Poi prendemmo a
correre
di nuovo verso l’uscita, dietro di noi si sentiva confusione,
stavano capendo che qualcosa non andava e iniziavano ad uscire dalle
stanze. Alcuni educatori ci inseguirono, ma ormai eravamo prossimi
all’ingresso.
Uscimmo
fuori e sentimmo l’aria gelida della notte, non fredda come
quella
dei mesi invernali, ma lo stesso d’impatto. Davanti a noi
c’erano
Artyom e i restanti tre di noi: Kirill, Yuri ed Ermak. Avevano rubato
stracci e bottiglie dai bagni e dalla cucina e avevano creato delle
molotov, gli diedero fuoco e le lanciarono oltre noi tre,
sull’ingresso. Lì avevano sparso della benzina,
questo fece
propagare immediatamente le fiamme facendo fermare gli inseguitori,
che tornarono indietro per tentare di uscire dalle finestre. Noi
corremmo verso il cancello pedonale, lo aprimmo e ci dirigemmo verso
il parcheggio.
Ermak
aveva 17 anni e una famiglia di ladri di macchine, guidava meglio di
come parlasse (in senso letterale, aveva la zeppola), poteva guidare
l’auto del guardiano notturno se l’avessimo
trovata.
L’abitudinarietà di quell’uomo fu la
nostra fortuna, era
esattamente dove sapevamo fosse. Presi un sasso dal pavimento e lo
lanciai contro il finestrino del guidatore, riducendolo in mille
pezzi e permettendo a Ermak di sbloccare le serrature. Ci fiondammo
in sei sui sedili posteriori, mettendoci uno sopra l’altro
pur di
entrarci tutti. Ermak invece si mise alla guida, era così
abituato a
rubare le macchine che riuscì ad accenderla e a farla
partire in
pochi secondi. Quando raggiunsero il parcheggio, noi eravamo
già
sulla strada sparati alla massima velocità per allontanarci
da lì.
Noi sei lì dietro ci voltammo solo una volta per vedere la
luce
delle fiamme che proveniva dall’orfanotrofio. Ci fece sentire
meglio.
Non
avevamo un percorso preciso per la fuga, ma fortunatamente trovammo
una mappa e una torcia nel cruscotto della macchina. La guardai
attentamente e feci un itinerario. La prima metà del
percorso la
facemmo passando per un mucchio di strade secondarie, tra boschi
pieni di alberi altissimi e pianure desolate.
Fu un miracolo se non ci perdemmo o impantanammo da qualche parte. Ci
fermammo un attimo per sradicare le targhe dalla macchina usando
i mezzi che avevamo e tanta forza di volontà. Se ci
riuscimmo, fu
solo perché l’auto era davvero un vecchio
catorcio. In realtà non
eravamo sicuri se ci avesse facilitato o complicato le cose quel
gesto, ma a noi non interessò. Andammo sull’autostrada
a tutta velocità.
Cazzo!
Quel viaggio fu assurdo. Ricordo bene il vento che entrava dal
finestrino distrutto,
era gelido e ci rendeva
impossibile non tremare.
Mentre lo stare uno sopra l’altro in quei sedili posteriori,
nonostante Kirill si fosse spostato avanti, ci faceva sudare. Ermak
era stanco morto e ogni due per tre rischiava di addormentarsi alla
guida, dovevamo tenerlo sveglio. Iniziammo a raccontare
barzellette, battute che diventavano ogni volta più stupide,
e poi
più violente. Una
volta finite,
iniziammo a scambiarci
metodi fantasiosi per uccidere il personale dell’orfanotrofio
se lo
avessimo rincontrato. Avevamo
troppo odio in corpo, andava sfogato.
Poi,
non so neanche come, ci ritrovammo a discutere
del
futuro e del presente. Ci dicemmo che forse avremmo fallito, che la
polizia ci avrebbe fermati da un momento all’altro. Ma che
eravamo
riusciti in un’impresa impossibile, uscire fuori da quei
cancelli.
Nessuno lo riteneva plausibile, per noi quello era il carcere dove
saremmo rimasti per sempre. Mi diedero del genio precoce, dissero che
ero tanto minuto quanto incazzoso e poi mi soprannominarono
“piccolo
Frankenstein”. L’idea partì da Yuri, lui
era sempre stato
ritenuto l’intellettuale del gruppo, non
poteva essere altrimenti. Era
un bel ragazzo, dalla pelle candida e i capelli biondi. Anche se non
lo conoscevi, ti faceva percepire la sua grande intelligenza e
cultura. Era qualcosa nel suo modo di fare, di osservare le cose. Lui
mi piaceva e lo invidiavo. Riusciva a provare
piacere nella conoscenza, io ormai vedevo tutto
come uno
strumento,
un
mezzo
per ottenere ciò che volevo. Non so
se ho
mai apprezzato davvero qualcosa… Cazzo!
Sto
divagando.
Quella
notte, disse che avevo unito il genio del dottore capace di creare la
vita dal nulla al corpo pieno di cuciture della sua creatura.
All’inizio non capii a cosa si riferisse il secondo paragone,
poi
mi ricordai delle cicatrici. Non so perché, ma immaginarle
come le
cuciture del mostro di Frankenstein me le rese sul momento meno
dolorose. Mi sentii lusingato e sentii un forte legame con lui. Con
lui e gli altri. Ci sentivamo fratelli.
-In
lungo e in largo per la Russia
Vivere
per strada fa schifo. Se qualcuno vi dice che non è
così, ditegli
che si sbaglia. Se insiste, spaccategli il naso, se
l’è meritato.
Non si è dissimili dai ratti di fogna, sempre in movimento,
sempre
affamati e pronti ad azzannare il primo rifiuto che si trova. E se
incontri un ratto più grosso e prepotente, sei tu che verrai
divorato…
Sono
stato nei posti più degradati della Russia. Ho vissuto
l’isolamento,
la fame e la paura. Ho visto la gente morire, alcuni per mano mia. La
nostra stessa fuga era costata delle vittime, l’edificio
dell’orfanotrofio era una merda a livello di sicurezza, come
molte
cose nel grande paese freddo. Prese fuoco velocemente, ci misero
tempo a spegnere l’incendio e uscire da lì si
rivelò più
difficile del previsto per alcuni di loro. Sei membri del personale
e quindici bambini morirono, chi per il fuoco, chi soffocando. Quello
era ciò che avevamo pagato per ottenere la
libertà.
Per
quanto odiassimo quel posto, sapere di aver ucciso delle persone ci
segnò. Ermak era il più grande di noi, per vari
mesi non riuscì a
dormire sereno. Si lamentava nel sonno e si risvegliava dicendo che
li sognava gridare, che si sentiva un mostro. Anche gli altri non
furono da meno, Yuri piangeva in continuazione, era nato troppo
sensibile per il mondo in cui viveva, Kirill e Boris vararono
più
volte l’idea di dire tutto alle autorità, ma la
paura di tornare
prigionieri li fermava sempre. Artyom una volta tentò il
suicidio,
per fortuna lo fermammo in tempo. Fui io quello che resse meglio,
nonostante fossi il più piccolo del gruppo. Ormai non
pensavo ad
altro che essere il migliore, a fare ogni cosa al meglio e ad uscire
da ogni situazione. Ero così distaccato dalla
realtà che non mi
sentivo più umano. Forse non lo ero. Forse non lo sono
ancora…
Ora,
non crediate io voglia vantarmi. Dopotutto, non
c’è nulla di bello
in ciò che sto raccontando. Però fu grazie alla
mia inumanità che
quel gruppo sopravvisse. Riuscii a convincerli ad indurire il cuore,
a fare scelte difficili, ad usare le loro capacità per
andare
avanti. Io esploravo il mondo, comprendevo i meccanismi di quella
vita venefica che vivevamo. Dove nasconderci, dove dormire la notte,
dove lavarci. Imparammo prima ad elemosinare, poi a rubare, poi a
rubare nei posti giusti. Imparammo che esistono persone da non
infastidire, i più pericolosi di loro non erano i
poliziotti.
Crescemmo
così, diventando una vera e propria banda di piccoli
criminali.
Anche se col passare del tempo smettemmo di essere tanto piccoli.
Giravamo le piccole cittadine della Russia, non rimanendo mai nello
stesso posto. Indossavamo le tute Adidas, un vero e proprio simbolo
di potere per noi. Quando non commettevamo crimini, ce ne stavano
accovacciati lungo le strade o rintanati da qualche parte a parlare
tra noi bevendo vodka e mangiando semi di girasole. In
realtà
quest’ultima cosa la facevano solo loro, io non li ho mai
digeriti
bene.
E
così passarono i giorni, i mesi e poi gli anni. Non erano
tutti
uguali, ma erano vuoti. Però non ce ne rendevamo conto.
Quando sei
obbligato a uno stile di vita, fai di tutto per liberartene,
perché
ti senti costretto in qualcosa che non hai mai voluto. Ma quando
tutto è stato scelto da te, stai conducendo la vita per cui
hai
combattuto, per cui hai ucciso, allora è difficile accettare
di aver
sbagliato qualcosa. Ti convinci che le cose non possono andare meglio
di così, ti abitui alla mediocrità e preferisci
rimanerci,
probabilmente morirai credendo a queste cazzate. Questo a meno che la
vita non ti sbatta in faccia il miglioramento, come fece con me. Il
mio miglioramento si chiama Mary.
Ricordo
bene la prima volta che la incontrai, più di un anno fa.
Sentivo che
c’era qualcosa di anomalo in quella giornata, troppe cose che
mi
mettevano tranquillità. Il Sole che splendeva troppo per la
Russia,
l’aria troppo fresca e salutare… Qualcosa di
anomalo, appunto.
Ero
entrato in una biblioteca, lo facevo quando volevo stare un
po’ da
solo. Amavo ancora la lettura, anche se il mio rapporto era cambiato.
Non leggevo più per svago, non mi interessavano veramente le
storie
nei libri. Volevo solo far passare il tempo, infatti non ricordo
nulla di molti libri che ho letto in quel periodo.
Così
entrai dentro l’edificio, era un posto piuttosto malridotto,
ma non
c’era molta gente e governava un silenzio davvero piacevole.
Poi,
girando tra una sala e l’altra di quel posto, la vidi. Era
seduta
dietro un tavolo, leggeva un libro sulle civiltà aliene e ne
aveva
affianco accumulati tanti altri sulle galassie e le nuove scoperte
scientifiche. Era identica alla donna nel mio sogno, quello che avevo
fatto da bambino quando mi lasciai morire, ed era bellissima…
Dopo
un po’ la vidi girarsi verso di me preoccupata. Ero rimasto
impalato a fissarla e non avevo un’aria rassicurante.
L’avevo
spaventata, io le parlai del mio sogno. Mi aspettavo che scappasse,
chi non lo avrebbe fatto? Lei, a quanto pare. Rimase ad ascoltarmi e,
non so come, ben presto ci ritrovammo a parlare di noi. Quel giorno
restai in biblioteca molto più del solito.
Ora,
non so se voi abbiate mai incontrato qualcuno che vi completi. Una
persona che sembra fatta apposta per voi, con cui potete parlare,
scherzare, sfogarvi e lei saprà sempre come rispondervi.
Badate
bene, non COSA rispondervi, ma COME. È diverso, è
veramente
diverso. Mary era… È quella persona per me. Non
ho mai capito bene
le mie emozioni nei suoi confronti, so solo che mi sarei perso senza
di lei.
Ritornai
da lei più e più volte, ai miei amici non piaceva
questa storia.
Vedevano che stavo cambiando, che non ero più quello di
prima.
Avevano paura di ciò, per loro era un tradimento. Dopotutto,
io ero
il perno centrale della banda. Senza di me, sarebbero stati perduti.
Io gli dissi che non li avrei mai abbandonati, sarei stato per sempre
il loro fratello. Loro cercavano di convincersi che non stessi
mentendo, ma non ci riuscivano. Le stesse cose valevano per me. Le
peggiori bugie sono quelle che racconti a te stesso.
Un
giorno Mary mi disse che mi voleva bene come un figlio e voleva darmi
la vita che avrebbe dato a un figlio. Però non ero un orfano
come
gli altri, ero un criminale. Avevo una fedina penale tremenda, questo
mi avrebbe condannato a non avere una vita normale. Questo, almeno,
seguendo le vie legali… Disse di avere degli
“amici”, persone
che sarebbero state capaci di modificare le giuste carte e fare i
giusti passaggi per farmi uscire dalla gelida Russia e farmi avere
una vita comune in un’altra nazione. Però, poteva
farlo solo per
me. Falsificare l’identità di una persona era
già complicato, farlo per sette sarebbe stato improponibile.
Dovevo scegliere: avrei
sacrificato i miei amici per una vita migliore o avrei sacrificato
una vita migliore per i miei amici?
Camera
di Avier e Jeremy – Ore 16:30
“Io…
Ho fatto la mia scelta” Avier era riuscito a trattenere le
sue
emozioni per tutto il racconto. Parlava molto piano, con molte pause,
ciò testimoniava che non gli riusciva facile dire quelle
cose. Ma
quell’ultima parte, la chiusura della sua storia, gli stava
facendo
troppo male. Il suo respiro si fece affannoso e le mani iniziarono a
tremargli, nella destra aveva fatto girare tra le dita una moneta per
tutto il tempo, aumentando la velocità nei punti dove il
racconto
gli era più difficile.
Ora
invece la moneta era rallentata e si muoveva in modo molto
più
incerto, Avier non riusciva a tenere la mano ferma.
“Ciò
che voglio, lo ottengo. È quello che mi sono sempre detto,
io volevo
una vita migliore, l’ho sempre voluta…
Però, certe volte…
Scegliere… È così
difficile…” la moneta gli cadde di mano e
rotolò sul pavimento. Il russo si portò le mani
al volto e iniziò
a piangere a dirotto.Borbottò qualche frase poco chiara
nella sua
lingua
“Prostite,
brat'ya. YA ne khotel zapachkat'sya tvoyey krov'yu”
poi
si
sentì
una mano sulla spalla, alzò la testa mostrando gli occhi
bagnati e
arrossati. Ulrich si era avvicinato e lo guardava fisso, non aveva
pianto come gli altri tre ma era davvero provato
dall’ascoltare
quella
storia
“Io…
Credo di averti giudicato male” il russo gli tolse la mano da
lì e
sorrise. Un sorriso non forzato, spontaneo. Strano che gli riuscisse
nonostante tutto
“No,
non credo. Mi trovavi un imbecille, penso di esserlo. Ho solo una
storia complicata dietro”
Per
un mezzo minuto interminabile ci fu un silenzio tombale, nessuno
sapeva cosa dire. Fu Avier che risolse la situazione, il suo talento
era davvero innato in certe cose
“Vorrei
chiedervi
di uscire, almeno m’lady.
Devo
vestirmi.
Poi, credo che andrò a fare la spesa, devo preparare il kompot”
accennò un altro lieve sorriso. I quattro amici abbandonarono
la
stanza, lasciandolo solo. Però rimasero fuori la porta, come
se non
sapessero dove andare
“Che
cosa si dice ad una persona del genere? Cioè,
è…” Odd era confuso, si sentiva
soverchiato da una situazione in
cui non sapeva come agire. Anche per gli altri fu
così, Ulrich espresse i suoi pensieri
“Sapete,
prima mi dava fastidio e mi inquietava a volte. Ora quel ragazzo mi
mette timore”
“In
che senso?” chiese Jeremy. Si stava pulendo gli occhiali, si
era
accorto solo in quel momento che si erano appannati
“Pensateci,
più o meno tutti pensavamo che si credesse migliore di tutti
gli
altri, che fosse uno sbruffone come tanti. E se invece non lo fosse,
uno sbruffone? Ha vissuto una vita infernale, con problemi e
preoccupazioni che farebbero cedere un adulto… E le ha
superate
tutte, senza impazzire. Per quanto sia strano, per quanto possa avere
crolli psicologi, non è fuori di testa. Ha fatto scelte con
poche
certezze. Lui…” Ulrich abbassò la voce
“Lui
non aveva torri da disattivare e Ritorni al passato. Non poteva
sapere quali sarebbero state le conseguenze delle sue azioni, ma ha
deciso di scegliere e ‘ottenere ciò che
voleva’, usando
le sue parole.
Come gli può apparire una vita normale adesso? Secondo me
molto
prevedibile, credo che lui possa… Controllare gli eventi, in
un
certo
senso. Per
questo sembra prevedere tutto
e decidere sempre al meglio. Credo che lui sia veramente superiore a
tutti noi”
Stavano
per dire altro, ma Avier uscì dalla camera
all’improvviso. Il suo
volto era tornato simile a quello che aveva sempre, nonostante ci
fossero ancora i segni del pianto
“Vi
va di farmi compagnia mentre faccio la spesa?”
“Sicuro
di non voler stare da solo?” gli domandò Aelita,
il ragazzo
sorrise e poi rispose
“No,
meglio di no. Se sto da solo inizio a pensare al passato, ne ho
già
parlato troppo. A proposito, ricordate il patto” si
portò un dito
sul volto e fece il segno di tenere la bocca chiusa
L’Usato
di Renard –
Dalle
ore 18:00 alle ore 18:10
Forse
Avier non era sovrumano come credeva Ulrich, ma la capacità
con cui
tornò sereno fu incredibile.
Era
come se non avesse mai parlato di quegli argomenti, non
sembrava il ragazzo distrutto e sofferente che avevano visto.
Girarono
così per il centro commerciale a comprare frutti di ogni
genere,
perlopiù fragole, uva e cachi mela.
Le parole del russo, fino ad allora ascoltate con un certo fastidio
da tutti (tranne Aelita), diventarono stranamente interessanti. Non
c’era
più il
pregiudizio avuto
fino a quel momento, i modi di fare esuberanti ed istrionici del
ragazzo erano ancora fastidiosi a volte, ma lì vedevano
sotto
un’ottica diversa.
Impararono
che una delle cose più affascinanti di Avier era il suo fare
riflessioni non dà poco partendo da argomenti frivoli. Era
veramente
come se riuscisse a trovare schemi e significati nascosti dietro le
cose, tutto questo senza gonfiare delle idiozie dandogli più
significato di quanto ne avessero. No, vedeva oltre le cose con la
sensibilità di un artista.
Un
esempio particolare fu quando uscirono dal centro commerciale, Avier
voleva girovagare ancora un po’. Così si misero a
camminare per le strade della città, fin quando non
arrivarono
davanti la bottega di un rigattiere. Il posto si chiamava L’Usato
di Renard,
il ragazzo fu attirato da dei dischi esposti in vetrina
“Uh!
Io adoro la musica” si diresse correndo verso di loro, aveva
gli
occhi sognanti di un bambino. Si stava genuinamente divertendo in
quel momento. Dopo aver dato una rapida occhiata
a
quelli in
vetrina, entrò subito nel negozio e parlò con il
commesso.
“Salve,
è
lei il signor Renard?” il
commesso, un uomo di una trentina d’anni con un paio di
occhiali da
vista sul naso, alzò lo sguardo dal giornale che stava
leggendo e
rispose
“Certo,
cosa desideri?”
“Ci
sono altri CD come quelli esposti?”
“Dall’altro
lato di quello scaffale” gliene indicò uno al
centro del locale,
il ragazzo ci andò con rapidi passi e trovò i
dischi dentro uno
scatolone di cartone, impilati uno sopra l’altro affianco ad
altre
cianfrusaglie. Iniziò a prendere uno ad uno i vari album
facendo un
commento ad alta voce per ognuno
“David
Bowie no, non mi piace… I Queen non li apprezzo
più di tanto….
Col cazzo che ascolto gli AC/DC!” d’un tratto gli
apparve
un’espressione stupita sul volto, aveva tra le mani un disco
che
non pensava di trovare lì. L’album Girl You
Know It’s
True dei Milli Vanilli
“Nooo!
È da un sacco che lo cerco” ignorando totalmente
gli sguardi
incuriositi degli altri quattro, il ragazzo corse verso la cassa.
“È
originale, vero?” domandò dopo averlo poggiato sul
bancone, il
signor Renard era preso a leggere il giornale, il tono di voce
più
alto del ragazzo lo fece balzare di soprassalto e quasi gli caddero i
suoi occhiali dal viso. Se li sistemò, prese il disco, lo
girò
verso di sé e lo osservò. Nel farlo, un grosso
sorriso gli apparve
sul volto
“Si,
questo si. Sai, lo comprò mio fratello assieme a me tempo
fa, quando
eravamo ragazzini”
“Perché
suo fratello se ne vuole sbarazzare?”
“In
realtà, non posso sapere se avrebbe accettato di venderlo.
Lui…
Lui non è più tra noi”
“Oh!
Mi dispiace”
“No,
tranquillo. Non potevi saperlo. Piuttosto, dimmi, perché
sembri così
entusiasta di acquistare la più grande truffa della storia
musicale?”
“Truffa?”
Odd domandò ancora più curioso di prima, nessuno
conosceva i Milli
Vanilli. Tranne Jeremy, che disse quel poco che aveva letto su di
loro da qualche parte
“Si,
mi pare che le voci registrate nelle canzoni non siano quelle dei
cantanti. Giusto?”
Avier
prese il disco in una mano e nell’altra iniziò a
giocherellare per
l’ennesima volta con una delle sue tante monete. Fece un
sospiro e
assunse l’aria di qualcuno che fa un discorso a cui tiene
particolarmente
“Si,
quello che hai detto è vero. La verità
però non è così semplice,
come in ogni cosa dopotutto. L’uomo dietro la creazione di
questo
gruppo si chiama Frank Farian, anche lui era una sorta di dottor
Frankenstein. Non era tanto bravo a cercare talenti, ma creava veri e
propri prodotti commerciali dal nulla. Dei mostri del denaro,
potremmo chiamarli. Lo fece con i Boney M, prese un uomo di
colore di bella presenza e capace di ballare e lo affiancò a
tre
ragazze di colore molto belle, poi fece loro cantare delle canzoni
correggendo eventuali imperfezioni e stonature in studio. Ottenne un
prodotto perfetto, uno strumento capace di accumulare banconote su
banconote. Ma questo è nulla rispetto a ciò che
fece con i Milli
Vanilli.
“Un
giorno gli passò tra le mani questo gruppo composto da
quattro
membri, molti bravi a cantare ma, a detta sua, poco belli. Non adatti
alle immagini, ai video musicali. Cose su cui si puntava tutto in
quei tempi, dopotutto i Buggles cantavano Video Killed the
Radio
Star. Avrebbe potuto scartarli, dirgli semplicemente di no.
Ma
non era il tipo.
“Gli
capitò invece di incontrare Fab Morvan e Rob Pilatus, due
ragazzi di
colore molto belli, quelli che vedete sulla copertina. Adatti per il
pubblico di ragazzine, però senza alcuna nozione di canto.
Fece 2+2
e propose loro un contratto, li manipolò per convincerli ad
accettare e riuscì ad ottenere l’accordo che
sperava. Mesi dopo
vennero chiamati e scoprirono che non avrebbero dovuto cantare loro,
solo dare il labiale per delle canzoni già registrate.
“La
cosa peggiore di questo piano fu che funzionò. I Milli
Vanilli
fecero un successo pazzesco e Girl You Know It’s
True divenne
sei volte disco di platino negli Stati Uniti. Non voglio pensare come
si debbano essere sentiti quei due, con da un lato la consapevolezza
di essere degli imbroglioni e dall’altro
l’incapacità di
abbandonare il proprio successo, tutto questo ingabbiati da un
contratto. Forse c’erano delle scelte, ma tutte avevano dei
sacrifici. Sacrifici che non vollero fare, questo gli si ritorse
contro.
“I
castelli di carte non durano in eterno. Già si vociferava da
tempo
che le voci nelle canzoni non fossero davvero le loro.
Capitò poi
che, durante un esibizione ‘dal vivo’, il nastro
del playback si
inceppò, continuando a ripetere all’infinito Girl
you know
it’s, girl you know
it’s,
costringendo i due a scappare dietro le quinte.
“Questo
evento sarebbe anche potuto venir insabbiato, facendo molto meno
scandalo del previsto. Però fece capire a Frank Farian che
il tutto
stava durando troppo, c’erano in gioco equilibri troppo
grandi.
Fece un’ultima mossa, la più impensabile: disse la
verità”
“La
casa discografica annullò il contratto, i premi vinti
vennero
ritirati e i Milli Vanilli si ritrovarono in mezzo a 26 accuse per
frode. Certo, alcune erano rivolte alla casa discografica, ma loro
subirono il danno più grande. La loro immagine fu per sempre
compromessa, il pubblico li avrebbe ricordati in eterno come dei
falsi. Tutto questo per mano di praticamente un solo uomo”
“Quando
ero in Russia amavo le loro canzoni, io e i miei amici le ascoltavamo
a tutto volume. Però, sapevo anche della loro storia, e
ricordarmene
per me era un monito. Un invito per tenere a mente che esistono
persone capace di decidere per altri, di controllare ogni cosa a
proprio piacere, incastrando i pezzi dove loro vogliono. Il mio
desiderio è diventare molto più potente di queste
persone”
Ci
fu di nuovo un silenzio tombale, questa volta per lo stupore. Non
solo perché non si aspettavano una cultura musicale simile
dal
ragazzo, ma anche per la naturalezza con cui era arrivato
all’ultima
riflessione. Perché Ulrich doveva aver ragione?
Perché Avier
sembrava così superiore a tutti quanti?
“Dopo
tutto quello che hai detto, mi dispiace quasi vendertelo…
Mai
pensato di entrare in politica? Per me faresti carriera”
commentò
il signor Renard
“No,
però ci farò un pensiero. Magari un giorno
sarò presidente grazie
a lei”
“Ne
sono sicuro”
Cortile
del Kadic – Dalle ore 21:00 alle ore 22:00
Avier
era seduto sulla stessa panchina su cui si era trovato a disegnare
giorni prima, questa volta non lo stava facendo. Con la spesa aveva
accumulato un mucchio di spiccioli, monetine che lanciava con le dita
dentro un barattolo di vetro un metro e mezzo davanti a lui. Faceva
quasi sempre centro
“È
uno sport olimpionico?” gli domandò Aelita, senza
farlo spaventare
come la volta precedente, il ragazzo l’aveva vista giungere
“Come
fai a sapere quando mi trovo qui?”
“Aaah!
Quindi c’è qualcosa che non sai!”
“No,
in realtà credo di poterlo capire. Però volevo
essere educato”
“Stai
bluffando”
“L’ha
detto anche William, hai visto com’è
finita…” la ragazza si
sedette di nuovo affianco al ragazzo, un po’ più
vicino dell’altra
volta però. Sentiva una maggiore familiarità con
lui
“Era
una delle cose che volevo chiederti. Che diavolo hai scoperto quella
sera?” Avier lanciò un’ultima moneta
facendo un altro centro,
giunse le mani e le poggiò tra le gambe. Visto da una certa
angolazione, sembrava un gesto osceno, ma non era davvero sua
intenzione.
“Devo
parlartene?”
“È
davvero grave? È forse qualcosa di illegale?”
Avier sorrise
leggermente, facendo una debole risata a cui poi seguì un
sospiro di
rassegnazione
“No,
nulla del genere. Ma nella legalità esistono cose che
possono dare
più preoccupazioni dei crimini”
“In
che senso? Io non riesco a capire…” Aelita stava
letteralmente
soffrendo per la confusione, il ragazzo la guardò negli
occhi e
percepì tutto quello che provava. Le mise una mano sulla
spalla e la
fissò diritto con i suoi occhi scuri, facendo fermare di
colpo la
ragazza, che non poté non fissarlo a sua volta
“Facciamo
che lo dico solo a te perché sei speciale”
“Speciale?
Per cosa?”
“Beh!
Sei la prima che ha tentato di comprendermi, è notevole. E
poi sei
carina, mi persuadi più facilmente” disse
l’ultima parte con
tono scherzoso, la ragazza sorrise con lui, ma non poté
trattenere
il rossore sulle guance.
Avier
fece un altro sospiro, poi parlò
“Mentre
facevo il mio gioco, ho borseggiato la tasca destra di William e ne
ho osservato il contenuto quando mi sono girato. Avevo in mano il suo
portafogli, la sua carta d’identità e un
preservativo”
“È
quello che ha spaventato a morte William?”
“Un preservativo?
Non credo. Poi, se fosse stato solo quello, non ne avrei neanche
parlato. William non è vergine! spaventerebbe
una
banda di cristiana ortodossi bigottissimi. Non mi sembra il vostro
caso”
“E
quindi? Non capisco”
“Perché
non ho finito. Ho aperto il portafogli e dentro ho trovato una foto
di Yumi…” Aelita strabuzzò gli occhi,
stava intuendo quale fosse
la verità.
“Quindi
ho parlato in modo aggressivo per generare ansia, volevo vederne gli
effetti. William ovviamente si è agitato, ma con
l’altro occhio ho
visto che anche Yumi si stava innervosendo, più di tutti
voi. Quei
due avevano un legame, stavano insieme e non hanno voluto dirvelo.
William inoltre ha bisogno di avere sempre un preservativo in tasca,
questo significa che quei due stanno molto insieme”
Aelita
era stupefatta, quasi scioccata. Ci mise un po’ a dire
qualcosa
“Io…
Non me lo aspettavo. Perché non ce l’hanno
rivelato?”
“Forse
non volevano che Ulrich la prendesse male”
“Ma
non mi sembra molto maturo. Non peggiorano le cose facendo
così?”
“Penso
di sì. Ma cosa ti ho insegnato con la storia dei Milli
Vanilli? A
volte le scelte comportano delle conseguenze che non vogliamo
sobbarcarci, che ci spaventano. Alcuni preferiscono non scegliere,
come William e Yumi in questo caso. Però, non voglio neanche
scegliere io per loro. Quindi questa cosa rimarrà tra noi
due, va
bene?” Aelita annuì.
Fra
i due ci fu il silenzio per un po’, si limitarono a guardare
fissi
gli alberi che si stagliavano nel buio della notte senza dire nulla.
Era un momento di calma, molto piacevole e rilassante. Aveva un che
di poetico nell’insieme, ma ad Avier non piacevano le poesie
“Comunque,
da quello che ho visto nel tuo sguardo quando ho parlato del
preservativo, mi pare di capire che tu e Jeremy non… AAAAH!
IL
FEGATO!!!” Aelita gli aveva tirato una mega gomitata nel
fianco, il
ragazzo balzò in avanti e cadde a terra agitandosi per il
dolore
mentre si teneva le mani sul punto colpito. Non era chiaro fino a che
punto stesse fingendo
“Cyka
blyat!!!! Che cazzo sei? Uno Spetsnaz?” Aelita non
poté
trattenersi dal ridere, era fin troppo teatrale. Il ragazzo
iniziò a
ridere anche lui, seppur senza togliersi le mani dal fianco.
“Ora
alzati. O vuoi dormire sul terreno?”
“Non
è tanto male qui sotto”
“Alzati,
sul serio”
“Sollevami”
disse il ragazzo alzando il braccio sinistro
“Stai
scherzando?”
“No”
la ragazza sbuffò, anche se non era veramente infastidita.
Decise di
assecondare il gioco del russo e prese a tirargli il braccio,
sentì
inaspettatamente una tensione e cadde su di lui
“AHI!
Stai cercando di uccidermi per caso?”
“Tu
mi hai tirato” disse la ragazza iniziando a sollevarsi e
guardando
dall’alto il suo volto
“Io?
Ma se sono un fuscello. Sei tu che sei debole!”
“Idiota”
i due si misero in piedi, rimuovendosi da quella posizione
compromettente.
“Forse
è il caso di andare a dormire, non trovi?” disse
poi Aelita, il
russo fece un cenno di assenso. Poi volle dire una cosa
“Sai,
mi piace molto parlare con te. Mi fa sentire meglio. Prima, in tuta
con questa notte, avevo freddo nonostante l’abitudine. Quando
sei
arrivata mi sono sentito riscaldato”
“Beh…
Mi fa piacere” Aelita non era sicura del significato di
quella
frase, le sembrava un po’ stupida per certi versi. Eppure non
poté
fare a meno di pensarci per tutta la serata, anche poco prima di
addormentarsi.
Sala
del supercomputer – Lunedì 19 Settembre 2005
– Ore 2:12
La
figura pallida sentiva sul suo corpo una stanchezza tremenda, eppure
continuò a digitare e a programmare a velocità
assurde.
Contemporaneamente fece un mucchio di appunti con un dispositivo
poggiato vicino la tastiera. Funzionava con un comando vocale che,
una volta ricevuto, azionava il congegno. Da quel momento fino al
comando di spegnimento, ogni parola detta sarebbe stata registrata e
tradotta in testo sull’ologramma che proiettiva. La figura
aveva
appena smesso di aggiornare i suoi progressi, quando gli spasmi
ricominciarono. Partirono come sempre dalle mani per poi propagarsi
rapidamente per tutto il corpo, diventando sempre più forti.
Nonostante questo riuscì a iniettarsi il suo farmaco nel
corpo senza
cadere dalla poltrona.
Quando
i suoi movimenti tornarono controllabili, fece dei profondi respiri.
Spostò lo sguardo sul contenitore delle siringhe, osservando
con
disperazione come ne fosse rimasta una sola. Poi guardò i
progressi
sull’ologramma, scrutò con una strana attenzione
ogni singola
lettera, quasi avesse dimenticato il suo alfabeto a forza di rimanere
lì. Poi commentò tra sé e
sé
“Sint
ock. Okrin anì anarkà ormen dinnè.
Int-morò enoma kromian?”
Con
una combinazione di tasti, la figura fece apparire i dati di tutti
quelli che avevano usato il supercomputer e gli scanner per Lyoko
“Aelita
Schaeffar nik, Yumi Ishimaya nik, Ulrich Stern nik, Odd della Robbia
nik, William Dunbar nik… Jeremy Belpois, ya da. Din azarawas
mektà
armia in Lyoko”
La
figura poi si stese sulla poltrona e chiuse gli occhi. Dopo un
po’
si appisolò, il suo sonno era agitato dagli incubi come
sempre.
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