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Autore: Lord Kleveland    23/11/2019    1 recensioni
Un anno è passato da quando XANA è stato sconfitto. La vita dei Guerrieri sembra tornata alla normalità, ma Lyoko è una tecnologia incredibilmente avanzata e piena di lati nascosti. Segreti che riguardano il programma, la sua storia, i suoi utilizzi. Tutti elementi che attirano interessi. Interessi... inumani.
[La storia non prende in considerazione gli eventi dei libri e di Evolution]
Genere: Azione, Science-fiction, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aelita, Jeremy, Nuovo personaggio, Ulrich
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lenkerthen Lyoko Cap 4

Terra – Francia – Parigi – Domenica 18 Settembre 2005 – Ore 15:22


Huy! Mi sento tutta l’Armata Russa marciarmi in testa” fu questa la prima frase che disse Avier non appena si svegliò. Il capo gli pulsava in un’emicrania lancinante che gli rese difficile anche solo pensare, si sentiva disidratato come un profugo nel deserto e debole come un malato terminale. Quello era il peggior post sbornia della sua vita, ma non era nulla a confronto dell’orticaria che piagava la sua pelle. Cadere nel lago e farsi quella doccia così lunga la sera precedente avevano scatenato il peggio nella sua cute, che ora era arrossata come non mai e piena di piccoli ponfi nelle zone più sensibili. E prudeva, prudeva terribilmente. Se avesse passato la notte nudo in un cumulo di lana, non avrebbe sentito neanche la metà di quell’irritazione infernale.


Ehi, come ti senti?” la voce di Jeremy fece sobbalzare il ragazzo, la sua mente era così confusa che si era dimenticato di avere un compagno di stanza. Si girò verso di lui, il ragazzo indossava una camicia a quadri neri e rossi e un paio di pantaloni beige. Nel suo stato confusionale, Avier vide qualcosa di profondamente interessante in quei pantaloni. Non sapeva cosa, ma iniziò a fissarli intensamente, come incantato. Il suo sguardo però era puntato in modo un po’ infelice


Mi stai guardando il pacco?” il russo sobbalzò di nuovo, poi ricadde con la testa sul cuscino e iniziò a parlare fissando il soffitto

Ehi! Ma da quando ti esprimi così? C’entra la mia influenza? Forse è meglio che non parli di questa amicizia a tua madre”

Chiamala amicizia… Vedo che ti sei ripreso comunque”

Se fossi al posto mio, capiresti che vorrei non averlo fatto” si risollevò di nuovo stringendosi la fronte per il dolore e si mise a gambe incrociate sul letto, poi prese il suo borsone e iniziò a frugarci dentro


Ti serve qualcosa?” domandò Jeremy con tono sinceramente preoccupato, non poteva negare di sentirsi più accondiscendente nei confronti del russo. Dopo quello che aveva visto, non riusciva ad odiarlo. Non che gli stesse simpatico, ma non lo odiava.

Acqua. Tanta acqua” disse mentre estraeva un barattolo di crema per la pelle e una confezione di antistaminico dalla borsa. Jeremy fece per andarsene, quando si fermò a metà strada

Riguardo ciò che hai detto ieri sera…”

Lo farò, l’ho promesso” il tono di Avier si fece più basso e serio, anche il suo volto perse quel tono di costante esaltazione che lo caratterizzava. Per quanto fosse ovvio, capì come l’argomento fosse davvero pesante.


Jeremy non ebbe altro da dirgli, ma Avier lo chiamò quando fu sulla soglia della porta, facendolo fermare

Si?”

Solo una cosa. Potreste perdere dieci minuti prima di venire qui? Mi devo spalmare questa crema. Non sia mai apriate la porta mentre la strofino sulle…”

Ho capito”


Quando Jeremy tornò con le bottiglie d’acqua e gli altri tre Guerrieri erano passati più di dieci minuti, ma preferì bussare lo stesso.


Il silenzio che si fece in quella stanza fu quasi innaturale, i quattro se ne stavano seduti sul letto di Jeremy mentre sul suo Avier si era messo a gambe incrociate. Solo i rumori provenienti dall’esterno rompevano quel silenzio, si sentivano degli uccellini cantare e il vociare di alcune persone nella scuola. Il Sole splendeva forte e la sua luce filtrava attraverso la finestra, il cielo era sereno con solo qualche nuvola bianca candida a decorarlo. Era una così bella giornata, perché doverla rovinarla con quella storia? Questi erano i pensieri di Avier in quel preciso momento, forse dovuti al suo voler sfuggire a quella promessa, a quell’obbligo. Però no, le cose dovevano andare così. C’era solo un’ultima cosa da fare, un ultimo gesto prima di iniziare.


Dobbiamo fare un patto”

Che genere di patto?” domandò Ulrich, stranamente non acido come sempre. Anche lui era rimasto scosso da ciò che aveva visto la sera prima.

Un patto da gentiluomini. Voi quattro dovete essere gli unici a sapere la mia storia. E ripeto, GLI UNICI. Né i vostri altri due amici, né qualsiasi altro essere vivente fuori questa stanza deve saperla se non vi autorizzo io. Chiaro?” sapeva tanto di una minaccia e il suo tono di voce non rassicurava. Si alzò in piedi e allungò la mano destra davanti a sé, i ragazzi apparvero confusi. Il ragazzo spiegò subito

Stringetemi la mano, tutti. Così sigliamo il patto. Si vis pacem…” Jeremy si alzò, guardò confuso il ragazzo e poi gli strinse la mano

“…para bellum?” aggiunse con tono incerto. Avier gli sorrise e gli pizzicò la guancia con fare amichevole

Bravo il mio sapientone”


Dopo pochi secondi tutti ebbero eseguito quel rituale. Avier sentì di non aver più nessuna scusa per rimanere in silenzio, si mise a sedere sul bordo del letto, giunse le mani incrociando le dita e iniziò a raccontare

Dunque…”


[Racconto di Avier] – Russia – Dal 1988 al 2004


-Vladivostok



Il mio nome è Avier Antonovic Anisimov. Immagino proprio che questo lo sappiate già. Eppure, mi fa sempre strano constatare come nasconda una storia così lunga. La mia storia.


Come rivela il patronimico, mio padre si chiamava Anton. Anton Mikahilovic Anisimov per l’esattezza. Un uomo greve e volgare, aveva passato la sua vita a pulire i cessi della metropolitana, a spazzare l’immondizia dalle strade e a incazzarsi con gli altri. Mia madre si chiamava invece Alma Gutiérrez, di famiglia spagnola arrivata in Russia per qualche motivo. Non ho mai saputo quale, così come non ho mai saputo come abbia incontrato mio padre, o se lo avesse mai amato, o se papà avesse mai amato lei. Sulle ultime due, posso dire che tutto quello che so mi porta a pensare che non abbiano mai provato nulla tra loro. A partire dalla mia nascita: i miei genitori si sono sposati il 7 Ottobre del 1987, io sono nato 24 Aprile del 1988. Capirete che, per quanto io sia gracile, dubito fortemente di essere nato prematuro di due mesi.


Il mio primo ricordo sono le urla di mia madre, un misto di rabbia e disperazione che sembrava come distorcerla, rendeva la sua voce sofferente e le consumava i nervi. Mio padre invece parlava poco, lui alzava la voce una volta sola e poi passava alle mani. Lo fece anche quella volta, diede un pugno a mia madre così forte che rimbombò per tutta la casa. Alle sue grida di rabbia e disperazione si unirono quelle di dolore, facevano spavento. Solo mio padre riusciva a rimanere indifferente davanti quello che causava, se ne andò di casa quella sera. Non sarebbe scappato, non lo faceva mai. Se ne stava semplicemente lontano da lì per un po’, poi tornava che puzzava di alcol. Non so cosa sperasse di ottenere facendo così, di certo non si calmava.


Quando se ne fu uscito, mia madre pianse ancora per un quarto d’ora, poi entrò nella mia camera. Io me ne stavo sotto le coperte, avevo solo quattro anni e pensavo che, così facendo, sarei stato protetto dalle paure e dai pericoli del mondo. Quel giorno imparai che non era così. Mia madre entrò nella mia camera e si mise ad abbracciarmi, vorrei dire che lo fece per rassicurarmi, ma neanche questo è così. Ero così piccolo, eppure già lo sospettavo, oggi ne ho la certezza. Lei non voleva che io mi sentissi meglio, voleva sentirsi meglio lei. Magari pensava che avessi qualche superpotere del cazzo, che guarissi al contatto. Che cazzo ne so!


Non funzionò comunque, lei si innervosì ancora di più, voleva sfogarsi. Iniziò a stringere il braccio che mi stava accarezzando, poi infilò le unghie e mi graffiò. Ricordo ancora la carne che si apre e il sangue che inizia a colare, ed io che piango. Lei mi diceva “Mi dispiace”, ma con uno sguardo… Uno sguardo… Non lo riesco a definire. Era come se dicesse “Mi dispiace che tu esista solo per soffrire”. Per lei, per mio padre, per i miei genitori non ero niente. Un incidente di percorso, un problema. Il mio primo ricordo sono io che piango e mi sento incazzato allo stesso tempo, tradito dalle stesse persone che avrebbero dovuto crescermi.


Quella sera mi portò nel bagno per medicarmi, il pigiama si era sporcato di sangue e me lo fece togliere. Vidi il mio petto, c’erano già dei lividi. Sapevo di non essermeli fatti da solo, ma non ricordavo quando mi erano stati provocati. È quello che pensate, avevo solo quattro anni e venivo già picchiato.


Il futuro non poteva essere radioso, infatti non lo fu. Crescere abituati al dolore, ai colpi di cinghia di mio padre, alle unghiate di mia madre. Alle urla, alle lacrime, al sangue… Non è naturale, non lo è affatto. La paura che provavo… Io… Non riesco a descriverla. So solo che iniziai ad odiare la realtà, me ne volevo allontanare ogni volta che potevo. Parlavo poco, il meno possibile. A scuola non avevo amici, non avevo neanche contatti, a malapena ascoltavo quello che dicevano le maestre. Loro non si interessavano a me dopotutto, non facevano mai domande nonostante vedessero che ci fosse qualcosa di strano in me. Io so che lo vedevano!


Leggevo molto, di tutto. La lettura mi tranquillizzava, mi teneva lontano dai pericoli, mi illudeva di poter scappare. Ero troppo debole per pensare di andarmene sul serio, di scappare da quella casa. Non sapevo che fare, dove andare, come sopravvivere. Quindi rimanevo in stallo, bloccato a non fare nulla. Mi sento così stupido!


E il tempo passava, io diventavo più alto, le cicatrici aumentavano, così come il mio odio. Ero ormai una sorta di schizofrenico, non riuscivo più a controllare ciò che mi passava per la testa. Ero pieno di tic, strizzavo gli occhi, facevo colpire le dita tra loro e avevo spasmi facciali. Eppure non avevo il coraggio di fuggire o di ribellarmi, non ci riuscivo. Sapevo di dover fare qualcosa, ma avevo paura. Come cazzo potevo essere così imbecille? Ogni volta che ci ripenso me lo domando, me lo ridico in continuazione. “Avier, perché ci hai messo così tanto? PERCHÈ?”. Se Dio esiste, mi deve tante risposte.


Fatto sta che un giorno ci riuscii. Ricordo tutto come se fosse ieri, sono quei momenti della tua vita che dimenticherai solo alla tua morte, non so se avete presente. Era il 4 Dicembre del 1997, le dieci di sera. Dieci e ventuno minuti per l’esattezza, avevo visto l’orologio poco prima che tutto iniziasse. Mio padre quel giorno era più incazzato del solito, pare che rischiasse di essere licenziato poiché se l’era presa con il tipo sbagliato, sarebbe stata l’ennesima volta che capitava.

Quel giorno era armato, aveva una pistola, una classica 9mm con un caricatore mezzo vuoto. Aveva rubato quell’arma al cadavere di un tizio in un vicolo, doveva essere un teppista coinvolto in uno scontro a fuoco. La sventolava davanti mia madre minacciando di sparare se non si fosse stata zitta.

Mia madre pareva ignorarlo, era particolarmente disperata “Moriremo di fame! Sei un mostro!” gridava, sempre più forte. Io me ne stavo in un angolo della stanza, paralizzato per il terrore. Non riuscivo a muovermi e volevo che tutto quello finisse. Improvvisamente vidi mia madre afferrare il braccio armato di mio padre mentre continuava a urlargli contro, lui reagì d’istinto spingendola a terra ma, senza accorgersene, fece partire un colpo. L’arma non era rivolta verso mia madre, ne tanto meno verso mio padre, era rivolta verso di me. Ricordo ancora il rumore dello sparo, il mio gettarmi a terra in preda a un dolore lancinante al piede e il vedere la scarpa bucata e grondante di sangue. Fu così che persi il mignolo del piede destro, un colpo di pistola.


Quel dolore così forte, così ingiusto. Fece svegliare qualcosa dentro di me, mi caricai come di adrenalina, tant’è che riuscii a rimettermi in piedi nonostante il dolore tremendo. In quel momento esplosi, dissi tutto quello che mi era sempre passato per la testa “Io vi odio! Dovete morire! Morire!”. Continuai fino a quando non vidi mio padre avvicinarsi per cercare di tirarmi un ceffone, di solito rimanevo impalato. Ma vi ho detto, qualcosa era cambiato dentro di me. Riuscii a muovermi, a correre. Dal soggiorno alla cucina, fino all’uscita. E poi, libero.


La notte era gelida, nevicava fitto e i miei piedi affondavano nella neve. Provavo dolore a quello ferito, ma era come se non mi importasse. Volevo soltanto muovere un piede dopo l’altro, sempre più veloce, più veloce. Non avevo neanche una meta, non ero mai scappato di casa e non avevo pianificato una fuga. Non pensai neanche di dirigermi verso la stazione e prendere il treno, o di fare l’autostop, o cose del genere. Continuai semplicemente ad andare diritto, attraversai vicoli squallidi e bui, sentii il puzzo della degradazione, un odore a cui ero abituato ma che mi colpì particolarmente quella volta. Poi arrivai fuori dalla città, avevo corso per almeno un’ora, le forze iniziavano a mancarmi ma volevo continuare. C’erano alberi ovunque, alberi altissimi e ricoperti di neve. Dal cielo continuava ad aumentare l’intensità dei fiocchi che cadevano, il freddo si faceva più aggressivo e io non ero vestito nel modo adatto. Lo sentivo consumarmi la pelle, divorarmi le ossa, togliermi le forze. Se avessi continuato sarei morto, ma non mi interessava. Mi sentivo finalmente libero.


Dopo un po’ mi mancarono le forze e mi accasciai a terra. Sentii i gelidi cristalli di neve a contatto con il viso, quel freddo così intenso da provocare dolore. Ma ero felice, perché avevo scelto io di fare tutto quello. Nella morte, sarei stato qualcuno. Quel qualcuno che avevo sempre voluto essere, che i miei genitori non riconoscevano, vedendomi solo come il frutto dei loro errori. Non il nulla, ma Avier Antonovic Anisimov. Morire sarebbe stata una grande avventura…


Colpo di scena”, sono sopravvissuto. Non so come, credo fosse impossibile con quel freddo, ma ci riuscii. Sul momento pensai che tutta la mia sfiga dovesse venir compensata da qualche parte. Però so come continua la mia storia, non mi sento fortunato. L’unica cosa certa è che quella notte feci un sogno, una figura angelica. Una donna bellissima, dai lunghi capelli biondi ed emanante una luce sovrannaturale. Indimenticabile!


Mi rialzai e mi fu chiaro che, continuando per la foresta innevata, non sarei andato da nessuna parte. Dovevo tornare in città, nonostante non volessi, e trovare un modo più intelligente per scappare. Ai tempi ero troppo ingenuo, non riuscii a passare inosservato, non ero abbastanza scaltro. Un poliziotto mi riconobbe e mi prese di peso quando tentai di scappare. Io iniziai a piangere, gli implorai di non riportarmi a casa, lui mi disse che non lo avrebbe fatto.


Ero chiaramente confuso, non capii cosa intendesse. Lui mi spiegò che, durante la notte, il riscaldamento della casa si era guastato e aveva iniziato a far fuoriuscire monossido di carbonio. Il monossido di carbonio non ha odore, non ha sapore, è un veleno silenzioso e subdolo. I miei genitori lo avevano respirato tutta la notte senza accorgersene, intossicandosi e morendone prima ancora che capissero cosa gli stesse succedendo. E nessuno se ne sarebbe accorto per giorni non fosse stato per un tipo a cui mio padre doveva dei soldi. Da giorni diceva che sarebbe entrato con la forza non avesse ricevuto quello che gli spettava, quella mattina lo fece davvero, si ritrovò davanti due morti e denunciò il tutto alla polizia. Io invece, scappando di casa, mi ero salvato la vita.


Ricordo ancora il volto del poliziotto quando ebbe finito di raccontarmi tutto, era sconvolto. Non per l’accaduto, ma per la mia reazione, per la mia assenza di reazione. Ero tranquillo come non lo ero mai stato prima. Avevo perso la mia famiglia e la mia casa, eppure non me fotteva un cazzo.


-Orfanotrofio Lev Borisovic Kamenev


C’è gente che ancora oggi si chiede che cazzo c’entri Lev Kamenev con gli orfani, sono convinto che neanche i costruttori di quel posto lo sapessero. Magari erano tutti ubriachi alla scelta del nome, o avevano scelto a caso da un libro di storia su uno scaffale. Tutte teorie che si condividevano tra loro gli orfani, una delle poche cose divertenti che si poteva fare lì. Per il resto, capii subito che quel luogo lo avrei odiato. Non appena misi piede in quella struttura, mi sembrò di essere a casa. Voi capirete che nel mio caso non era una cosa positiva.


Quel posto era l’Inferno. Mi ero liberato dei miei genitori e mi trovavo davanti ad altri soprusi, questa volta si erano moltiplicati. Gli educatori erano gente senza qualifiche, si trovavano lì solo per lo stipendio, era evidente. A quegli esseri non si sarebbe dovuto affidare un cane, gli avevano dato delle vite umane, dei bambini. Non si facevano problemi ad essere aggressivi, a picchiarci e umiliarci.


Ricordo una cosa che mi accadde qualche mese dopo il mio arrivo. Nonostante avessi nove anni e nonostante i miei trascorsi, non mi ero ancora temprato abbastanza. C’erano momenti in cui la paura prendeva il sopravvento, mi entrava nel corpo come una droga e mi rincoglioniva totalmente, facendomi perdere il controllo del mio corpo. Una volta un mio compagno lanciò una cucchiaiata della roba che ci servivano alla mensa verso un educatore che passava di lì, l’uomo si girò e credette fossi stato io a farlo.


Non provò neanche ad accettarsi di aver ragione, mi incolpò e basta. Ero il capro espiatorio ideale, abbastanza incazzato e ribelle da odiare le regole e non rispettarle, ma troppo piccolo e novellino per capire come difendermi al meglio. Quell’uomo mi prese e iniziò ad aggredirmi verbalmente, non alzò neanche la mani su di me. Eppure mi spaventò tanto, come mai prima d’ora qualcuno era riuscito a fare. Era il suo modo di fare, il perché faceva tutto quello. Non era stupido e ignorante come mio padre, neanche isterico come mia madre. No, lui era sadico.


Si divertiva in quello che faceva, nel vedere soffrire qualcuno più piccolo e debole di lui. Quella era l’ultima cosa che non riuscivo a concepire, la pura crudeltà. Il piacere nel far del male, lo vidi nei suoi occhi e me la feci addosso. Non sto usando metafore, me la feci LETTERALMENTE addosso.


E lui se ne accorse. Vide i miei pantaloni inscurirsi, il pavimento bagnarsi. Vide tutto questo, e sorrise. Mi fece ancora più paura, ma non aveva ancora finito. Mi costrinse ad alzarmi, mi abbassò le braghe e invitò tutti a guardare quello che era successo, a ridere di me. E lo fecero, come cani ammaestrati. Chi per paura, chi per odio. Tutti presero a deridermi, a darmi del pisciasotto. Ricordo così bene ogni cosa, sento ancora rigarmi il volto dalle lacrime. Non so per quanto tempo piansi in quel momento, ma so che dentro di me c’era una rabbia, una rabbia incredibile. Una furia cieca che non appartiene a un essere umano, figurati a un bambino. Mi dissi che avrei messo a ferro e fuoco quel posto. Ho mantenuto la promessa…


Si, ho dato fuoco a quel posto. Il 16 giugno del 1999, avevo undici anni e me ne sentivo centoundici addosso. Il tempo in quel posto sembrava non passare mai, ma io avevo un piano. Quando sei imprigionato, rinchiuso nelle stesse mura uguali ogni giorno. Inizi a vedere cose che non noteresti mai altrimenti, piccoli dettagli che sfuggono alle persone più distratte. Errori, falle, imperfezioni. La mia mente iniziò a non provare emozioni, a voler soltanto calcolare ogni cosa, ogni passo per il mio obiettivo. Quale obiettivo? L’unico che contava: la fuga. Avevo solo quella in mente, come se non potessi pensare ad altro. Ragionavo solo su come fare, finché non riuscii a ideare un piano a dir poco perfetto. O almeno così sembrò a me.


Durante i due anni passati lì mi ero fatto sei amici, anche se forse è meglio chiamarli “compagni di sventure”. Erano alimentati dal mio stesso desiderio di libertà e potevo leggergli in faccia come sarebbero stati disposti a vendere la propria anima pur di farlo. Ormai sapevo capire molte cose dalle espressioni facciali, non avevano quasi più segreti per me. Dissi loro della mia idea, ne rimasero stupiti, poi aggiunsero qualche dettaglio e alla fine accettarono. Pochi semplici passi, dovevamo solo aspettare la notte.


E la notte venne.


Uscimmo dalla stanza. Alla sera le porte venivano chiuse, ma la maggior parte delle serrature erano scadenti e poco sicure. Artyom, uno di noi, riusciva ad aprire la porta della nostra stanza con la cinghia della sua cintura, lo fece anche quella volta.


Così ci trovammo fuori, era buio e soltanto la luce della Luna che filtrava attraverso le finestre illuminavano i corridoi. C’era qualcosa di surreale in quell’atmosfera, una forza mistica che ci spingeva ad andare avanti, a proseguire nel mio piano. So che sembra un discorso delirante, pensai anche io ci fosse qualcosa di folle sul momento, eppure in seguito anche gli altri dissero di essersi sentiti diversi quella notte.


Io mi diressi verso la porta d’acciaio che conduceva al piano sotterraneo, lì c’erano i salvavita dell’edificio, dovevamo togliere la corrente all’orfanotrofio. Questo avrebbe attirato il controllore che era di guardia la notte. Succedeva ogni volta che mancava la corrente, sarebbe stato così anche quella volta. Il piano sotterraneo era chiuso da una porta di ferro, quella Artyom non la sapeva forzare, così come non sapeva forzare la cassetta di sicurezza dove erano tenute le chiavi del cancello d’uscita. Forse saremmo anche riusciti a scavalcarlo, ma nessuno ne era sicuro e nessuno voleva perdere tempo. Fortunatamente le chiavi di quella porta di ferro erano tenute in un semplice cassetto, facendo attenzione e rimanendo silenziosi si poteva raggiungere senza farsi notare.


Rimasi ad aspettare sperando che tutti stessero facendo bene le cose, seguendo i miei consigli su come muoversi e dove nascondersi, mantenendo anche l’orientamento senza perdersi nel buio. Per un po’ ebbi paura, ma poi vidi arrivare due di loro e mi tranquillizzai. Uno si chiamava Valery, aveva le chiavi di quella porta, l’altro Boris e aveva una tanica di benzina e un pacco di fiammiferi. Boris era quello su cui avevo nutrito maggior timore, le taniche si trovavano in un capanno all’esterno, servivano per alimentare un generatore a benzina usato per le emergenze. Per uscire dall’edificio principale dell'orfanotrofio bastava aprire una finestra, non erano fatte per essere chiuse a chiave. Però quella del capanno non si poteva aprire, la porta aveva una serratura troppo complicata per forzarla. L’unico modo era rompere il vetro con un sasso e sperare che il rumore non avesse attirato nessuno. Fortunatamente fu così, lui riuscì a far entrare quella tanica senza farsi notare. La fuga vera e propria poteva iniziare.


Come previsto, quando abbassai gli interruttori del salvavita togliendo la corrente, quel supervisore si apprestò ad entrare lì. Il locale era immerso nel buio, cosa che lo stranì perché la luce di emergenza si accendeva sempre, inoltre lo sentii chiaramente lamentarsi dello strano puzzo di benzina che sentiva. Non poteva prevedere…


Quando alzò gli interruttori, la luce tornò in quel posto. Noi, io e Valery, eravamo in quella stanza, dietro di lui. Nel buio non ci aveva visti. Tenevo un fiammifero in mano, pronto ad accenderlo

Non muoverti e non parlare. Oppure appicco un incendio. Cazzo se lo faccio! C’è benzina ovunque” gli dissi cercando di essere più minaccioso possibile. Dovetti essere particolarmente convincente, perché quando si girò e vide me e il pavimento bagnato ovunque dal carburante, sbiancò. Mi sentivo così potente in quel momento


Le chiavi della cassetta di sicurezza e della tua macchina. Lanciale a Valery. ORA” basavo il mio comportamento sui film d’azione che avevo visto. Ce ne sono tanti con criminali e ostaggi, sperai che fossero abbastanza realistici da funzionare. Sul momento parve di sì, l’uomo fece come detto. Gli intimai di non muoversi mentre noi ci spostavamo, non lo perdevo di vista un momento mentre mi dirigevo verso l’uscita. Poi fui alla porta, lui cercò di raggiungerci con uno scatto, ma noi uscimmo prima e Boris chiuse immediatamente a chiave la porta. Lo sentimmo insultarci, darci dei pazzi furiosi, minacciare di ucciderci mentre prendeva a pugni la porta. Stava facendo casino, avrebbe attirato sicuramente qualcuno. Bisognava sbrigarsi.


Non so se avete mai corso sapendo che tutto potrebbe finire male. Con l’ansia galoppante che fa battere il cuore fortissimo, quasi da far male, come se potesse esplodere da un momento all’altro. Con le gambe che tremano ma allo stesso tempo non sentono fatica, drogate dall’adrenalina. L’aria che ti passa attorno e ti fa venire i brividi sulla pelle. Il respiro irregolare e un misto di emozioni incomprensibili dentro di te, emozioni che ti spaventano ma ti fanno andare avanti. Non dimenticherò mai quella notte, dovessi morire ora non fosse così.


Facemmo tutto a una velocità assurda, disumana. Aprimmo la cassetta di sicurezza e tirammo fuori le chiavi quasi strappando gli anelli di ferro con cui erano agganciate all’interno. Poi prendemmo a correre di nuovo verso l’uscita, dietro di noi si sentiva confusione, stavano capendo che qualcosa non andava e iniziavano ad uscire dalle stanze. Alcuni educatori ci inseguirono, ma ormai eravamo prossimi all’ingresso.


Uscimmo fuori e sentimmo l’aria gelida della notte, non fredda come quella dei mesi invernali, ma lo stesso d’impatto. Davanti a noi c’erano Artyom e i restanti tre di noi: Kirill, Yuri ed Ermak. Avevano rubato stracci e bottiglie dai bagni e dalla cucina e avevano creato delle molotov, gli diedero fuoco e le lanciarono oltre noi tre, sull’ingresso. Lì avevano sparso della benzina, questo fece propagare immediatamente le fiamme facendo fermare gli inseguitori, che tornarono indietro per tentare di uscire dalle finestre. Noi corremmo verso il cancello pedonale, lo aprimmo e ci dirigemmo verso il parcheggio.


Ermak aveva 17 anni e una famiglia di ladri di macchine, guidava meglio di come parlasse (in senso letterale, aveva la zeppola), poteva guidare l’auto del guardiano notturno se l’avessimo trovata. L’abitudinarietà di quell’uomo fu la nostra fortuna, era esattamente dove sapevamo fosse. Presi un sasso dal pavimento e lo lanciai contro il finestrino del guidatore, riducendolo in mille pezzi e permettendo a Ermak di sbloccare le serrature. Ci fiondammo in sei sui sedili posteriori, mettendoci uno sopra l’altro pur di entrarci tutti. Ermak invece si mise alla guida, era così abituato a rubare le macchine che riuscì ad accenderla e a farla partire in pochi secondi. Quando raggiunsero il parcheggio, noi eravamo già sulla strada sparati alla massima velocità per allontanarci da lì. Noi sei lì dietro ci voltammo solo una volta per vedere la luce delle fiamme che proveniva dall’orfanotrofio. Ci fece sentire meglio.


Non avevamo un percorso preciso per la fuga, ma fortunatamente trovammo una mappa e una torcia nel cruscotto della macchina. La guardai attentamente e feci un itinerario. La prima metà del percorso la facemmo passando per un mucchio di strade secondarie, tra boschi pieni di alberi altissimi e pianure desolate. Fu un miracolo se non ci perdemmo o impantanammo da qualche parte. Ci fermammo un attimo per sradicare le targhe dalla macchina usando i mezzi che avevamo e tanta forza di volontà. Se ci riuscimmo, fu solo perché l’auto era davvero un vecchio catorcio. In realtà non eravamo sicuri se ci avesse facilitato o complicato le cose quel gesto, ma a noi non interessò. Andammo sull’autostrada a tutta velocità.


Cazzo! Quel viaggio fu assurdo. Ricordo bene il vento che entrava dal finestrino distrutto, era gelido e ci rendeva impossibile non tremare. Mentre lo stare uno sopra l’altro in quei sedili posteriori, nonostante Kirill si fosse spostato avanti, ci faceva sudare. Ermak era stanco morto e ogni due per tre rischiava di addormentarsi alla guida, dovevamo tenerlo sveglio. Iniziammo a raccontare barzellette, battute che diventavano ogni volta più stupide, e poi più violente. Una volta finite, iniziammo a scambiarci metodi fantasiosi per uccidere il personale dell’orfanotrofio se lo avessimo rincontrato. Avevamo troppo odio in corpo, andava sfogato.


Poi, non so neanche come, ci ritrovammo a discutere del futuro e del presente. Ci dicemmo che forse avremmo fallito, che la polizia ci avrebbe fermati da un momento all’altro. Ma che eravamo riusciti in un’impresa impossibile, uscire fuori da quei cancelli. Nessuno lo riteneva plausibile, per noi quello era il carcere dove saremmo rimasti per sempre. Mi diedero del genio precoce, dissero che ero tanto minuto quanto incazzoso e poi mi soprannominarono “piccolo Frankenstein”. L’idea partì da Yuri, lui era sempre stato ritenuto l’intellettuale del gruppo, non poteva essere altrimenti. Era un bel ragazzo, dalla pelle candida e i capelli biondi. Anche se non lo conoscevi, ti faceva percepire la sua grande intelligenza e cultura. Era qualcosa nel suo modo di fare, di osservare le cose. Lui mi piaceva e lo invidiavo. Riusciva a provare piacere nella conoscenza, io ormai vedevo tutto come uno strumento, un mezzo per ottenere ciò che volevo. Non so se ho mai apprezzato davvero qualcosa… Cazzo! Sto divagando.


Quella notte, disse che avevo unito il genio del dottore capace di creare la vita dal nulla al corpo pieno di cuciture della sua creatura. All’inizio non capii a cosa si riferisse il secondo paragone, poi mi ricordai delle cicatrici. Non so perché, ma immaginarle come le cuciture del mostro di Frankenstein me le rese sul momento meno dolorose. Mi sentii lusingato e sentii un forte legame con lui. Con lui e gli altri. Ci sentivamo fratelli.


-In lungo e in largo per la Russia


Vivere per strada fa schifo. Se qualcuno vi dice che non è così, ditegli che si sbaglia. Se insiste, spaccategli il naso, se l’è meritato. Non si è dissimili dai ratti di fogna, sempre in movimento, sempre affamati e pronti ad azzannare il primo rifiuto che si trova. E se incontri un ratto più grosso e prepotente, sei tu che verrai divorato…


Sono stato nei posti più degradati della Russia. Ho vissuto l’isolamento, la fame e la paura. Ho visto la gente morire, alcuni per mano mia. La nostra stessa fuga era costata delle vittime, l’edificio dell’orfanotrofio era una merda a livello di sicurezza, come molte cose nel grande paese freddo. Prese fuoco velocemente, ci misero tempo a spegnere l’incendio e uscire da lì si rivelò più difficile del previsto per alcuni di loro. Sei membri del personale e quindici bambini morirono, chi per il fuoco, chi soffocando. Quello era ciò che avevamo pagato per ottenere la libertà.


Per quanto odiassimo quel posto, sapere di aver ucciso delle persone ci segnò. Ermak era il più grande di noi, per vari mesi non riuscì a dormire sereno. Si lamentava nel sonno e si risvegliava dicendo che li sognava gridare, che si sentiva un mostro. Anche gli altri non furono da meno, Yuri piangeva in continuazione, era nato troppo sensibile per il mondo in cui viveva, Kirill e Boris vararono più volte l’idea di dire tutto alle autorità, ma la paura di tornare prigionieri li fermava sempre. Artyom una volta tentò il suicidio, per fortuna lo fermammo in tempo. Fui io quello che resse meglio, nonostante fossi il più piccolo del gruppo. Ormai non pensavo ad altro che essere il migliore, a fare ogni cosa al meglio e ad uscire da ogni situazione. Ero così distaccato dalla realtà che non mi sentivo più umano. Forse non lo ero. Forse non lo sono ancora…


Ora, non crediate io voglia vantarmi. Dopotutto, non c’è nulla di bello in ciò che sto raccontando. Però fu grazie alla mia inumanità che quel gruppo sopravvisse. Riuscii a convincerli ad indurire il cuore, a fare scelte difficili, ad usare le loro capacità per andare avanti. Io esploravo il mondo, comprendevo i meccanismi di quella vita venefica che vivevamo. Dove nasconderci, dove dormire la notte, dove lavarci. Imparammo prima ad elemosinare, poi a rubare, poi a rubare nei posti giusti. Imparammo che esistono persone da non infastidire, i più pericolosi di loro non erano i poliziotti.


Crescemmo così, diventando una vera e propria banda di piccoli criminali. Anche se col passare del tempo smettemmo di essere tanto piccoli. Giravamo le piccole cittadine della Russia, non rimanendo mai nello stesso posto. Indossavamo le tute Adidas, un vero e proprio simbolo di potere per noi. Quando non commettevamo crimini, ce ne stavano accovacciati lungo le strade o rintanati da qualche parte a parlare tra noi bevendo vodka e mangiando semi di girasole. In realtà quest’ultima cosa la facevano solo loro, io non li ho mai digeriti bene.


E così passarono i giorni, i mesi e poi gli anni. Non erano tutti uguali, ma erano vuoti. Però non ce ne rendevamo conto. Quando sei obbligato a uno stile di vita, fai di tutto per liberartene, perché ti senti costretto in qualcosa che non hai mai voluto. Ma quando tutto è stato scelto da te, stai conducendo la vita per cui hai combattuto, per cui hai ucciso, allora è difficile accettare di aver sbagliato qualcosa. Ti convinci che le cose non possono andare meglio di così, ti abitui alla mediocrità e preferisci rimanerci, probabilmente morirai credendo a queste cazzate. Questo a meno che la vita non ti sbatta in faccia il miglioramento, come fece con me. Il mio miglioramento si chiama Mary.


Ricordo bene la prima volta che la incontrai, più di un anno fa. Sentivo che c’era qualcosa di anomalo in quella giornata, troppe cose che mi mettevano tranquillità. Il Sole che splendeva troppo per la Russia, l’aria troppo fresca e salutare… Qualcosa di anomalo, appunto.


Ero entrato in una biblioteca, lo facevo quando volevo stare un po’ da solo. Amavo ancora la lettura, anche se il mio rapporto era cambiato. Non leggevo più per svago, non mi interessavano veramente le storie nei libri. Volevo solo far passare il tempo, infatti non ricordo nulla di molti libri che ho letto in quel periodo.


Così entrai dentro l’edificio, era un posto piuttosto malridotto, ma non c’era molta gente e governava un silenzio davvero piacevole. Poi, girando tra una sala e l’altra di quel posto, la vidi. Era seduta dietro un tavolo, leggeva un libro sulle civiltà aliene e ne aveva affianco accumulati tanti altri sulle galassie e le nuove scoperte scientifiche. Era identica alla donna nel mio sogno, quello che avevo fatto da bambino quando mi lasciai morire, ed era bellissima…


Dopo un po’ la vidi girarsi verso di me preoccupata. Ero rimasto impalato a fissarla e non avevo un’aria rassicurante. L’avevo spaventata, io le parlai del mio sogno. Mi aspettavo che scappasse, chi non lo avrebbe fatto? Lei, a quanto pare. Rimase ad ascoltarmi e, non so come, ben presto ci ritrovammo a parlare di noi. Quel giorno restai in biblioteca molto più del solito.


Ora, non so se voi abbiate mai incontrato qualcuno che vi completi. Una persona che sembra fatta apposta per voi, con cui potete parlare, scherzare, sfogarvi e lei saprà sempre come rispondervi. Badate bene, non COSA rispondervi, ma COME. È diverso, è veramente diverso. Mary era… È quella persona per me. Non ho mai capito bene le mie emozioni nei suoi confronti, so solo che mi sarei perso senza di lei.


Ritornai da lei più e più volte, ai miei amici non piaceva questa storia. Vedevano che stavo cambiando, che non ero più quello di prima. Avevano paura di ciò, per loro era un tradimento. Dopotutto, io ero il perno centrale della banda. Senza di me, sarebbero stati perduti. Io gli dissi che non li avrei mai abbandonati, sarei stato per sempre il loro fratello. Loro cercavano di convincersi che non stessi mentendo, ma non ci riuscivano. Le stesse cose valevano per me. Le peggiori bugie sono quelle che racconti a te stesso.


Un giorno Mary mi disse che mi voleva bene come un figlio e voleva darmi la vita che avrebbe dato a un figlio. Però non ero un orfano come gli altri, ero un criminale. Avevo una fedina penale tremenda, questo mi avrebbe condannato a non avere una vita normale. Questo, almeno, seguendo le vie legali… Disse di avere degli “amici”, persone che sarebbero state capaci di modificare le giuste carte e fare i giusti passaggi per farmi uscire dalla gelida Russia e farmi avere una vita comune in un’altra nazione. Però, poteva farlo solo per me. Falsificare l’identità di una persona era già complicato, farlo per sette sarebbe stato improponibile. Dovevo scegliere: avrei sacrificato i miei amici per una vita migliore o avrei sacrificato una vita migliore per i miei amici?


Camera di Avier e Jeremy – Ore 16:30


Io… Ho fatto la mia scelta” Avier era riuscito a trattenere le sue emozioni per tutto il racconto. Parlava molto piano, con molte pause, ciò testimoniava che non gli riusciva facile dire quelle cose. Ma quell’ultima parte, la chiusura della sua storia, gli stava facendo troppo male. Il suo respiro si fece affannoso e le mani iniziarono a tremargli, nella destra aveva fatto girare tra le dita una moneta per tutto il tempo, aumentando la velocità nei punti dove il racconto gli era più difficile.


Ora invece la moneta era rallentata e si muoveva in modo molto più incerto, Avier non riusciva a tenere la mano ferma.


Ciò che voglio, lo ottengo. È quello che mi sono sempre detto, io volevo una vita migliore, l’ho sempre voluta… Però, certe volte… Scegliere… È così difficile…” la moneta gli cadde di mano e rotolò sul pavimento. Il russo si portò le mani al volto e iniziò a piangere a dirotto.Borbottò qualche frase poco chiara nella sua lingua

Prostite, brat'ya. YA ne khotel zapachkat'sya tvoyey krov'yupoi si sentì una mano sulla spalla, alzò la testa mostrando gli occhi bagnati e arrossati. Ulrich si era avvicinato e lo guardava fisso, non aveva pianto come gli altri tre ma era davvero provato dall’ascoltare quella storia

Io… Credo di averti giudicato male” il russo gli tolse la mano da lì e sorrise. Un sorriso non forzato, spontaneo. Strano che gli riuscisse nonostante tutto

No, non credo. Mi trovavi un imbecille, penso di esserlo. Ho solo una storia complicata dietro”


Per un mezzo minuto interminabile ci fu un silenzio tombale, nessuno sapeva cosa dire. Fu Avier che risolse la situazione, il suo talento era davvero innato in certe cose


Vorrei chiedervi di uscire, almeno m’lady. Devo vestirmi. Poi, credo che andrò a fare la spesa, devo preparare il kompot” accennò un altro lieve sorriso. I quattro amici abbandonarono la stanza, lasciandolo solo. Però rimasero fuori la porta, come se non sapessero dove andare


Che cosa si dice ad una persona del genere? Cioè, è…” Odd era confuso, si sentiva soverchiato da una situazione in cui non sapeva come agire. Anche per gli altri fu così, Ulrich espresse i suoi pensieri

Sapete, prima mi dava fastidio e mi inquietava a volte. Ora quel ragazzo mi mette timore”

In che senso?” chiese Jeremy. Si stava pulendo gli occhiali, si era accorto solo in quel momento che si erano appannati

Pensateci, più o meno tutti pensavamo che si credesse migliore di tutti gli altri, che fosse uno sbruffone come tanti. E se invece non lo fosse, uno sbruffone? Ha vissuto una vita infernale, con problemi e preoccupazioni che farebbero cedere un adulto… E le ha superate tutte, senza impazzire. Per quanto sia strano, per quanto possa avere crolli psicologi, non è fuori di testa. Ha fatto scelte con poche certezze. Lui…” Ulrich abbassò la voce

Lui non aveva torri da disattivare e Ritorni al passato. Non poteva sapere quali sarebbero state le conseguenze delle sue azioni, ma ha deciso di scegliere e ‘ottenere ciò che voleva’, usando le sue parole. Come gli può apparire una vita normale adesso? Secondo me molto prevedibile, credo che lui possa… Controllare gli eventi, in un certo senso. Per questo sembra prevedere tutto e decidere sempre al meglio. Credo che lui sia veramente superiore a tutti noi


Stavano per dire altro, ma Avier uscì dalla camera all’improvviso. Il suo volto era tornato simile a quello che aveva sempre, nonostante ci fossero ancora i segni del pianto


Vi va di farmi compagnia mentre faccio la spesa?”

Sicuro di non voler stare da solo?” gli domandò Aelita, il ragazzo sorrise e poi rispose

No, meglio di no. Se sto da solo inizio a pensare al passato, ne ho già parlato troppo. A proposito, ricordate il patto” si portò un dito sul volto e fece il segno di tenere la bocca chiusa


L’Usato di Renard – Dalle ore 18:00 alle ore 18:10


Forse Avier non era sovrumano come credeva Ulrich, ma la capacità con cui tornò sereno fu incredibile. Era come se non avesse mai parlato di quegli argomenti, non sembrava il ragazzo distrutto e sofferente che avevano visto.


Girarono così per il centro commerciale a comprare frutti di ogni genere, perlopiù fragole, uva e cachi mela. Le parole del russo, fino ad allora ascoltate con un certo fastidio da tutti (tranne Aelita), diventarono stranamente interessanti. Non c’era più il pregiudizio avuto fino a quel momento, i modi di fare esuberanti ed istrionici del ragazzo erano ancora fastidiosi a volte, ma lì vedevano sotto un’ottica diversa.


Impararono che una delle cose più affascinanti di Avier era il suo fare riflessioni non dà poco partendo da argomenti frivoli. Era veramente come se riuscisse a trovare schemi e significati nascosti dietro le cose, tutto questo senza gonfiare delle idiozie dandogli più significato di quanto ne avessero. No, vedeva oltre le cose con la sensibilità di un artista.


Un esempio particolare fu quando uscirono dal centro commerciale, Avier voleva girovagare ancora un po’. Così si misero a camminare per le strade della città, fin quando non arrivarono davanti la bottega di un rigattiere. Il posto si chiamava L’Usato di Renard, il ragazzo fu attirato da dei dischi esposti in vetrina

Uh! Io adoro la musica” si diresse correndo verso di loro, aveva gli occhi sognanti di un bambino. Si stava genuinamente divertendo in quel momento. Dopo aver dato una rapida occhiata a quelli in vetrina, entrò subito nel negozio e parlò con il commesso.

Salve, è lei il signor Renard?” il commesso, un uomo di una trentina d’anni con un paio di occhiali da vista sul naso, alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo e rispose

Certo, cosa desideri?”

Ci sono altri CD come quelli esposti?”

Dall’altro lato di quello scaffale” gliene indicò uno al centro del locale, il ragazzo ci andò con rapidi passi e trovò i dischi dentro uno scatolone di cartone, impilati uno sopra l’altro affianco ad altre cianfrusaglie. Iniziò a prendere uno ad uno i vari album facendo un commento ad alta voce per ognuno


David Bowie no, non mi piace… I Queen non li apprezzo più di tanto…. Col cazzo che ascolto gli AC/DC!” d’un tratto gli apparve un’espressione stupita sul volto, aveva tra le mani un disco che non pensava di trovare lì. L’album Girl You Know It’s True dei Milli Vanilli

Nooo! È da un sacco che lo cerco” ignorando totalmente gli sguardi incuriositi degli altri quattro, il ragazzo corse verso la cassa.

È originale, vero?” domandò dopo averlo poggiato sul bancone, il signor Renard era preso a leggere il giornale, il tono di voce più alto del ragazzo lo fece balzare di soprassalto e quasi gli caddero i suoi occhiali dal viso. Se li sistemò, prese il disco, lo girò verso di sé e lo osservò. Nel farlo, un grosso sorriso gli apparve sul volto


Si, questo si. Sai, lo comprò mio fratello assieme a me tempo fa, quando eravamo ragazzini”

Perché suo fratello se ne vuole sbarazzare?”

In realtà, non posso sapere se avrebbe accettato di venderlo. Lui… Lui non è più tra noi”

Oh! Mi dispiace”

No, tranquillo. Non potevi saperlo. Piuttosto, dimmi, perché sembri così entusiasta di acquistare la più grande truffa della storia musicale?”

Truffa?” Odd domandò ancora più curioso di prima, nessuno conosceva i Milli Vanilli. Tranne Jeremy, che disse quel poco che aveva letto su di loro da qualche parte


Si, mi pare che le voci registrate nelle canzoni non siano quelle dei cantanti. Giusto?”


Avier prese il disco in una mano e nell’altra iniziò a giocherellare per l’ennesima volta con una delle sue tante monete. Fece un sospiro e assunse l’aria di qualcuno che fa un discorso a cui tiene particolarmente


Si, quello che hai detto è vero. La verità però non è così semplice, come in ogni cosa dopotutto. L’uomo dietro la creazione di questo gruppo si chiama Frank Farian, anche lui era una sorta di dottor Frankenstein. Non era tanto bravo a cercare talenti, ma creava veri e propri prodotti commerciali dal nulla. Dei mostri del denaro, potremmo chiamarli. Lo fece con i Boney M, prese un uomo di colore di bella presenza e capace di ballare e lo affiancò a tre ragazze di colore molto belle, poi fece loro cantare delle canzoni correggendo eventuali imperfezioni e stonature in studio. Ottenne un prodotto perfetto, uno strumento capace di accumulare banconote su banconote. Ma questo è nulla rispetto a ciò che fece con i Milli Vanilli.

Un giorno gli passò tra le mani questo gruppo composto da quattro membri, molti bravi a cantare ma, a detta sua, poco belli. Non adatti alle immagini, ai video musicali. Cose su cui si puntava tutto in quei tempi, dopotutto i Buggles cantavano Video Killed the Radio Star. Avrebbe potuto scartarli, dirgli semplicemente di no. Ma non era il tipo.

Gli capitò invece di incontrare Fab Morvan e Rob Pilatus, due ragazzi di colore molto belli, quelli che vedete sulla copertina. Adatti per il pubblico di ragazzine, però senza alcuna nozione di canto. Fece 2+2 e propose loro un contratto, li manipolò per convincerli ad accettare e riuscì ad ottenere l’accordo che sperava. Mesi dopo vennero chiamati e scoprirono che non avrebbero dovuto cantare loro, solo dare il labiale per delle canzoni già registrate.

La cosa peggiore di questo piano fu che funzionò. I Milli Vanilli fecero un successo pazzesco e Girl You Know It’s True divenne sei volte disco di platino negli Stati Uniti. Non voglio pensare come si debbano essere sentiti quei due, con da un lato la consapevolezza di essere degli imbroglioni e dall’altro l’incapacità di abbandonare il proprio successo, tutto questo ingabbiati da un contratto. Forse c’erano delle scelte, ma tutte avevano dei sacrifici. Sacrifici che non vollero fare, questo gli si ritorse contro.

I castelli di carte non durano in eterno. Già si vociferava da tempo che le voci nelle canzoni non fossero davvero le loro. Capitò poi che, durante un esibizione ‘dal vivo’, il nastro del playback si inceppò, continuando a ripetere all’infinito Girl you know it’s, girl you know it’s, costringendo i due a scappare dietro le quinte.

Questo evento sarebbe anche potuto venir insabbiato, facendo molto meno scandalo del previsto. Però fece capire a Frank Farian che il tutto stava durando troppo, c’erano in gioco equilibri troppo grandi. Fece un’ultima mossa, la più impensabile: disse la verità”

La casa discografica annullò il contratto, i premi vinti vennero ritirati e i Milli Vanilli si ritrovarono in mezzo a 26 accuse per frode. Certo, alcune erano rivolte alla casa discografica, ma loro subirono il danno più grande. La loro immagine fu per sempre compromessa, il pubblico li avrebbe ricordati in eterno come dei falsi. Tutto questo per mano di praticamente un solo uomo”

Quando ero in Russia amavo le loro canzoni, io e i miei amici le ascoltavamo a tutto volume. Però, sapevo anche della loro storia, e ricordarmene per me era un monito. Un invito per tenere a mente che esistono persone capace di decidere per altri, di controllare ogni cosa a proprio piacere, incastrando i pezzi dove loro vogliono. Il mio desiderio è diventare molto più potente di queste persone”


Ci fu di nuovo un silenzio tombale, questa volta per lo stupore. Non solo perché non si aspettavano una cultura musicale simile dal ragazzo, ma anche per la naturalezza con cui era arrivato all’ultima riflessione. Perché Ulrich doveva aver ragione? Perché Avier sembrava così superiore a tutti quanti?


Dopo tutto quello che hai detto, mi dispiace quasi vendertelo… Mai pensato di entrare in politica? Per me faresti carriera” commentò il signor Renard

No, però ci farò un pensiero. Magari un giorno sarò presidente grazie a lei”

Ne sono sicuro”


Cortile del Kadic – Dalle ore 21:00 alle ore 22:00


Avier era seduto sulla stessa panchina su cui si era trovato a disegnare giorni prima, questa volta non lo stava facendo. Con la spesa aveva accumulato un mucchio di spiccioli, monetine che lanciava con le dita dentro un barattolo di vetro un metro e mezzo davanti a lui. Faceva quasi sempre centro


È uno sport olimpionico?” gli domandò Aelita, senza farlo spaventare come la volta precedente, il ragazzo l’aveva vista giungere


Come fai a sapere quando mi trovo qui?”

Aaah! Quindi c’è qualcosa che non sai!”

No, in realtà credo di poterlo capire. Però volevo essere educato”

Stai bluffando”

L’ha detto anche William, hai visto com’è finita…” la ragazza si sedette di nuovo affianco al ragazzo, un po’ più vicino dell’altra volta però. Sentiva una maggiore familiarità con lui


Era una delle cose che volevo chiederti. Che diavolo hai scoperto quella sera?” Avier lanciò un’ultima moneta facendo un altro centro, giunse le mani e le poggiò tra le gambe. Visto da una certa angolazione, sembrava un gesto osceno, ma non era davvero sua intenzione.


Devo parlartene?”

È davvero grave? È forse qualcosa di illegale?” Avier sorrise leggermente, facendo una debole risata a cui poi seguì un sospiro di rassegnazione

No, nulla del genere. Ma nella legalità esistono cose che possono dare più preoccupazioni dei crimini”

In che senso? Io non riesco a capire…” Aelita stava letteralmente soffrendo per la confusione, il ragazzo la guardò negli occhi e percepì tutto quello che provava. Le mise una mano sulla spalla e la fissò diritto con i suoi occhi scuri, facendo fermare di colpo la ragazza, che non poté non fissarlo a sua volta


Facciamo che lo dico solo a te perché sei speciale”

Speciale? Per cosa?”

Beh! Sei la prima che ha tentato di comprendermi, è notevole. E poi sei carina, mi persuadi più facilmente” disse l’ultima parte con tono scherzoso, la ragazza sorrise con lui, ma non poté trattenere il rossore sulle guance.


Avier fece un altro sospiro, poi parlò

Mentre facevo il mio gioco, ho borseggiato la tasca destra di William e ne ho osservato il contenuto quando mi sono girato. Avevo in mano il suo portafogli, la sua carta d’identità e un preservativo”

È quello che ha spaventato a morte William?”
“Un preservativo? Non credo. Poi, se fosse stato solo quello, non ne avrei neanche parlato. William non è vergine! spaventerebbe una banda di cristiana ortodossi bigottissimi. Non mi sembra il vostro caso”

E quindi? Non capisco”

Perché non ho finito. Ho aperto il portafogli e dentro ho trovato una foto di Yumi…” Aelita strabuzzò gli occhi, stava intuendo quale fosse la verità.


Quindi ho parlato in modo aggressivo per generare ansia, volevo vederne gli effetti. William ovviamente si è agitato, ma con l’altro occhio ho visto che anche Yumi si stava innervosendo, più di tutti voi. Quei due avevano un legame, stavano insieme e non hanno voluto dirvelo. William inoltre ha bisogno di avere sempre un preservativo in tasca, questo significa che quei due stanno molto insieme” Aelita era stupefatta, quasi scioccata. Ci mise un po’ a dire qualcosa


Io… Non me lo aspettavo. Perché non ce l’hanno rivelato?”

Forse non volevano che Ulrich la prendesse male”

Ma non mi sembra molto maturo. Non peggiorano le cose facendo così?”

Penso di sì. Ma cosa ti ho insegnato con la storia dei Milli Vanilli? A volte le scelte comportano delle conseguenze che non vogliamo sobbarcarci, che ci spaventano. Alcuni preferiscono non scegliere, come William e Yumi in questo caso. Però, non voglio neanche scegliere io per loro. Quindi questa cosa rimarrà tra noi due, va bene?” Aelita annuì.


Fra i due ci fu il silenzio per un po’, si limitarono a guardare fissi gli alberi che si stagliavano nel buio della notte senza dire nulla. Era un momento di calma, molto piacevole e rilassante. Aveva un che di poetico nell’insieme, ma ad Avier non piacevano le poesie


Comunque, da quello che ho visto nel tuo sguardo quando ho parlato del preservativo, mi pare di capire che tu e Jeremy non… AAAAH! IL FEGATO!!!” Aelita gli aveva tirato una mega gomitata nel fianco, il ragazzo balzò in avanti e cadde a terra agitandosi per il dolore mentre si teneva le mani sul punto colpito. Non era chiaro fino a che punto stesse fingendo


Cyka blyat!!!! Che cazzo sei? Uno Spetsnaz?” Aelita non poté trattenersi dal ridere, era fin troppo teatrale. Il ragazzo iniziò a ridere anche lui, seppur senza togliersi le mani dal fianco.


Ora alzati. O vuoi dormire sul terreno?”

Non è tanto male qui sotto”

Alzati, sul serio”

Sollevami” disse il ragazzo alzando il braccio sinistro

Stai scherzando?”

No” la ragazza sbuffò, anche se non era veramente infastidita. Decise di assecondare il gioco del russo e prese a tirargli il braccio, sentì inaspettatamente una tensione e cadde su di lui


AHI! Stai cercando di uccidermi per caso?”

Tu mi hai tirato” disse la ragazza iniziando a sollevarsi e guardando dall’alto il suo volto

Io? Ma se sono un fuscello. Sei tu che sei debole!”

Idiota” i due si misero in piedi, rimuovendosi da quella posizione compromettente.


Forse è il caso di andare a dormire, non trovi?” disse poi Aelita, il russo fece un cenno di assenso. Poi volle dire una cosa

Sai, mi piace molto parlare con te. Mi fa sentire meglio. Prima, in tuta con questa notte, avevo freddo nonostante l’abitudine. Quando sei arrivata mi sono sentito riscaldato”

Beh… Mi fa piacere” Aelita non era sicura del significato di quella frase, le sembrava un po’ stupida per certi versi. Eppure non poté fare a meno di pensarci per tutta la serata, anche poco prima di addormentarsi.


Sala del supercomputer – Lunedì 19 Settembre 2005 – Ore 2:12


La figura pallida sentiva sul suo corpo una stanchezza tremenda, eppure continuò a digitare e a programmare a velocità assurde. Contemporaneamente fece un mucchio di appunti con un dispositivo poggiato vicino la tastiera. Funzionava con un comando vocale che, una volta ricevuto, azionava il congegno. Da quel momento fino al comando di spegnimento, ogni parola detta sarebbe stata registrata e tradotta in testo sull’ologramma che proiettiva. La figura aveva appena smesso di aggiornare i suoi progressi, quando gli spasmi ricominciarono. Partirono come sempre dalle mani per poi propagarsi rapidamente per tutto il corpo, diventando sempre più forti. Nonostante questo riuscì a iniettarsi il suo farmaco nel corpo senza cadere dalla poltrona.


Quando i suoi movimenti tornarono controllabili, fece dei profondi respiri. Spostò lo sguardo sul contenitore delle siringhe, osservando con disperazione come ne fosse rimasta una sola. Poi guardò i progressi sull’ologramma, scrutò con una strana attenzione ogni singola lettera, quasi avesse dimenticato il suo alfabeto a forza di rimanere lì. Poi commentò tra sé e sé


Sint ock. Okrin anì anarkà ormen dinnè. Int-morò enoma kromian?” 


Con una combinazione di tasti, la figura fece apparire i dati di tutti quelli che avevano usato il supercomputer e gli scanner per Lyoko


Aelita Schaeffar nik, Yumi Ishimaya nik, Ulrich Stern nik, Odd della Robbia nik, William Dunbar nik… Jeremy Belpois, ya da. Din azarawas mektà armia in Lyoko” 


La figura poi si stese sulla poltrona e chiuse gli occhi. Dopo un po’ si appisolò, il suo sonno era agitato dagli incubi come sempre.

   
 
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