E che il gioco abbia inizio
“It’s beginning to look a lot like Christmas”
iniziò a cantare la voce calda di Bing Crosby, accompagnato
dall’Orchestra Sinfonica di Londra. Le allegre note della canzone
invasero il silenzio calato nel salotto del 221B di Baker Street,
sovrastando i rumori di Londra. Non si sentiva provenire nulla nemmeno
dal piano di sotto. Probabilmente la signora Hudson e Phillip Holmes
avevano convinto i bambini a mangiare. Forse avevano acceso la
televisione, ma la musica copriva ogni altro suono. Chiunque fosse
entrato in quel momento nel salotto del 221B avrebbe capito che stava
succedendo qualcosa di anormale, che non aveva nulla a che fare con
l’atmosfera natalizia suggerita dalla voce di Bing Crosby. Una
tavola rotonda era stata accuratamente apparecchiata per festeggiare la
Vigilia di Natale, ma piatti e bicchieri erano ancora puliti. Intonsi.
Su un albero decorato, posto accanto al caminetto, le luci si
accendevano e si spegnevano, alternandosi in un gioco colorato e
illuminando pacchetti variopinti e di diverse dimensioni, disposti
ordinatamente ai piedi dell’abete e pronti da aprire, ma non
c’era nessuno che li tastasse o li studiasse, curioso di sapere
che cosa contenessero. Musica natalizia usciva dalle casse delle
stereo, in una sequenza infinita, facendo da sottofondo al silenzio, ma
ignorata da chi si trovava nel salotto. Tutto suggeriva una felice
Vigilia di Natale in famiglia, eppure le cinque persone nella stanza si
stavano studiando, guardinghe, in attesa che qualcuno facesse la prima
mossa.
Irene Adler spostava lo sguardo fra i quattro uomini, soffermandosi
più a lungo quando i suoi occhi azzurri si posavano sul
più giovane degli Holmes. Mycroft e Greg osservavano la donna
come se fosse stata una bomba da disinnescare. Cercavano di capirne la
reale pericolosità e il modo più sicuro per renderla
inoffensiva. John non riusciva a nascondere la propria invidia e la
propria tristezza. Invidia perché quella donna aveva conquistato
il cuore di Sherlock. Tristezza perché, invece, lui aveva
fallito e a pagarne le conseguenze sarebbe stato anche il bambino che
portava in grembo. Il volto di Sherlock non tradiva alcuna emozione.
Era una maschera imperscrutabile. Dopo la gioia mostrata per
l’improvvisa comparsa di Irene, il consulente investigativo si
era chiuso in uno strano mutismo. Non era intervenuto nemmeno quando la
signora Hudson, in modo chiaro e diretto, si era offerta di buttare
Irene fuori di casa.
Chiunque fosse entrato nel salotto del 221B di Baker Street avrebbe
capito che l’atmosfera natalizia era stata gelata, per lasciare
il posto a una sfida, che avrebbe cambiato il destino delle cinque
persone che si trovavano al suo interno.
E che il gioco abbia inizio
“Bene bene. Siamo tutti qui. Ditemi, cari Alfa, siete certi che i
vostri Omega siano in grado di concorrere a questo gioco? Perché
i partecipanti non sono persone tenere e delicate. Non esistono regole.
Una volta che si è deciso di giocare, non ci si può
più tirare indietro. Si deve arrivare fino alla fine, qualsiasi
sia il prezzo da pagare,” esordì Irene, con un sorriso
ironico sulle labbra rosse.
“Io sono un poliziotto, signora…?” Ribatté Greg, in tono secco.
“Io so benissimo chi sia lei, detective ispettore Gregory
Lestrade Holmes, amato consorte di Mycroft Holmes, l’uomo di
ghiaccio, per cui ha messo al mondo due figli, Eileen e Neil. Lavora a
Scotland Yard, occupandosi prevalentemente di omicidi e facendosi
aiutare dal suo caro cognatino, Sherlock, meglio conosciuto dai suoi
uomini come lo strambo. Sono stata brava?” Rispose Irene,
sardonica.
Mycroft si spostò davanti al marito, come se lo volesse
fisicamente proteggere dalla donna: “Evidentemente ha preso
informazioni su di noi, prima di contattarci per ricattare la Corona.
Dobbiamo giocare? Va bene. Però, facciamolo a carte scoperte.
Che cosa vuole, veramente?” Domandò, in tono tagliente.
“Oh, ecco l’Alfa che esce allo scoperto. Mi meraviglio che
non ti sia esibito in ringhi e suoni gutturali, per difendere il tuo
prezioso Omega. Sappi, caro Mycroft, che non sono interessata al tuo
maritino. Io sono lesbica. Anche se sarei proprio curiosa di fare
qualche giochino con lui. Penso che mi divertirei. Che ne dici, Greg?
Manette e frustino non ti attirano nemmeno un po’? Ovviamente
usati su di te. Oppure ci sei abituato? Mycroft mi sembra proprio il
tipo di Alfa capace di usare corde e fruste sul proprio partner per
riuscire a eccitarsi,” ribatté Irene, in tono canzonatorio.
“Per lei è tutto solo un gioco, vero?” Chiese John, in tono stanco.
“Ed ecco intervenire l’altro Omega. Il piccolo e insignificante dottor
John Watson Holmes. Davvero, John, non capisco che cosa ci trovi
Sherlock in te. Sempre che lui provi qualcosa per te, cosa che io non
credo possibile. Sei ordinario. Banale. Mediocre. Non puoi eccitarlo
intellettualmente. E sessualmente… Senza offesa, ma spero che
sotto quell’orrido maglione tu nasconda qualcosa di veramente
fantastico. Sherlock merita di avere accanto a sé qualcuno che
sia speciale,” rispose Irene, con voce velenosa.
“Come lei?” Sibilò John, controllando a stento la rabbia che provava.
“Perché no? Io posso stuzzicarlo sia intellettualmente che
sessualmente. Sarei una compagna perfetta per Sherlock. Con me non si
annoierebbe mai,” Irene scrollò le spalle con noncuranza.
“Non ha appena ammesso di essere lesbica? Sherlock non dovrebbe
entrare nel suo campo di competenza,” rimarcò il dottore,
con ironia.
“Esistono sempre delle eccezioni, caro John. Sherlock è
intelligente. Sexy. Saremmo una coppia stupenda. E avremmo dei figli
bellissimi,” insinuò Irene, in tono maligno.
“Non hai risposto alla domanda che ti ha posto mio fratello. Non
ci hai ancora detto che cosa tu voglia veramente da noi,”
intervenne finalmente Sherlock, come se fosse completamente
indifferente alla discussione fra la donna e suo marito.
“Dimmi, Sherlock, sei riuscito ad accedere al mio
cellulare?” Domandò Irene, con un sorriso enigmatico sulle
labbra rosse.
Sherlock estrasse lentamente il telefono dalla tasca dei pantaloni:
“Chissà perché, ma sono certo che se io fossi
riuscito a sbloccare il tuo cellulare, lo avresti saputo.”
“Bravo. Come dicevo, non sei stupido. Però non sei nemmeno
così intelligente, come ti hanno descritto. Hai avuto nelle tue
mani quel telefono per tre settimane. Il tempo sufficiente per trovare
la password e scoprirne il contenuto. Eppure non ci sei riuscito. Mi
dispiace annunciarti che la tua missione è fallita e che questo
mette fine al gioco. Almeno per il momento,” ridacchiò
Irene, in tono trionfante.
“Quindi era solo un test. In questo cellulare non
c’è nulla di importante,” constatò Sherlock,
con una calma e tranquillità, che stupirono gli altri tre uomini.
“Infatti. Quindi me lo puoi riconsegnare. Grazie per il gradito
divertimento e a mai più rivederci. Salvo che tu non voglia
godere della mia compagnia nel tuo letto. Nel qual caso, posso fermarmi
ancora un po’,” trillò la donna, allungando una mano.
Sherlock le afferrò il polso con una mano, mentre con
l’altra selezionava una lettera sul cellulare: “E se io
avessi capito la password, ma avessi solo aspettato che tu tornassi qui
per capire quali fossero le tue intenzioni?” Chiese in tono
sibillino.
Irene impallidì visibilmente: “No… non è
possibile… perché avresti atteso tanto a lungo per
accendere il cellulare? Potevano esserci informazioni di vitale
importanza. No. Ti stai prendendo gioco di me. Non hai capito la
password.”
“Invece so quale sia e ho aspettato fino ad ora, perché so
che tu ci hai mentito fin dall’inizio. In questo telefono ci sono
delle informazioni importanti, ma sono sicuro che non siano di vitale
importanza. Sono solo un piccolo assaggio di ciò che hai
raccolto per la vera mente criminale, che si cela dietro a questo
piano. Sono certo che ci sia qualcuno che stia tirando le fila di
questo intrigo e che quel qualcuno non sia tu,” rivelò
Sherlock, sfiorando un’altra lettera.
“Io non obbedisco a nessuno. Stai solo cercando di salvati la
faccia. Lasciami andare e dammi il mio telefono. Mettiamo fine a tutto,
prima che tu ti copra di ridicolo,” sibilò Irene, senza
riuscire a celare una nota di panico nella voce.
Sherlock non si lasciò impressionare. Gli angoli delle sue
labbra si piegarono in un lieve sorriso sarcastico: “Devo
ammetterlo. All’inizio mi hai ingannato. Pensavo che il piano di
ricattare la famiglia reale fosse tuo, ma poi ho capito che loro non
erano il tuo vero bersaglio. Sembravi più interessata a mettere
zizzania fra me e John, piuttosto che farti pagare per non divulgare
fotografie compromettenti di qualche principessa irresponsabile.
Così ho capito. Tu sei indubbiamente una donna molto bella,
intelligente e furba, ma non conduci il gioco e stai obbedendo a degli
ordini. Sei solo una pedina, Irene. Sai quando ne ho avuto la prova
definitiva? Quando hai creduto che io non avessi trovato la password
per sbloccare il tuo telefono. Tu non eri semplicemente felice. Eri
sollevata. Perché, se sei il capo di te stessa?”
Domandò Sherlock, digitando su un altro tasto.
Gli occhi azzurri di Irene si riempirono di terrore: “Ti
prego… no… non capisci… il mio capo non ammette il
fallimento. Io ho garantito che non avresti mai capito la
password… non puoi avere indovinato… no…” la
voce della donna si spense in un mormorio atterrito. Con uno scatto
disperato si lanciò verso la mano in cui Sherlock teneva il
cellulare, ma il consulente la sollevò, portando il telefono
fuori dalla portata della donna.
“Io non indovino le cose, Irene. Io le deduco. Le capisco. Ti ho
sentito il polso, Irene. Sei brava a bluffare, ma nemmeno tu puoi
controllare i battiti del tuo cuore,” Sherlock digitò
ancora sulla tastiera e girò lo schermo del cellulare verso la
donna. Sul piccolo video si era composta la scritta: “I’m
SHER locked”
“Nooo,” si lamentò Irene, con gli occhi lucidi.
Sherlock premette l’invio e il cellulare si sbloccò, quasi
per magia. Una singola lacrima solcò una guancia della donna:
“Tu non sai che cosa hai fatto,” sussurrò piena di
sgomento.
“Dimmi chi è il tuo capo. Ti prometto che ti
proteggeremo,” Sherlock sollecitò la donna, afferrandole
saldamente il polso.
“Nessuno può proteggermi. Non esiste un posto dove io
possa nascondermi senza che…,” la frase fu troncata prima
che Irene potesse terminarla. Un rumore di vetri infranti precedette di
qualche secondo il fiotto di sangue che schizzò sul viso e sulla
camicia bianca di Sherlock. John si buttò a terra, proteggendosi
istintivamente il ventre. Mycroft abbracciò Greg e lo
trascinò sul pavimento, mettendosi sopra di lui. John Lennon
cominciò a cantare “So this is Christmas”,
accompagnato da un coro di bambini, mentre Sherlock prendeva fra le
braccia il corpo senza vita di Irene e la stringeva a sé,
urlando la sua rabbia disperata.
Natale era trascorso. Erano le prime ore del 26 dicembre, quando John
aprì la porta del proprio studio, alla clinica, e ne accese la
luce. L’ufficio era ordinato, come sempre. La scrivania era
sgombra. C’erano solo il computer, la tastiera e il mouse. Con un
sospiro, John entrò e sfilò dalla tasca del giaccone una
piccola scatola avvolta in una carta colorata, con un fiocco rosso
sopra. Si chiuse la porta alle spalle e aprì il primo cassetto
della scrivania, riponendovi il pacchetto regalo. Non si era ancora
tolto il giaccone, che la porta si spalancò. Nel vano si
stagliò la figura in sovrappeso di Mike Stanford, il cui viso
non riuscì a celare un’espressione di sollievo:
“John! Stai bene! Tutti i giornali e i notiziari parlano di
ciò che è avvenuto nel tuo appartamento. Perché
non mi hai risposto? Non so quante volte ho tentato di
telefonarti,” sbottò, in tono di preoccupato rimprovero.
“Mi dispiace. Sono stati giorni convulsi. Mycroft ha fatto
portare i bambini, la signora Hudson, suo padre e me a casa sua,
scortati dai suoi uomini. La villa era più sorvegliata di
Buckingham Palace. La signora Hudson, Phillip ed io ci siamo occupati
dei bambini. Abbiamo voluto che trascorressero un Natale quasi normale.
Eileen si è molto spaventata e aveva paura che potesse accadere
qualcosa anche ai suoi genitori, mentre Neil non ha praticamente capito
che cosa fosse successo.”
“Sì, certo. Lo ho immaginato. Tu stai bene?”
“Sì. Io sto bene. Nessuno è stato ferito. È morta solo lei,” mormorò John.
“Sherlock come sta? Gli hai detto del bambino?”
John sollevò uno sguardo furioso sull’amico: “Certo, come no! Senti,
Sherlock, mi dispiace, almeno un po’, che la donna di cui ti eri
innamorato sia morta fra le tua braccia, ma consolati. Non tutto il
male viene per nuocere. Stiamo per avere quel figlio per cui sei stato
costretto a sposarti con me e che tu non volevi. Con Irene fuori dai
giochi, ti puoi accontentare di noi. Siamo il tuo premio di consolazione,” sbottò in tono sarcastico.
“John…” sussurrò Mike, addolorato per l’amico.
L’Omega scosse la testa e si passò una mano sul viso e sui
capelli: “Scusa. Non è colpa tua se la mia vita è
un disastro. Non vedo mio marito dalla Vigilia di Natale, quando
cullava quella donna e ripeteva ‘mi dispiace’
all’infinito. Greg è venuto qualche volta alla villa, per
accertarsi che i figli stessero bene. Mi ha detto che Sherlock sta
fisicamente bene, ma che si è buttato anima e corpo nella
missione di scoprire chi fosse il capo di Irene Adler, per fargli
pagare la sua morte. Lui non mi ha mai chiamato. Non mi ha cercato. Non
mi ha chiesto di partecipare alle indagini. non risponde ai miei
messaggi. Non so quando lo rivedrò. Se lo rivedrò. Non so
come e quando riuscirò a dirgli del bambino. Non so nemmeno se
continueremo a rimanere sposati. Davvero, Mike. È stato un
magnifico Natale,” concluse, in tono amareggiato.
“Mi dispiace. Non è giusto. Dovreste condividere la gioia
per la gravidanza. Sherlock dovrebbe starti accanto e prendersi cura di
te…”
“Non ho bisogno che Sherlock si prenda cura di me! – lo
interruppe John con veemenza – Voglio che Sherlock mi ami quanto
lo amo io e che sia felice per questo bambino come lo sono io,
perché rappresenta il coronamento del nostro amore!”
Nella stanza calò il silenzio. Era stato strano ammettere ad
alta voce i sentimenti che provava per il marito. Era come se avessero
assunto un aspetto concreto e reale. Quell’amore, però,
era stato svelato alla persona sbagliata e questo lasciava un gusto
amaro nella bocca di John.
“Sono sicuro che andrà tutto bene. Sherlock
risolverà il caso e tornerà da te. Sarete felici, John.
Il destino non vi avrebbe donato un figlio, se non avesse voluto che
diventaste una vera coppia,” sorrise Mike, rassicurante.
“Sei troppo ottimista, Mike. Il destino non è mai
così generoso. Forse mi ha concesso questo bambino, proprio
perché sarà la sola e unica cosa che potrò avere
da mio marito. Sarà quel che sarà. Se sarà
necessario, io amerò questo bambino per entrambi,”
sospirò John, rassegnato.
“Ti fermi un po’ al lavoro?” Domandò Mike.
“Sì. Sono venuto a sistemare alcune pratiche. È
l’unico modo che ho per distrarmi un po’. Più tardi
prendiamo qualcosa insieme?” Propose John, con un sorriso di
scusa.
“Volentieri. A più tardi,” salutò Mike e uscì.
John prelevò alcune cartelle cliniche da una cassettiera e si
sedette alla scrivania. Iniziò a sfogliarle e a valutare gli
esiti di esami e referti di visite. Non sapeva quanto tempo fosse
trascorso, quando un odore non familiare gli fece alzare la testa.
Sulla soglia della porta c’era una ragazza dai biondi capelli
tagliati in un caschetto corto, che doveva avere più o meno la
stessa età del medico. Occhi azzurri vivaci e intelligenti
osservavano John con attenzione, mentre un sorriso accattivante si
formava sulle labbra colorate con un rossetto leggero:
“Buongiorno, dottor Watson. Non sapevo che oggi sarebbe venuto a
lavorare o la avrei raggiunta prima,” esordì, con voce
melodiosa e dolce.
John la guardò interdetto e sorpreso. Non la aveva mai vista
prima e non capiva chi potesse essere. Anche il suo odore era strano.
Un po’ troppo forte per un Omega, ma troppo delicato per
un’Alfa: “Lei sarebbe…?” Chiese, interdetto.
Sul viso della donna si formò un’espressione stupita:
“Non la hanno informata? Kathy è stata trasferita al
reparto di cardiologia. Io sono la sua nuova infermiera. Ho tanto
sentito parlare di lei, dottor Watson, e non vedo l’ora di
cominciare a lavorare insieme. Sono sicura che andremo d’accordo
e che faremo un lavoro fantastico,” spiegò con tono
entusiasta.
John sorrise e si alzò dalla sedia, andando verso la nuova
infermiera e allungando una mano: “Mi fa piacere che sia contenta
della sua nuova assegnazione. Spero di non deludere le sue aspettative.
Come lei sa già, io sono John Watson. Lei
è…?”
La donna prese la mano che le era stata porta e sorrise con calore: “Il mio nome è Mary Morstan.”
Angolo dell’autrice
Non ci vuole molto genio per capire a chi appartenga la sesta fotografia, vero?
Spero che nessuno sia troppo deluso dalla morte di Irene. So che
è un personaggio apprezzato, ma avevo proprio bisogno che
sparisse definitivamente. In questa serie non ricomparirà.
È veramente morta. Non è stata miracolosamente salvata
all’ultimo secondo.
Grazie a chi sia arrivato fino qui a leggere.
Grazie a chi abbia segnato la storia in qualche categoria.
Grazie a paffy333 per il commento allo scorso capitolo.
La prossima storia ripartirà dove si è fermata questa.
Chi sia curioso di sapere che cosa accadrà, non deve fare altro
che tornare qui la prossima settimana.
Ciao!
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