ESGOTH 3
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A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early
Summer Girls
❁
Capitolo
20
La
vetrina delle vergogne viventi
Dove sta
l’onore maggiore: nel godere di un grande premio o
nell’incombere di una grave pena?
Gli
applausi durano giusto il tempo di un grido e poco o niente rimane del
momento di gloria. Chiunque può sentirsi cantare le lodi e
dimenticarne il coro, assordato dal silenzio. Ma solo alle persone
veramente ritenute eccezionali è riservata dedizione nella
loro
caduta, ci si prende cura di vederle spegnersi pian piano, seguendo una
rigorosa procedura nel rovinarle interiormente ed esteriormente.
«Signorina, ci
deve consegnare immediatamente le sue Poké Ball.»
Un
paio di mani guantate porgevano una busta di plastica con un codice a
barre ed un’etichetta che recitava “oggetto
confiscato”.
«Ma neanche se
vuoi!»
Gli
fu risposto, mentre la giovane si reggeva nelle maniche, in
realtà non del tutto determinata a farsele strappare con la
forza come ultima spiaggia.
Le
altre la stavano a guardare, come se quella reazione fosse immotivata.
In realtà si stavano pentendo della propria
docilità,
almeno un’opposizione simbolica non sarebbe stata sprecata.
Invece così sembrava che quattro su cinque si fossero fatte
convincere ad abbandonare i loro fedeli Pokémon in mano
all’ennesima recluta con i capelli ossigenati ed il piercing
sul
naso.
«Senti,
rossa. – La apostrofò la sequestratrice, che si
girava fra
le mani un manganello come fosse una clava da ginnastica – Se
mi
lasci in mano le sei Poké Ball senza che ti faccio patire un
dente, rendi tutto più facile.»
Già per le
prime due parole la Capopalestra s’era infuriata come poche
volte.
«E
poi cosa gli fate? Gli iniettate sangue infetto delle peggio ebole e
alla fine li liberate finché non muoiono?!»
«Anemone,
calmati. Dagliele e basta. – E poi a voce più
sommessa,
Camilla aggiunse – Se non collaboriamo, potrebbe anche
prendere
le tue proposte in considerazione.»
Anemone
pensò a quanto odiasse tale condiscendenza, ma per quella
volta
non poteva biasimarlo all’altra. Prese tre sfere per mano e
le
consegnò alla recluta sbattendogliele con tale forza contro
da
costringerla ad indietreggiare.
Non
solo mezz’ora di impertinenti controlli, in cui le avevano
tastato come minimo ogni centimetro del corpo con meno delicatezza che
in qualsiasi aeroporto avesse mai messo piede, stava anche di fatto che
tutte loro meritassero anche la foto segnaletica.
Dopo
essere state perquisiste dagli Herdier (non che vi fossero molti posti
in cui nascondere oggetti contundenti o esplosivi in un kimono in
cotone corto fin sopra al ginocchio) le fecero cambiare con le
classiche uniformi da carcerati, quelle arancioni.
Un
piccolo particolare saltò subito all’occhio. E ne
fu fatto
un reclamo, perché avevano il diritto di rimanere in
silenzio,
ma anche il dovere di lamentarsi, se era per quello.
«No,
scusate, ma uniformi in poliestere e viscosa? A luglio?»
Camelia
si fece sentire, leggendo l’etichetta perché lei
era
abituata a metterseli i vestiti, non a manifatturarli.
Una recluta a cui i
pantaloncini stavano stretti ed aveva le smagliature la
guardò confusa e le rispose.
«Ghecis ha
voluto così.»
«Non si
possono avere quelle estive?» Le chiese, in un certo senso
anche a nome delle altre.
Sollevare
un po’ di futilità in quel momento di incertezza
stava
facendo l’effetto di rendere quel trambusto meno ufficioso e
meno
grave di quanto non si palesasse loro: mentre si facevano gli affari
loro, persone mandate dal vertice chiesero loro di alzarsi con calma,
di seguirli sempre con calma e soprattutto di stare calme, mentre
legavano una tozza cavigliera nera con uno schermo lampeggiante a
ciascuna.
Se
inizialmente ciò aveva suscitato sgradevole stupore, la
faccenda
si stava evolvendo in una paura del tutto informe, dato che quei riti
di passaggio verso la gattabuia si svolgevano sì
nell’istituto carcerario in cui erano state scortate dalla
polizia in macchina, ma di ufficiali e guardie neanche
l’ombra.
La recluta di prima, non
quella dei controlli, quella delle uniformi, alla fine rispose alla
mora.
«Hanno detto
che non si può. Non ci sono le vostre taglie.»
«Se
ti lascio fare una foto con me, - Camelia si indicò,
provando ad
usare la propria fama per associazione d’immagine –
e te la
autografo, così la vendi su internet?»
«Aspetta che
chiedo.» E quella contattò con il walkie talkie
chissà chi per l’autorizzazione.
Qualora
le fosse stato concesso almeno quel piccolo privilegio, avrebbe avuto
conferma di poter usare ancora qualche trucchetto intramontabile per
uscire da quella posizione disagiante.
«Mi
riferiscono che tanto appena tutto questo sarà finito il tuo
valore come persona cadrà al di sotto del prezzo di una
Pozione.»
E
se ne andò di sua spontanea volontà,
tornò solo
quando tutti e cinque gli yukata colorati non finirono sul pavimento:
collezionati i nastri e le cinture, la simpaticona almeno mantenne la
promessa di rispedirli indietro a Nardo e di non bruciarli assieme al
ciarpame accumulatosi negli uffici del vecchio governo.
Però con le
suppliche qualcosa Camelia e le altre riuscirono ad ottenerlo.
Di
non perdere i capelli, per esempio. Probabilmente, qualcuno contava di
raccogliere le folte lunghe chiome dai colori così vivaci e
singolari per farci una parrucca o la stoppa per le fessure.
Ma alla fine, dicendo di
averli colorati o di portare le extension, tale proposito non fu
attuato.
Quando
fu il momento della foto, fu chiara una cosa: quel processo
così
laborioso e snervante sia per chi lo subiva e chi ne reggeva i fili non
era nulla di costituzionale o formalizzante. Togliersi lo smalto tanto
carino, raccogliersi i capelli di modo che non cadessero oltre le
spalle, via bracciali, anelli, collane, neppure le scarpe gli era stato
permesso di tenere.
Senza
ombra di dubbio, più che renderle ancora più
innocue ed
indifese di quanto già non fossero, le cinque sventurate
erano
state spogliate della loro essenza, della loro identità.
Era
molto più semplice controllare delle bamboline spaventate
dalla
loro stessa ombra, aspettando che diventassero abbastanza opportuniste
e sfruttarle per qualche bassezza, sarebbero dovute somigliare ai
nemici controllati dall’intelligenza artificiale dei giochi
di
ruolo: senza faccia, senza nome e senza volontà.
Peccato che quella sera
avessero proprio una gran voglia di litigare, le aspiranti Campionesse.
La ragazza delle
fotografie la odiarono tutte, indistintamente.
Le
fece disporre a mezzo metro di distanza l’una
dall’altra,
facendogli usare le braccia come misuratore. Pretese che Iris, essendo
la più bassa, si posizionasse nel centro, che le due
diciassettenni fossero ai lati e sugli angoli le due più
anziane. Stavano di fronte alla famigerata parete con le tacche, divise
dalle operatrici da un vetro spesso, tanto che per parlare la recluta
si serviva dell’interfono.
Intanto
ella parlava con le altre sue amichette, che non si potevano sentire
dall’interno della stanza blindata, gesticolava e indicava
divertita le cinque figure, in piedi, immobili, quando alla rossa per
sbaglio scivolò di mano il cartello identificativo, la capa
si
mise a gridarle “tiralo su, mongoloide”.
Gli
fu chiesto di non sorridere e non mostrare i denti. Tutte annuirono,
guardando dritto avanti a loro, come topi ingabbiati. Apprezzarono che
per non sprecare tempo avessero preferito una foto di gruppo, anche se
non si trattava dello staff più gentile con cui collaborare.
«Bionda,
spostati quel diavolo di ciuffo, ti si devono vedere entrambe gli
occhi. Mora, tu alza la testa.» Rimbombò la voce,
tutte si
girarono verso la diretta interessata.
«Faccio
servizi fotografici da cinque anni, non mi faccio dire come posare da
una che mette il fondotinta liquido sopra dei pori larghi come
crateri.» Le rispose l’altra, sorridendo tra
l’altro.
«Dai,
Camelia... mi fanno già male le ginocchia.»
La
più piccola del gruppo fece per colpirla con il cartello,
tanto
la fece irritare quel commento, ma l’altra si
scostò
prima, battendola in agilità.
Odiava
sembrare condiscendente verso le azioni delle reclute del Neo Team
Plasma, di temporeggiare non le andava proprio. Delle vuote minacce e
un brutto vocabolario non sarebbero mai bastati a domare delle
scapigliate come loro, si disse Iris. E ciò le
sembrò un
segno, sotto sotto.
Mentre le altre tre
cercarono di calmare sul nascere quella becera lite, si fece risentire
la stessa.
«Vedete
di muovervi, o l’intera regione di Unima saprà che
non
siete solo delle criminali insalvabili, ma che avete pure la faccia da
cozze.»
Senza
troppo spavento, più mosse dall’imbarazzo di
essere
riprese da una palla al piede di tale calibro, si rimisero in
posizione, facendo la stessa faccia che ognuna di loro aveva usato per
la carta d’identità, il passaporto e
l’ID
Allenatore, col viso vuoto e gli occhi dilatati.
Si
spensero le luci e partì un flash fortissimo per due o tre
volte, illuminando la stanza d’un folgore insopportabile.
Quando
l’illuminazione tornò normale e sembrava tutto
finito, la
recluta sbottò, premendo il pulsante che azionava
l’altoparlante con il pugno, rivolgendo lo sguardo a destra.
«Ma
la deficiente che ha chiuso gli occhi!? – Respirò
rumorosamente sul microfono, straziata - Ma è possibile che
celebrolese del genere fossero candidate alla carica di Campione, fra
tutto il resto?!»
«Soffro
di epilessia. – Confessò la ragazza, piuttosto
urtata da
quell’appellativo sgradevole – Le luci
intermittenti
possono causarmi una reazione.»
«Ma
ti prego, un conto è essere matte, – si riferiva
anche a
Camilla, per quello usò il plurale – un conto
è
essere bionde dentro…»
«Rifai
la foto senza flash, per favore. – La interruppe quella,
sapendo
che dall’esterno si sentisse ciò che dicevano
– Non
abbiamo intenzione di ostacolarvi. Cercate di capire.»
La
ragione per cui la leader volesse ragionare con quelle canaglie fu
ignota a tutte. Probabilmente la donna aveva affrontato la situazione
con la maggiore maturità, visto che la recluta subito
comprese e
riprovò, stavolta esaudendo la loro richiesta.
Dopo un attimo di attesa
coi nervi a fior di pelle, la sentirono ripetere.
«Nelle
foto segnaletiche vi si devono vedere gli occhi, diamine! Potete
evitare di tenerli strizzati e spalancarli!? – Poi, in tono
più sommesso, aggiunse – S-Sapete che non ci
pagano per
questo? Noi tutte volevamo uscire questa sera, e invece siamo
qui… a fotografare delle imbecilli dalla faccia
schiacciata.»
«Ma questa
è la mia faccia normale, io non avevo gli occhi
chiusi.»
E
prima di fare la foto finale, dove ancora certi particolari non si
ritenevano adatti ai requisiti ufficiali per una segnalazione adeguata,
Anemone, mossa da curiosità si mise a tirare con gli indici
le
palpebre della giovane di Sinnoh per vedere, senza nessuna cattiva
intenzione, quanto effettivamente fossero poco esposti i bulbi oculari
degli abitanti delle quattro regioni dall’altro capo del
mondo,
non che volesse giustificare gli attacchi insensati di
quell’antipatica mocciosa dalla pelle butterata.
Da
quell’esperienza, le ragazze impararono che, potendo pure
recalcitrare ed ostruire l’articolato piano
dell’organizzazione degli Harmonia, alla fine, volenti o
nolenti
si dimostrassero, al punto di arrivo sarebbero comunque giunte, con le
mani legate dietro la schiena e gli occhi coperti, per non memorizzare
il percorso in cui altre reclute ancora le stavano indirizzando, verso
il loro destino incerto e nefasto.
Il
loro calvario, in cui il loro spirito sagace sarebbe stato smussato dai
flutti insistenti di persone grette e vili, cominciava proprio una
volta finiti i preparativi.
❁
Strano
che nelle prigioni vere non ci fossero le sbarre sulla parete o le
grate alle finestre. Una volta rimosse le bende, si sentì il
forte tonfo di una porta chiusa ed una sequenza di chiavistelli
incastrarsi con un clangore inquietante, come se si stessero mettendo
d’accordo in un codice segreto di non lasciare alcuna via di
fuga.
Ironicamente,
come se davvero questa storia avesse preso in considerazione
protagoniste così riflessive e assennate, le nuove arrivate
si
misero a sedere: avevano a disposizione due letti a castello soltanto,
spesso le istituzioni nutrono una certa scaramanzia verso i numeri
dispari.
Si
trattava di una cella abbastanza angusta da non permettere a
più
di una persona alla volta di stare in piedi e attraversarla, non che si
potessero fare più di tre passi prima di imbattersi in uno
dei
muri in cemento armato, il cui intonaco si sbriciolava e trasformava in
una polvere fitta; ricordava loro il locale dismesso che in teoria
sarebbe dovuto diventare la loro sauna personale e invece non avrebbero
mai più rivisto, con tutta probabilità.
Di
sicuro gli altri carcerati, gli assassini, gli stupratori, gli
spacciatori e i truffatori della regione di Unima se la stavano
passando meglio di loro al momento. Neppure le resistenze della lampada
a tungsteno erano salve da un fastidioso contatto, breve quanto un
battito di ciglia, almeno due-tre volte al minuto.
«Iris.»
La punse nell’orecchio una voce melliflua, che la fece
tornare in sé.
La
ragazzina si appoggiò alla testiera del letto, sentendo un
deflusso di sangue dalle mani e dai piedi. L’ansia
s’era
impadronita di lei e ora avrebbe dovuto convivere con quel demone in
meno di dieci metri quadrati di spazio.
«Cosa?»
Al suo voltarsi si udì la suola delle ciabatte in plastica
sulla
ghiaia residua del pavimento non piastrellato.
«Anche
se cammini avanti e indietro per oltre quindici minuti, non cambia
niente. Mi faceva solo piacere ricordartelo, sai, che non ti facciano
male le ginocchia.»
Già
la battuta di prima le aveva dato su i nervi, se Camelia non avesse
avuto ragione in quel momento le avrebbe intimato di levarsi quel
sorriso dalla faccia e smetterla di essere sarcastica, anche se
dubitava un qualsiasi esito positivo.
Al
celebre monito di “conosci te stesso”, Iris era
sempre
stata preparata sull’argomento. Conosceva le proprie paure e
sapeva quali situazioni o persone le innescassero, tantoché
a
volte le pareva di conoscere solo se stessa, incapace di processare
altro che andasse oltre i confini del suo solipsismo.
E
di sicuro, ad una giovane abituata agli ampi spazi verdi della sua
città, le strade larghe ed il cielo infinito sopra la testa,
il
semplice concetto di quei muri spessi, che le sembravano avvicinarsi e
restringere la stanza ad ogni occhiata gli lanciasse, non la aggradava
affatto.
Infatti
si stava trattenendo il lamentare la propria claustrofobia in rispetto
delle compagne: era ovvio che se quattro pareti la spaventavano
così tanto, la sua paura non sarebbe stata altro che una
zavorra
all’avvento di ciò che stava ad aspettarle.
Invece di mettersi
comoda in uno dei letti inferiori, si accovacciò scivolando
verso il basso, parallela alla testiera.
«Non capisco,
noi non stavamo vincendo? Avevamo anche festeggiato in
anticipo…» Disse, sconfortata.
«Io
non sono chissà che mente malvagia, – Anemone
muoveva il
polso da dietro la spalla della sua compagna per provare il proprio
punto – ma se dopo aver chiesto alle future Campionesse di
ritirarsi dal TRUF quelle mi tirassero bidone, io mi arrabbierei non
poco.»
Non
voleva dare torto alla rossa, fra tutti quanti, ma l’idea che
il
cervello del Team se la fosse legata al dito in quella maniera,
pianificando una tale vendetta come una fidanzata gelosa, ad Iris
suonava assurda.
«Cosa
dovevamo fare, arrenderci?! – E sottovoce, visto che non
sopportava una tale colpa su di sé – C-Comunque
era
Camilla che parlava, io sono stata zitta… u-un terzo del
tempo,
circa.»
La sua tirata
patriottica, se ne ricordava alcuni spezzoni, era altro tasto dolente
su cui voleva sorvolare.
«Vuoi
dirmi che siamo finite in prigione, - la mora alzò un
sopracciglio – perché le due reclute hanno fatto
la spia?
Ma se non sapevano neanche i nostri nomi, a parte il fatto che loro si
chiamano come gli Unown…»
Prima
che la più piccola del gruppo si permettesse ancora di
accusarle
ingiustamente, si intromise la sub-leader, che si era già
appropriata del letto in basso a destra, giocandosi la sua carta della
mobilità ridotta.
«Non potevamo
mica massacrarle, ci hanno incastrate. Non volevano i soldi,
quindi…»
«Se
lo avessimo fatto, dite che ci avrebbero iniettato il cocktail il
veleno degli Scolipede o saremmo finite sulla sedia elettrica, con i
Tynamo attaccati alle caviglie… Ah, no, hanno capito che
costringerci a stare in cinque, insieme ventiquattro ore su
ventiquattro in un buco avrebbe funzionato di più.»
Per
quanto potesse suonare barbarico, a differenza delle altre regioni, ad
Unima si usava ancora la pena di morte. Era usanza di anni e anni
orsono, in cui crimini compiuti venivano puniti e quelli potenziali
scoraggiati con l’esempio pubblico più efficace.
Tale
verdetto risaliva alla stessa era in cui dall’estero erano
giunte
ad Unima anche le armi da fuoco. Ma mentre quelle si abolirono sotto
pressione dei protestatori pacifisti, la pena capitale era entrata
nella coscienza collettiva come misura unica contro i peggiori misfatti.
All’alba
dell’ultimo secolo tuttavia, almeno per alleggerire il
supposito
peso morale dai cuori di chi non poteva davvero prescindere dalle
conseguenze, non si coinvolgevano più i Pokémon
nelle
torture e nelle esecuzioni.
Se i film cult non ne
avessero ricavato un mito, Camelia non avrebbe nemmeno citato tale
riferimento.
«Anche
no, gli costa di meno tenerci segregate qui finché non scade
il
mandato di Nardo. Fine della storia. – La biondina di Sinnoh
provò a distendersi sul brullo materasso che era stato
lasciato
loro e si rialzò subito con un riflesso atipico per lei,
prima
tastando, poi battendovi il pugno sopra – Che letti
scomodi… Ho sonno, voglio andare a casa,
uff…»
Per
quanto Catlina fosse cresciuta nella bambagia e le sue aspettative in
fatto di comfort risultassero eccessivamente alte, nessuna le diede
contro: erano state viziate così tanto nell’ultimo
mese
che per “casa” il loro pensiero non volò
mica alle
loro, nelle loro città natale.
«Cosa
succederebbe – la mora si alzò in piedi, di
scatto, con un
impeto del tutto estraneo alla sua personalità –
se
decidessi di ammazzarmi qui ed ora, in un gesto di estremo
vittism… intendevo, patriottismo?»
«Dirò
a tutti che eri la mia modella preferita.» Anemone si
toccò il cuore, sincera nelle sue condoglianze proprio come
la
sua fidanzata quando, come al solito, non lo era mai.
«Non
ditele neanche per scherzo cose del genere, abbiamo sfiorato
l’altro mondo circa… - Catlina fece i suoi calcoli
nella
lingua della sua regione, perché le risultava più
conveniente – quattro o cinque volte in tutto giugno e
metà luglio. Forse per me arrivano anche oltre il
dieci…»
A
quel punto, l’aria già soffocante della cella si
era
riempita di quelle voci disincantate, di quell’ironia
così
realistica e tagliente, che la più giovane del gruppo
desiderò liquefarsi e scivolare via da sotto gli anfratti
sulla
porta, visto che i piedi non potevano condurla da nessuna parte.
«Non
è giusto, non è assolutamente
giusto…» Sussurrò, non volendosi far
sentire.
La
ruota del karma, il principio del bene ripagato e del male castigato,
quell’ideale di giustizia di cui le avevano farcito la mente
sin
dalla tenera età, era rimasta incastrata ormai da un pezzo:
nemmeno la polizia le aveva ringraziate per aver cacciato le reclute
dal Centro Pokémon.
Si
strinse le ginocchia al petto e vi appoggiò la testa,
sentendo
il flusso della massa di capelli ricadere in avanti. Le pareva come se
la testa le stesse per esplodere.
Le sue compagne avevano
ragione, non era la prima volta che finivano con l’acqua alla
gola.
Ma
cosa potevano fare in quel momento, senza i loro Pokémon,
senza
potersi consultare con qualcuno di più saggio, senza neppure
lo
spazio vitale per organizzare il contrattacco?
Calò
un po’ di silenzio, quasi quasi ad alcune venne voglia di
andare
a dormire, era tardissimo e chissà cosa riservava loro il
domani
(e dire che in precedenza il coprifuoco delle dieci e mezza gli era
stato così tanto in odio!).
«Ohi,
spegnete la luce. – esortò la Capopalestra,
indicando
pigramente l’interruttore sulla sinistra in basso esattamente
alla portata di quella che fra loro era rimasta più
silenziosa
finora – Camilla, dai, per favore, spegni ‘sta
luce.»
Nonostante
l’udibile nota di irritazione, la leader rimase un secondo
titubante, concentrata su qualcosa.
Eseguì
comunque la richiesta, perché le era venuta
un’idea e non
l’aveva condivisa pur di non sforzare psicologicamente le sue
care apprendiste ancora in stato di shock.
Nel
buio, alzando gli occhi che la recluta delle foto tanto le aveva
criticato, aveva notato un particolare che purtroppo sembrava esser
sfuggito alle restanti.
«Ragazze,
– aveva un tono calmo, sapeva il significato di quello che
stava
per chiedere – al mio tre mettetevi tutte a gridare
più
forte che potete, okay?»
«Eh…
no?»
Iris
si sarebbe pentita di essersi rivolta ad una più grande di
lei
in maniera tanto irrispettosa un giorno, ne era sicura, ma quel giorno
non era altrettanto sicuramente quel dì o quella notte
stessa.
Sebbene
non fosse molto sensato mandarle troppe occhiatacce al momento e vista
la voglia di scherzare che là dentro veniva e se ne andava
nel
giro di pochi minuti, le quattro non si sprecarono troppo nel
controbattere.
“Per
favore, non c’è tempo…”,
“Tu sei
pazza” detto con tono derogatorio, “Ma anche
no” e
altro ancora inondavano di uno sgradevole brusio l’aria, con
aggiunta di qualche sbadiglio e imprecazione mormorata fra i denti.
Come
se a Camilla importasse, partendo dall’indice
iniziò a
contare e le altre prestarono ascolto, un riflesso automatico ricavato
dai loro allenamenti.
«Uno…»
«Spero che
adesso ci trasferiscano in un ospedale psichiatrico, perché
io ne avrei bisogno.»
«Non
c’è proprio nulla da fare, huh?»
«E anche oggi
si dorme domani…»
Alzò anche
l’anulare, sempre con lo sguardo fisso in alto.
«Due…
- e la Campionessa di Sinnoh non esitò oltre, visto che
necessitava della conferma per le sue supposizioni al più
presto
possibile – tre!»
All’unisono,
suoni acuti come il graffio con le unghie sulla superficie di una
lavagna si levarono e ogni atomo presente nello spazio gassoso fu
riempito di quell’energia fonica, vibrando con le voci
femminili,
simili al pianto di spiriti irrequieti, perfino i legittimi fantasmi
dei morti che infestavano quella prigione si sarebbero spaventati,
qualora non si trattasse solo di leggende metropolitane.
Dopo
aver trattenuto la lettera “a” sull’orlo
della gola
per circa mezzo minuto, una dopo l’altra smisero e subito si
pentirono di aver sperperato fiato per una cosa così futile.
Immaginarono
che la più anziana si fosse inventata quella specie di
terapia
per tranquillizzarle, pensando al loro bene psico-fisiologico. Non solo
tristezza, soprattutto rabbia si era annidata nei cuori delle
Allenatrici e senza intervenire subito le avrebbe rose
dall’interno, come roccia pregna d’acqua.
In
effetti, almeno Iris, ammise che per lei aveva funzionato. Certo, le
facevano un po’ male i polmoni, ma nulla che le peggiori
litigate
con le sue amiche o il tifo durante una lotta molto accesa non avessero
già messo alla prova. Si considerò fortunata che
esistessero persone come Camilla durante tempi del genere.
Tuttavia, il genio della
giovane donna non si era limitato solo ad
un’utilità di tipo astratto.
Quella sorrise
soddisfatta delle sue deduzioni. Anzi, ne trasse un vero e proprio
sollievo.
«Per
fortuna. Le telecamere non sono solo senza l’audio, ma non
hanno
neanche implementata la visione notturna.»
Dopo
quella rivelazione, le quattro si pentirono della loro
impulsività ed imprudenza: perlomeno adesso avevano la
sicurezza
di potersi parlare e confidarsi senza che quelle vipere andassero a
ficcanasare come avevano fatto fino ad ora.
La
loro teoria era comprensibile: avevano accumulato una
quantità
sufficiente di informazioni su di loro da considerarle dei libri aperti
e dopo averle imprigionate non avevano più il bisogno di
snocciolare ulteriormente ognuna delle loro singole conversazioni per
completare tabelle di dati personali da consegnare al loro capo. O
forse…
«Dobbiamo
avergli fatto venire un esaurimento nervoso a quelle povere anime,
immaginate ascoltare noi che parliamo dei nostri patemi
d’animo,
di battutacce, tette e sesso per un mese e mezzo.»
Dopo
questa constatazione indubbiamente della mora ed un’ansia in
meno, le cinque pensarono fosse alla fine giunta l’ora di
mettersi a letto, se proprio non riuscivano ad addormentarsi dovevano
accontentarsi di parlare sottovoce.
Ma
fu con la luce spenta e l’oscurità che si
manifestò
il vero e proprio inizio del test alla loro capacità di
sopravvivenza.
La
famigerata telecamera si spostò verso il centro del
soffitto,
azionata da qualche meccanismo automatico collegato al circuito della
corrente: infatti solo con lo scuro si poteva vedere il fascio di luce
quadrato puntato contro il muro brullo al termine della cella; faceva
anche da proiettore, in sostanza.
Aprirono
d’improvviso gli occhi, sorprese. Scendendo dal letto, si
piantarono tutte quante davanti allo schermo, impaurite più
che
curiose di sapere cosa sarebbe successo.
Non
vi erano pulsanti d’accensione o spegnimento. Qualsiasi
immagine
o video sarebbe apparso se li sarebbero dovuti sopire tutti,
sacrificando ulteriori ore di sonno preziose. Sedute tutte a gambe
incrociate sul pavimento lercio, come da bambine a scuola, con i nervi
a fior di pelle. E dalle casse, all’improvviso
partì.
«Buonasera,
care ragazze. Ci avete fatto aspettare un po’, ma alla fine
siete arrivate.»
In
qualità decisamente sgranata, il volto purtroppo familiare
di
una delle loro più recenti conoscenze all’interno
del Team
Plasma parlava perso nello sguardo ad una webcam interna, la fronte
appariva più alta e l’ombra degli occhiali si
rifletteva
sul volto pallido, su quel sorriso maligno.
«Non
ci credo, è il tizio che abbiamo quasi preso sotto, voleva
costringere me e Camilla a ritirarci e continuava a chiamarmi
“tesoro” … - Iris si
protese in avanti a
carponi, riconoscendolo, mentre le altre avevano sussultato nello
stesso istante, per poco Catlina non era svenuta – come
si chiamava? Acromio?»
«M
dispiace di non essere potuti giungere ad un accordo che accomodasse
entrambe le parti. Ci sono state delle interferenze, qualche
fraintendimento che non poteva essere affatto
ignorato…»
Continuò,
scandendo quelle parole in modo tanto accondiscendente, sembrava
sottovalutare di molto l’intelligenza delle sue
interlocutrici.
Non che avessero comunque la possibilità di ribattere
qualcosa,
da parte loro.
«Siamo.
In. Prigione. Per. Nulla. – Iris batté le mani ad
ogni
parola, come se desse una maggiore validità al suo discorso
– Sicuri che non siate voi a star violando qualche diritto
umano?»
«Tanto
non ci sente… non ha neanche senso provare.» La
riprese la
compagna più grande, tornata più o meno in
sé.
«Ma
non preoccupatevi! – Esclamò, facendo un giro
completo
dalla sua poltrona girevole, quella su cui per qualche ragione
possiedono tutti i cattivi dei fumetti – La procedura penale
di
Unima prevede che prima di imputare a qualcuno una condanna
è
necessario un processo giusto ed equo.
E
per non incappare ancora in quella prassi macchinosa delle volte
precedenti, già da domani mattina cominceremo le sedute
giudiziarie, una ad una, una dopo l’altra. Il tempo
è
denaro, ed il denaro in questo caso è la vostra
assoluzione.»
Il
programma del giorno dopo non suonava per nulla allettante. A quel
punto marcire nella cella afosa per altre tre o quattro settimane, per
tornare poi alle loro vite normali andava anche bene.
«Non
me ne frega niente se non ci può vedere o sentire, quando
gli
metto le mani addosso e glielo stacco dalla testa, quel ciuffo, allora
sì che possono processarmi!» Anemone glielo
gridò e
si sentì il rimbombo.
Senza
preavviso, la rossa ebbe uno scatto d’ira (per quanto ormai
le
altre quattro si fossero abituate a tali comportamenti, rappresentavano
comunque un pericolo in uno spazio così stretto), si
alzò
in piedi, si tolse una delle scarpe dalla suola scollata e la
lanciò contro il muro con la potenza e la precisione di una
catapulta medievale; Acromio se la beccò proprio sul naso,
mentre andava avanti a parlare indisturbato.
«Scusatemi,
suppongo.»
«…No,
tranquilla, no scuse.» La rassicurò la leader.
Ma
da quel raptus violento nacque altro. Altre calzature seguirono, vari
oggetti per l’igiene volavano sulla fronte, contro il mento e
la
bocca del rappresentante del partito, il peggio comunque furono alcuni
bicchieri che si frantumarono in cocci destinati a rimanere a terra
come una trappola di Fielepunte, sul muro i calchi dei proiettili
occasionali.
Tante
cose avrebbero voluto dire, i suoni rimasero appesi alle labbra: quella
detenzione già le stava imbarbarendo; il Professore non
aveva
ancora finito.
«Vi
consiglio vivamente di pensare già adesso al vostro alibi.
– L’uomo emise una risatina effemminata, a dir poco
irritante – Non fate le facce da cuccioli indifesi, suvvia!
Se
siete abbastanza grandi per concorrere al titolo di Campione, potete
benissimo affrontare la vostra causa senza che vi venga fornito alcun
avvocato.
Sono tutti soldi
risparmiati per la campagna autunnale del Team Plasma,
dopotutto.»
Fu
un duro smacco da recepire. Era dai tempi dei Greci che
l’organizzazione della difesa non veniva affidata al
cittadino
stesso, ed in molti casi perfino gli stessi accusati
all’agorà finivano per sobbarcare il lavoro
dell’orazione ad un logografo. Invece né Lisia,
né
Cicerone né Demostene potevano venire a salvarle con le loro
formulette retoriche e i loro “oh, giudici!”.
«Detto
questo, ci vediamo domani in tribunale. – Congiunse le mani,
ancora non capivano se si trattasse di un messaggio dal vivo o
pre-registrato - Dormite bene, domani sarà una giornata
leggermente impegnativa.»
Prima di scollegarsi
dalla linea tuttavia, il professor Acromio ricomparve sulla parete a
lasciar loro un ultimo messaggio.
«A
proposito, una comunicazione di servizio: questi giorni si prospettano
come i più caldi di tutta la stagione estiva di
quest’anno. Queste carceri tuttavia sono piuttosto antiquate
e mi
duole avvisarvi del fatto che l’aria condizionata non
funzioni.
Bevete molta acqua e fate delle belle docce fredde ogni quando ne
avrete l’occasione.»
In
seguito a tale consiglio paternalistico, Acromio si dileguò
e la
schermata tornò blu, apparve la scritta “no
segnale”.
L’ora
dello spettacolo era terminata. Da quel momento in poi erano al centro
per cento sole, ma non avevano neanche le forze di sollevare dal
pavimento le proprie ossa.
Dopo un silenzio che
parve interminabile, la sub-leader si morse il labbro, ponendo a tutte
la fatidica domanda.
«Allora,
domani chi va?»
Tutte contorsero la
faccia in un’espressione addolorata, la più
giovane emise un debole mugolio di insofferenza.
«Io
non ce la faccio, mi dispiace. – la pilota, al massimo
sincera,
scusandosi con tutto il cuore – Ho bisogno di prepararmi a
memoria quello che devo dire, non so improvvisare un discorso e ho
paura di parlare in pubblico. Se cominciamo male, possono farci di
tutto…»
«E
come facciamo a sapere che non sia tutto già deciso e il
risultato non sarà truccato? Io non so neanche
perché ci
abbiamo arrestato al principio.»
Iris
non riusciva a guardare in faccia nessuna. Dopo quel sensato
ragionamento e rivelate le sue fallimentari abilità
persuasive
alla riunione di Austropoli, non era di certo lei la migliore candidata
per dimostrare che le cinque sospettate di non si sa che reati in
realtà erano obbedienti, rispettose ragazzine educate.
Forse
Camilla era la scelta giusta, ma proporre sempre lei come cavia da
laboratorio e giocarsi subito il loro jolly non sembrava comunque una
buona strategia.
«Beh…
- commentò quella – credo ci toccherà
andare a
sorteggio. Mi sembra l’unica soluzione…»
Ci
fu un altro colpo di scena che nessuna si aspettò, ad
eccezione
di colei che si era fatta stuzzicare sin da subito dall’idea,
ma
aveva aspettato di sorprendere tutte spingendole agli sgoccioli. La
ragazza appariva abbastanza rilassata, mossa a far cessare quelle
paranoie idiote sul loro destino, abbastanza determinata da volersi
impegnare a far chiudere il caso e mostrare alle compagne spaesate
l’arte di vincere un dibattito con la propria intelligenza.
Quasi la stessa ragione
che aveva spinto Camelia a prendere parte alla competizione a inizio
estate.
«Ah,
bisogna spiegarvi sempre tutto, arrivarci da sole? Mai, eh…
com’è che si diceva? “Mi offro
volontaria come
tributo”? O qualcosa del genere.»
La
modella provò a ricordarsi la posizione delle mani associata
a
quella frase, ma le venne in mente solo qualcosa relativo
all’alzare il dito medio, quindi s’arrese. Ci stava
godendo
nell’appropriarsi delle bocche spalancate delle compagne,
ovviamente.
«Dai,
cosa volete che sia? Ci sono molestatori, evasori fiscali e produttori
che fanno stipulare ad alcune mie colleghe contratti da schiavisti e
tutta questa gente è in circolazione senza problemi. Che
volete
ci facciano?»
«Camelia,
sei sicura? – Camilla le venne incontro poggiandole le mani
sulle
spalle, mossa da genuina preoccupazione – Sappi che nessuna
di
noi potrà sostituirti all’ultimo. E che qualsiasi
cosa tu
dica o faccia potrebbe esserti ritorta contro.»
La
diciassettenne le afferrò i polsi e scostò da
sé
quella presa troppo intima. Le sorrise come faceva sempre, provando
perlomeno a rasserenarla almeno sul fatto di meritarsi per una volta la
fiducia delle sue compagne.
«Lasciate
fare a me stavolta. Dobbiamo soltanto negare tutto ciò di
cui ci
accuseranno, è fin troppo facile. Mi stanno letteralmente
chiedendo di venire umiliati davanti a mezza regione!»
Con
quell’affermazione, riuscì ad attenuare un
po’
dell’avvilimento di prima, mentre le quattro si guardavano
reciprocamente, dicendosi “beh, in
effetti…”.
Esattamente quello che voleva.
La modella si
alzò in piedi, rivolgendosi al suo uditorio, che ancora la
ammirava dal pavimento.
«Visto?
Io so come funzionano queste cose. - Indicando Iris, Anemone e Catlina,
gli sorrise impietosita, ricambiando con una freddura il loro supporto
– Con questo vostro atteggiamento da perdenti non andrete da
nessuna parte nella vita, mi dispiace.»
Senza
replicare nulla visto il grande favore che il cuore frigido della
Capopalestra stava facendo per salvarle dalle fauci del leone, una
nuova atmosfera speranzosa si sostituì all’ansia e
riempì il loro angusto spazio vitale per tutta la durata del
loro riposo, con una certa anticipazione per il mattino seguente.
In
particolare, la mora si addormentò accanto alla sua
fidanzata,
eccitata come se si trattasse del giorno prima di un grande evento, in
cui tutti i riflettori erano puntati su di lei.
«Cioè,
dovrei essere io la leader di questo gruppo. Sono troppo brava in
queste cose… Camilla, ti voglio bene, ma io sono meglio di
te,
scusa cara Campionessa.»
❁
Per
distrarsi dal torpore ai deltoidi che le infliggeva il camminare con le
braccia ritte ammanettata dietro la schiena, non potendo guardarsi
intorno, Iris si mise ancora a ragionare sulla scelta del proprio
partito, come se una lotta importante fosse imminente ed ancora non
sapesse chi mandare in campo per primo.
Camelia era davvero la
persona giusta a cui far aprire quelle danze infernali?
Quella
stessa esitazione le fece venire in mente una cosa non trascurabile:
per quanto la modella di tre anni più vecchia di lei la
maltrattasse, prendesse in giro, trattandola come uno zerbino e a
questo punto nessuno potrebbe negarlo, era la piccola aspirante
Allenatrice ad avere sempre pregiudizi e basse aspettative nei suoi
confronti.
Ripensò
al loro incontro alla Lega, a come le avesse dato della poco di buono
soltanto perché si stava risistemando il mascara (o altro,
la
sua memoria ormai si stava offuscando) ed aveva un top che le scopriva
la pancia.
E
dopo quella le aveva strillato contro, l’aveva sminuita
davanti a
tutte, ma l’orgoglio urtato di Iris non faceva fronte alla
perversa confermazione delle sue infantili congetture.
Ora
che si avvicinavano passo per passo al tribunale invece, avrebbe
preferito non partire così prevenuta nei suoi confronti. Era
come se il suo inconscio ispirasse energia negativa che poi si
tramutava in brutte reazioni.
Era
come se il bullismo di cui Iris si dichiarava vittima dal secondo in
cui aveva incontrato quegli occhi azzurri e appassionati in
realtà fosse partito da lei stessa, non da Camelia. Non
essendo
troppo cieca sui propri vizi da ignorarlo, alla ragazzina dispiacque
tantissimo.
«Fate entrare
le imputate.»
Udì
da fuori, già impietrita dal fatto che non si stessero
scomodando neppure di imparare i loro nomi od il codice a sei numeri
cucito sulle loro uniformi sgualcite.
Sentì
che la calura umana emessa dalle reclute tanto vicine a lei si era
dispersa, un profumo di legno vecchio la indusse a sollevare le
palpebre ancor prima che la benda nera le venisse tolta. Si
scoprì aggruppata con le quattro sue compagne, mentre la
Capopalestra di Sciroccopoli era a qualche metro più in
là, era da quando avevano messo piede fuori dalla cella che
non
gli era più stata data la possibilità di
scambiarsi una
parola.
D’improvviso,
una spinta di forza non modulata in maniera proporzionale ad una
corporatura così esile la fece sobbalzare, fu di nuovo
intrappolata nella stretta delle sorveglianti, le quali con foga
condussero a sedere lei, Anemone, Camilla e Catlina, pestandogli i
piedi ogni qualvolta rallentavano verso i loro posti in prima fila,
sull’ala destra della sala.
«Sono
giovanissime. Andranno per i sedici, i diciotto? O
forse…»
Uscì una voce dalla folla, loro non lo sentirono.
Tutto
quel venire sballottata a zonzo sortì l’effetto di
ammansire ogni impulso di rifuggire quel contatto forzato, nessuna
delle quattro rifiutò di mettersi comoda pur di venire
lasciata
in pace.
Quando
per sbaglio alla biondina aristocratica fu letteralmente staccato un
capello impigliato su un anello troppo fastoso con un lamento a fatica
contenuto, le venne l’orripilazione.
«Chissà
perché, ho la sensazione di averle già
viste… ah,
giusto. Mio figlio ha un poster della ragazza coi capelli neri in
camera! Mi dovrei preoccupare?» Fece un signore dalla giacca
con
i gemelli.
Sembrava
di stare in chiesa. Tutti i presenti lì vestivano eleganti,
mentre a loro era stato dato a malapena un quarto d’ora per
rassettarsi le loro zazzere nodose e lavarsi i denti.
Inoltre
avevano bevuto solo un po’ d’acqua, ma aveva un
retrogusto
strano; si potrebbe litigare fino alla fine dei tempi se
l’acqua
abbia un sapore o no, ma non sapeva di quella bottiglia e nemmeno come
quella del lavandino, era poco dissetante…
«Ho
sentito dire che sono delle tipe che... Ci vuole un bravo psichiatra
per raddrizzarle, magari.» Una signorina si
sistemò sulla
sedia in legno, dondolando.
«Sì,
la rossa mi dà abbastanza l’idea di una che da
piccola
picchiava i più piccoli per divertimento. –
Concordò il coniuge, lieto di essere stato invitato a far
presenza all’evento cult dell’anno in fatto di
politica
interna – Ma la più alta, con il ciuffo lungo, a
me fa
più paura lei fra tutte.»
Tutti
i magistrati le guardavano. Ma soltanto nel momento in cui erano sicuri
di poter immediatamente rifuggire gli sguardi delle ragazze. Al circo,
nessuno guarda negli occhi il fachiro sul punto di ingoiare la spada
affilata o il contorsionista a testa in giù.
Qualcuno
doveva aspettarsi che le ragazze facessero qualcosa di clamoroso, dato
che i più temuti fuorilegge alla fine si erano sempre
dimostrati
grandi intrattenitori una volta giunti in aula, aumentando la
soddisfazione per averli catturati ed averli portati sotto
l’imponente bilancia dorata.
Tuttavia,
l’attenzione che la probabile condannata attirava su di
sé
era ineguagliabile: come poteva la pelle rimanere pulita e uniforme
anche dopo aver dormito su cuscini luridi ed avere le labbra ancora
rosse, gli occhi spalancati pieni della luce naturale che ricadeva su
di lei dalle finestre, riuscendo a sembrare un poco preoccupata e
contenta insieme.
Era
come la volta degli assistenti sociali che volevano portarsi via
Anemone, pensò la ragazzina. Non riusciva nemmeno se ci
provava
a fare il tifo per la sua compagna, non aveva l’aria della
paladina della giustizia o della salvatrice di loro che erano innocenti.
«Ti
prego Camelia, non rovinare tutto.»
Incrociò
le dita, prima che le afferrassero il polso e finalmente qualcuna delle
sfortunate Allenatrici tornò a far parlare
l’intero gruppo.
«Davvero
è necessità vitale ammanettarci alle
sedie?»
Camilla
era quasi impietosita dalla briga che le reclute si prendevano dal
giorno prima per far sì di privarle ogni singola volta di
ogni
singola libertà, per esempio il grande privilegio di potersi
grattare un attimo il naso.
«Certo.
– Le rispose l’altra, con sicurezza –
Potreste
scappare o fare qualsiasi altra idiozia se non vi teniamo
legate.»
«Tenerci
legate non ci dovrebbe far venire ancora più voglia di
fuggire, in teoria?»
Nonostante
la leader fosse stata piuttosto gentile nel suo tono, la recluta si
riempì d’antipatia e tagliò corto.
«Risparmiati
la filosofia spiccia per il tuo processo, neh.» E si
allontanò.
Tamburellando
sulla gamba del seggio laccato, la mora manifestava la paradossale
voglia di salire su quel carosello diabolico, aspettare ancora di
iniziare il processo stava mettendo tutti di cattivo umore.
E
quel dì servivano giurati benevoli, dei veri e propri
maestri
d’empatia, perché perfino il cigolio di una porta
o un
banco strascinato sul parquet causavano numerosi e sonori mugugni
spazientiti, le formalità ammattivano lo spirito
già poco
combattivo delle parti in difesa.
Le
cinque reagirono in modo curioso quando una serie di colpetti ovattati
fece soffiare gli altoparlanti, si guardarono attorno stordite, come se
perturbazioni invisibili le stessero schiaffeggiando.
Il pubblico si
rilassò. Il microfono da cravatta intavolò una
vibrante entrata in scena.
«Signore e
signori della corte, grazie per aver aspettato fino a questo momento!
Dichiaro la seduta aperta!»
Il
Professor Acromio si introdusse reggendo il proprio tablet con la
copertura a tendina, incurante del dress-code nel suo camice
immacolato, incantando tutti quale il presentatore di uno show
televisivo. Assolutamente conscio di non pertenere affatto alla cerchia
di nemici canonici contro cui il vecchio establishment si era accanito,
non ci provava neanche a ghignare in modo losco o a far la voce grossa.
In
quel momento indossava gli abiti del segretario di partito,
dell’uomo eclettico e raffinato, dal background misterioso
che
affascina sempre gli studiosi di storia politica. I lineamenti efebei
ed il fisico gracile si guadagnarono subito la simpatia di quasi tutti.
«Mi
chiamo Acromio, sono un professore Pokémon. – Fece
la sua
solita tiritera, aveva caro di imprimere il proprio nome nella memoria
di chiunque incontrasse - Per oggi ed i giorni a venire sarò
io
il giudice di questa singolare causa. Confido nella vostra
collaborazione.»
Si
piazzò davanti alla platea, squadrando la sala
dall’alto
al basso, confidenza nell’avere in mano sua
l’intera
situazione. Non poteva negarlo, tutto quel potere lo aveva insuperbito
un pochettino.
E
per quanto ciò gonfiasse quell’intellettuale
schizzato
come un palloncino pieno di elio e la testa gli fluttuasse
nell’iperuranio dei fanfaroni, le sue poche disistimatrici si
dovettero cucire di malavoglia le labbra.
Soprattutto quella fra
loro la cui lingua poteva decidere la differenza fra salvazione e
condanna.
A
sorpresa di chi ben la conosceva (o anche di chi a malapena sapeva di
lei, visto che ormai non si stupiva più che tale ignoranza
sopravvivesse alla sua fama), quando costui stette di fronte al primo
banco per vederla per la prima volta, l’imputata fece un
profondo
inchino con il capo.
«Eccola
qui, dunque, l’imputata di oggi. – Acromio
aprì
sullo schermo quella pagina di dati sensibili su di lei, ricavati dalle
sue scrutinanti – Lei è Camelia Taylor? Piacere di
conoscerla, anche se in circostanze un
po’…»
La
ragazza ricambiò lo sguardo, dimostrandosi pacata e
disposta.
Aveva ammorbidito i muscoli facciali per riuscire a trasudare
un’innocenza forzata che spesso fantasticava di sfoggiare
anche
davanti agli estranei e di cui finora l’unica testimone era
stata
la sua fidanzata.
«Piacere
è mio. Può anche darmi del
“tu”, se vuole, io ho diciassette anni,
tanto.»
«L’importante
è cominciare con il piede giusto, vero, Camelia? –
Acromio
le saltellò accanto, energico come un venditore di dolciumi
– Che peccato non averti incontrato prima, mi sembri molto
più cortese delle tue due amiche della volta
scorsa.»
«Oh, davvero?
Grazie.» Civettò, sbattendo un paio di volte le
lunghe ciglia dorate.
«No,
davvero? Scherziamo?»
Era
già stato stabilito che fermare i monologhi interiori della
Capopalestra era impossibile: persistevano alle discussioni, alle
sgridate, ai pianti e perfino ai momenti di estrema tensione.
Quasi la divertiva, la
frecciatina del professore lanciata alla leader e
all’Allenatrice non qualificata.
Ci
credeva che le due disadattate non fossero riuscite a contrattare con
gli alti capi della società come lei, ma solo
perché
quelli avevano preso sotto tiro una bambinona ed una selvaggia, non ci
voleva un genio.
A
darle veramente di che sospettare fu che lui l’avesse
seriamente
scambiata per una persona che non era lei ed in teoria, se il fato si
fosse rivolto a suo favore, l’uomo avrebbe continuato ad
interrogare una Camelia feticcia; era come se avesse usato la mossa
Sostituto, nessun colpo le avrebbe lasciato un graffio
finché si
atteggiava così.
In teoria. Il costo
della sua finzione era comunque una bella fetta della sua
dignità.
Si sentì in
imbarazzo immaginando cosa stessero pensando di lei le sue compagne
vedendola da lì.
Per ogni favore che
faceva loro, in qualche modo incappava presto o tardi nella loro
antipatia.
Ma non le importava
più di tanto.
«Prima
di cominciare, dobbiamo fare il giuramento dei testimoni. –
Cambiando interfaccia sul tablet, il giudice lesse –
“consapevole della responsabilità che con il
giuramento
assumete davanti ad Arceus, se credente, e agli uomini, giurate di
dire…”»
«…dire
la verità e null'altro che la verità? –
Lo
completò, con la mano destra appoggiata sul petto e la
sinistra
alta, rivolta verso l’esterno – Sì,
sì, lo
giuro.»
La
formalità appena recitata, oltre ad impilarsi alle altre
scartoffie tratte dal repertorio di un’artificiosa
banalità, s’accattivò un briciolo
dell’ottimismo dell’insolitamente disincantata
Anemone.
Fece cenni d’approvazione con la testa che sembravano fuori
luogo. Ma lei si sentiva rassicurata da quelle parole.
Come
la mora aveva predicato loro il giorno prima, “glielo stavano
chiedendo”. Che cosa? Ma di fare ciò che quella
linguacciuta ape regina in grado di causare controversie solo
respirando sapeva fare meglio: dire la verità.
Pareva
una sciocchezza, ma se fosse capitato a lei di venire interrogata su
due piedi, la tentazione di fare falsa testimonianza ed avvalersi del
suo bel faccino come alibi l’avrebbe sopraffatta di certo.
Bisognava possedere un fegato di ferro per non avvalersi della scelta
più facile pur di farla franca.
Sperava davvero che tale
sfrontatezza non stesse a compensare una vacuità di buon
senso.
Anemone
si sfregò un sopracciglio, provando a comprendere dove
Acromio
volesse trascinare la coscienza della sua ragazza: voleva manipolarla,
quella era la sua ipotesi. Ma non capiva neppure lei se ci sarebbe
riuscito. Le intenzioni di Camelia erano così indefinibili,
solo
seguendo il dibattito uno ci sarebbe potuto arrivare.
«Ci
piace una ragazza che va dritta al punto! – Esultò
il
giudice, poi si ricompose – Va bene, signorina, una domandina
veloce, tanto per scaldarci e darci due o tre coordinate
ideologiche…
Mi
diresti che cosa ne pensi della filosofia del vecchio Team Plasma?
Quella di liberare i Pokémon dal giogo umano.»
La
modella si appoggiò sui gomiti, apparendo pensierosa per una
quantità strategica di secondi, per poi sciacquarsi dal
volto
con una velocità innaturale l’espressione basita,
curvando
l’asta del microfono verso la sua bocca.
«Uhm…»
Abbozzò un sorrisetto modesto.
Prima
che potesse spalancare i padiglioni auricolari e prevedere le sorti da
quell’esordio a dir poco spinoso, Anemone si sentì
tirare
la manica dell’uniforme ed abbassò il profilo,
come quando
in classe le toccava suggerire alle sue compagne durante i test.
«Ti prego,
dimmi che tua morosa ha un diploma come minimo per rispondere a questa
domanda.»
Bisbigliò la
più piccola, l’ultima a poter parlare di
quell’argomento in realtà.
«Non credo
proprio, non ha detto che ha iniziato con il modeling a dodici
anni?»
Le rispose, non trovando
ragione per cui valesse la pena mentirle.
«Se per colpa
sua finiamo in prigione, io…»
Per
quanto il volume basso le permettesse di suonare minacciosa, la rossa
si lasciò trasportare dall’istinto protettivo e la
bloccò prima che potesse esprimere intenti lesivi,
finì
per esagerare e la sentirono tutti.
Era
la tossina dell’amore che faceva effetto sulla mente
già
poco stabile della povera ragazza cotta di una calamita per antipatie.
«Stai
zitta un attimo! – Non appena una centinaia di occhiate
confuse
la mitragliarono all’unisono, Anemone, imbarazzata come non
mai,
si scusò – Tutto okay, continuate pure.»
Non
poteva negare che Camelia avesse anche dei difetti. Ma nel caso si
fosse fermata a vedere l’apparenza, le patetiche scenate che
metteva su solo per guadagnarsi l’apprezzamento altrui e
avesse
preso alla lettera tutto quello che la udiva dire, non avrebbe mai
potuto provare la gioia estatica di venire salvata dal tentato
rapimento organizzato dal Team Plasma o di venire baciata per la prima
volta.
Si
sentiva un po’ sciocca a ripetere come una macchinetta che la
sua
ragazza era diversa da come gli altri la vedevano ma nessuno sembrava
capirlo mai al primo colpo.
Mentre
anche le due biondine la sgridavano in labiale ed Iris probabilmente
non le avrebbe rivolto il saluto per almeno un decennio dopo
quell’uscita, la giovane di Ponentopoli alzò lo
sguardo,
dritto alle prime file.
«Andrà
tutto bene. So io più di ogni altro che Cami è
una tosta, sveglia ed intelligente.
E anche che
non è una da tradire una promessa, è troppo
onesta per permetterselo.»
Fece
un bel respiro profondo, anche se l’odore di chiuso le
impolverava la trachea, si preparò a venir impressionata.
Non
poteva vederla in faccia, ma una piccola risata di gusto proveniva dal
suo microfono prima che la mora iniziasse la sua difesa: soppresse il
desiderio di correre ad abbracciarla, percependo il freddo ferro sul
polso.
«Una
figura influente come te avrà di sicuro sentito parlare del
Team
Plasma, vero? – la riprese il professor-giudice, indisturbato
-
Dicono che bisognerebbe riconoscere le potenzialità dei
Pokemon
e liberarli dal giogo degli umani. Io, comunque…»
«…non
sono d’accordo.»
Frusciò un
coro di sgomento. Magari qualcuno si aspettava che piegasse di nuovo la
testa e dicesse di sì?
Chiunque poteva capire
che si trattava di una prospettiva illogica.
«Eh?»
Era
il momento di argomentare. Siccome il bagaglio etico-culturale di
un’adolescente che pone come priorità nella sua
crescita
trovare un lavoro senza alta qualificazione che le permetta di
comprarsi un numero non esiguo di scarpe firmate non somigliava affatto
all’arma giusta con cui combattere le antitesi, decise di
fare
uso di qualcosa di meno accademico, ma oggettivamente più
vero
di tutti gli artifici sofistici da manuale: la sua personale esperienza
come Allenatrice.
Avrebbe potuto scegliere
di esporsi in maniera neutrale, esponendo i fatti con disinteresse e
metodicità.
Ma
si trattava pur sempre di Camelia, la stessa persona che si era messa a
piangere fiotti di lacrime perché una bambinetta aveva preso
per
mano la sua fidanzata attuale e aveva alzato un po’ il tono
con
lei.
Ovviamente scelse di
essere il più drammatica possibile.
«Praticamente,
- quell’avverbio fuori posto la avvicinava proprio al popolo
comune, chiunque diciassettenne con il seno grande almeno due o tre
taglie più del normale poteva immedesimarsi – per
diventare famosa, ricca e tutto quello che volete, sono dovuta partire
da zero.
Ha presente la periferia
a sud di Sciroccopoli?»
«Certo.
– Asserì Acromio, catturato da quella storia a lui
sconosciuta – Una zona depressa con un tasso elevato di
criminalità e disoccupazione.»
La
ragazza sfruttò quella rivelazione in maniera trasversale:
non
serviva che quello annunciasse quanto vivere lì facesse
schifo a
lei, ma alle persone del pubblico che non conoscevano nel dettaglio gli
affari privati delle cinque come quello spione maniaco.
«Sì,
non è che sia stata molto fortunata in questo
senso…»
Lo
disse con una falsa spensieratezza, per poi colpire con il finale a
sorpresa; un mese fa la sola vaga menzione dell’argomento le
avrebbe irrigidito la spina dorsale e legato la bocca, da quanto la
feriva nell’orgoglio ricordare ancora quel triste passato che
non
l’avrebbe mai abbandonata.
«Forse,
con una situazione familiare meno… ehm…
complicata? Boh,
non saprei come dirlo, avrei… solo…
Preferito
non avere un padre violento, che mi insultava, mi picchiava,
m’ha
trascurato per la gran parte e non mi ha mai voluto bene,
uhm.»
Ma,
se proprio il fantasma della bambina con la frangetta sporca e le
bruciature di sigaretta sulle natiche doveva rimanere legata alla sua
ombra, meglio che sfruttasse quella rompiscatole per qualche scopo
vantaggioso, a parer suo.
Fece una pausa,
lasciando gli ascoltatori sbigottiti da tale sincerità.
«Capisco.
– Annuì interessato Acromio, addolcendo la sua
voce
già poco mascolina. Si rivolse poi verso le quattro giovani
sedute ai loro posti – Voi eravate a conoscenza di questo
fatto
sulla vostra amica?»
Anemone, Camilla,
Catlina ed Iris si guardarono fra di loro.
«Fin
troppo.»
Ammisero tutte assieme,
totale apatia nelle loro espressioni di marmo.
Giacché
la solfa del “il mio papà andava a letto con le
prostitute
e per qualche ragione questo mi autorizza a farmi spezzare il cuore da
qualsiasi essere maschile subentri nella mia esistenza, meglio
proteggere il mio fragile ego con battute di pessimo gusto”
non
era chissà che miglioria rispetto al “sono stata
adottata
a tarda età da un anziano sotto la soglia di
povertà,
però innamorarmi di ogni essere femminile che subentri nella
mia
vita è una scelta personale, come l’incolparmi da
sola” e l’unica che davvero poteva giustificarsi
era
“a cinque anni ero un poco viziata, mi è caduto un
lampadario sulla testa ed adesso ho l’assicurazione sulla
vita e
a malapena riesco a stare in piedi da sola”, non si
può
mica biasimare il decrescere dell’empatia
all’interno del
gruppo.
Una
sola entità sa infatti cosa Camilla ed Iris tenevano
nascosto
per non sfigurare davanti a tanta eleganza nel far pesare le loro
sventure sugli altri. Essa comunque disapprova questo vittimismo, sia
chiaro.
Camelia
si portò le mani davanti al viso, coprendo la pesante
inspirazione che avrebbe preceduto il suo enunciato. Doveva rimanere
sullo stomaco a tutti, i presenti doveva tornarsene a casa con il peso
dei suoi problemi sulla coscienza: non li avrebbe neppure lasciati
cenare in santa pace, la pena che cinquanta sconosciuti sarebbero stati
obbligati a provare per lei come minimo gli avrebbe tolto il sonno.
«Senza
i miei Pokémon… - fantasticava, con un amaro
sorriso a
dividerla fra sollievo e frigido realismo - …se non avessi
potuto allenare la mia squadra per le lotte non sarei mai diventata
Capopalestra… O modella, o una star…
Probabilmente non avrei
fatto niente di costruttivo della mia vita, sarei nella stessa
situazione di dieci anni fa.»
Cadde il silenzio. Come
se fosse esplosa una bomba e avesse raso al suolo ogni preconcetto.
Perfino
le quattro, così scettiche sul successo della sua strategia
di
difesa, le riconobbero di aver indubbiamente ribaltato le carte,
passando da fortunata imprenditrice della propria figura a vittima del
darwinismo sociale.
Contava che la
compassione suscitata andasse a confluire negli incassi del suo
prossimo servizio fotografico.
Infatti
Acromio si sedette su un banco, accavallando le gambe e schioccando la
lingua sui denti, perplesso: avrebbe avuto senso attaccare una persona
tanto amata dal pubblico? Non per forza i fan, ma anche i comuni
spettatori ignari si erano fatti rubare il cuore. Dargliela vinta,
comunque, non era in ogni caso considerabile un’opzione.
«Bene, bene,
Camelia.» Senza mai uscire dal personaggio, il
professore-giudice non indugiò per molto ancora.
Sapeva
benissimo infatti che catturare i cuori delle persone facendo leva
sulla loro morale, sull’etica, sulla coscienza umana e sui
sentimenti era stato ed ancora rimaneva il principale meccanismo di
garanzia nell’irrefrenabile scalata di popolarità
del Neo
Team Plasma.
Andare
nelle piazze dei paesi a predicare, prima. Organizzare
un’inquisizione ai capisaldi del futuro della regione,
trasmettere l’evento in televisione, commentandolo coi
più
autorevoli critici, riempire i social media di commenti, post, like,
click, era l’ora di mettere la quinta e dimostrare il valore
in
battaglia del Team Plasma del presente.
Le
sinuose dita rosee di lui si inerpicarono inspiegabilmente su per lo
zigomo ben disegnato della diciassettenne, che si sentì
subito
di essere scesa di un piano sociale: con un vecchio gesto di
condizionamento psicologico, la costrinse a fissargli le scarpe e ad
abbassare la testa, incastrando le pupille indagatrici negli specchi
azzurri, connessi al subconscio dell’accusata.
La
stavano tirando troppo per le lunghe. Era passata quasi
mezz’ora
e neppure l’ombra di qualcosa che suonasse come un termine
tecnico o una sentenza giuridica era stato pronunciato.
«Mi
rende molto lieto il fatto che tu abbia voluto esporci il tuo lato
più sensibile, così, su due piedi, con
serenità.
Ci vuole un bel coraggio a parlare di certi tabù senza paura
di
venire giudicati.»
«Lo
so.» Fu secca.
Il
professore doveva aver finalmente trovato il cavillo con cui incastrare
la mora, perché si stava calcolando con tutta calma il
tempismo
con cui consegnarlo all’opinione pubblica.
«Però
– arricciò le labbra, tutto deluso –
è
davvero sconfortante come una persona di umanità grande come
la
tua non si trovi d’accordo con il programma del Neo Team
Plasma…
Non è bello
andare tutti d’accordo? Non vuoi che nella nostra regione
regnino la pace e la fratellanza?»
Ad
Acromio si accesero negli occhi bagliori d’ambizione
così
autentici da mandare su di giri i presenti. Chissà se
ciò
gli succedesse sempre, quando parlava dei suoi propositi,
chissà
se davvero essi coincidessero al cento per cento con quelli del partito
di cui era stato fatto segretario.
Tuttavia,
la maschera del fanciullo sognatore non doveva increspargli troppo la
mandibola, o la sostanza delle sue aspettative per quel processo
sarebbe stata rivelata: il linguaggio del corpo si basa molto sulla
contenutezza del motore nell’abitacolo.
«Per
favore, lo dica… Dica quello che tutti vogliono
sentire…» Pregò in
silenzio, così il caso si sarebbe chiuso.
«…oh?»
Esclamò la giovane modella, come se non sapesse la risposta.
«Dunque?»
La incalzò l’uomo.
«No.»
E
Camelia si mise di sano gusto, di una naturalezza affascinante, che
riusciva solo a lei fra tutte le apprendiste Campionesse, come se si
trattasse di uno scherzo detto da una di loro nelle loro conversazioni
quotidiane, a ridere.
Da quei concetti tanto
distorti, si era sovvenuta di un qualcosa successole appena
l’anno addietro.
Nessuno la interruppe,
quando si mise a raccontarlo, rigirandosi i ciuffi corvini sulla punta
dell’indice.
«Nei
momenti in cui non ho in agenda una decina di interviste, altrettante
registrazioni, servizi fotografici o eventi dei fanclub, mi piacerebbe
trovarmi un qualcosa di divertente da fare.
Qualcosa da
fare, non qualcosa di cui preoccuparmi.
Quindi,
rieccomi ancora un’altra estate a girovagare per i
marciapiedi
affollati del centro di Sciroccopoli in una delle pause che mi prendo
spesso; metto le cuffie, gli occhiali da sole e di solito riesco ad
ascoltare almeno un intero album prima che il mio manager o il mio
fidanzato di turno non mi messaggiasse per sapere dove diamine fossi.
Stavo
passando davanti al Teatro Musical, in pieno giorno, e
dall’altro
lato della strada, una frase si infila nella confusione regnante nella
mia testa per via della musica alta.
«Papà!
Cosa ci fai qui?»
Afferrando i
cavi, mi strappo gli auricolari di dosso. Li ascolto ancora un
po’.
«Sono
venuto per riportarti a casa, non è ovvio? Non sei andata
anche
troppo lontano? Lascia che gli altri facciano le cose a modo loro, noi
le facciamo a modo nostro!»
«Okay,
allora perché tu non fai le cose a modo tuo e non lasci me
fare le cose a modo mio?»
Il mio
primissimo impulso fu di accelerare il passo, di scappare via in
pratica.
Questa giovane
Allenatrice non la conoscevo. Ma mi azzardai lo stesso ad intromettermi
nella discussione.
«Tesoro,
- le appoggiai la mano sulla spalla, come si fa con una vecchia amica
– tu continua pure il tuo viaggio.»
Suo
padre mi fulminò con lo sguardo, sgridandomi ed intimandomi
di
andarmene. Non mi fece nessun effetto, stranamente. Gli adulti non mi
hanno mai messo paura, come la fobia del buio, pensavo che se
l’avessi superata al più presto sarebbe stato solo
un
vantaggio per me.
E neanche mai
temuto il disaccordo, i litigi e le opinioni contrastanti.
Non volevo che
il genitore di qualcun altro cambiasse idea. Volevo spiegargli come mi
sentissi.
So
che spesso la reazione a un confronto di idee non à sempre
positiva o pacifica, ma la ragazza che voleva viaggiare mi aveva fatta
immedesimare, le avevo involontariamente rubato la scena ma per il suo
bene.
Alla
fine di tutta questa lunga parentesi, io e l’Allenatrice ci
siamo
sfidate ed io ho perso di brutto, quindi direi che la morale
è
abbastanza intuibile in questo caso.»
«Okay, ho
qualcosa di serio da dire. Sembra strano, ma se lei, Acromio, ha un
attimo di pazienza…»
Richiese
la giovane, congiungendo le mani, causando un battito che
riecheggiò nella stanza dall’acustica impeccabile.
Non
doveva improvvisare granché, un messaggio limpido e ormai
noto a
lei voleva trasmettere, prima di ascoltare il verdetto.
«Certo, ti
è lecito.» Il giudice incrociò le
braccia e si leccò le labbra.
Camelia fu sollevata ed
imboccò il percorso mentale che si era schematizzata in
maniera del tutto naturale.
«Allora,
intanto: il mondo è pieno di persone come me. Persone
orribili,
che non si trattengono le critiche e sono così oneste nel
dire
la loro, che finiscono sempre e comunque per venire feriti o per ferire
i sentimenti degli altri.
Ma va bene
così.»
Nessuno
osò controbatterla. Allora la mora proseguì,
avendo
stabilito che non c’era nulla di strano nella reazione del
padre
dell’esempio o del segretario del Team Plasma, quando gli era
stato rifilato un secco “no” alle loro
verità
personali.
«Se
non ci si scontra, se non si imparano a conoscere le
differenze…
non si può vedere il mondo sempre da un solo punto di vista.
Per
questo è importante provare a capire chi è
diverso.»
A
quel punto, la voce ormai ridotta a un soffio si fece ancora
più
dolce, tingendosi di una compassione unica, che solo la più
vanesia, acida e meno affabile di loro poteva far risaltare a tal punto.
«Per capire
che non c’è niente di male nell’essere
diversi. No?»
Prima
di quell’estate, Camelia si sarebbe definita senza problemi
come
una ragazza come tutte le altre. Non pretendeva di distaccarsi dalla
massa per poi ricadere nei peggiori stereotipi a capofitto: adorava i
vestiti firmati, truccarsi con cosmetici dai profumi dal nome esotico,
i pettegolezzi perfidi sulle sue rivali.
Tuttavia,
aveva scoperto talmente tante cose che non avrebbe attribuito alla sua
persona nemmeno in un universo alternativo; ed ora adorava quei lati di
se stessa.
Quando
la sua fidanzata l’aveva rimproverata, la sera del loro primo
bacio, perché era da ipocrita odiare i difetti degli altri
ma
assimilare gli stessi ai propri pregi. Per fortuna che era cambiata.
O
meglio, si era lasciata cambiare da quel vento fresco e nuovo con il
quale la sua vecchia pelle, troppo stretta oramai, era stata spazzata
via.
La
modella che insultava Nardo per averla iscritta a sua insaputa alla
competizione, che si gongolava del calore di una relazione vana e
transitoria come fosse l’amore della vita, che avrebbe
volentieri
mandato tutto all’aria per una singola sconfitta era relegata
in
un fotogramma della sua memoria, un’ispirazione continua a
migliorarsi, confrontandosi con tutto quello che odiava, snobbava o
ignorava.
Paragonò
la sua precedente chiusura mentale dell’abbandono di cui
aveva
paura da sempre: prima le sarebbe passata, prima avrebbe potuto riderci
sopra ed etichettarla come la fase oscura della sua vita.
«E
poi, ci sono i Pokémon! – Suonò molto
ingenua, ma
tutti concordarono con lei - I Pokémon sono fantastici, no?
Sono
carini e tutto, ma si può veramente dipendere da loro, in un
certo senso…»
Scostò il
microfono da sé e si sedette in posizione meno tesa, una
volta finito di parlare.
Subito
però le toccò alzare gli occhi, perché
dopo due
battiti solitari ed intensi, un applauso, degno delle più
buffe
imprese strappalacrime di silenziosi eroi senza volto si
levò
per Camelia, che sorrise timida.
Per quanto urtasse la
sua dignità, anche Iris si unì, colpendo con i
polpastrelli, leggera, sul palmo.
«Almeno
ha ammesso di essere una persona
orribile…» Si
consolò; con fatica aveva accettato il fatto che quella
Capopalestra fosse agli occhi degli altri molto più bella e
sviluppata di lei, ma che perfino in intelligenza dimostrasse di essere
più donna, le si seccò la bocca per
l’invidia.
Preferiva
l’approccio di Anemone, che appariva persa in quel discorso
toccante, le pupille turchesi si erano dilatate abbastanza che se non
l’avesse vista già varie volte in stati emotivi
alterati
anche all’estremo, avrebbe giurato si sarebbe messa a versare
lacrime di commozione.
«Beh…
abbiamo finito qui, giusto?»
Camilla,
per via del suo stato di anzianità, si sentiva di conversare
molto liberamente con le reclute che le sorvegliavano.
Peccato
che questo sermone, tanto carico di pathos ed umiltà, lo
avessero sentito solo la quarantina di persone lì presenti
in
sala: una volta spiaccicato su tutti i media, come l’apologia
del
secolo, nessuno si sarebbe potuto scagliare contro di loro in
qualità di terroriste ideologiche.
Terminato
all’incirca il clamore susseguitosi ad esso, Acromio si
sistemò il ciuffo e pulì gli occhiali sul camice.
Una recluta con uno
sbiadito tatuaggio tribale sulla tempia fece cenno alla Campionessa di
guardare avanti.
«Tutto
molto interessante. - Si riposizionò opposto
all’imputata,
si era acceso un fuoco nell’animo del professore. - Ma prima
di
confrontarsi con noi…»
L’uomo
andò ad arraffare un plico di fogli strabordanti dai lati,
uno
si sarebbe potuto tagliare un dito non maneggiandoli con attenzione. Lo
fece scivolare sul tavolo, come un disco da hockey. Il timbro rosso,
sbavato sugli angoli, aveva i sigilli dell’intelligence della
regione, cosa che la giovane non si sarebbe mai immaginata di osservare
neanche nei sogni.
Aprì la
copertina: in testa, lesse di quella volta che rise in pubblico di un
suo fan sovrappeso.
«…non
ti dispiacerebbe confrontarti un po’ con noi? Con le
evidenze?»
Come
assorta in una morbosa trance, voleva divorare quel fascicolo in minor
tempo possibile, il contenuto era troppo riservato, troppo reale per
portarla a distogliervi lo sguardo: la vipera che era, il mostro senza
ritegno, che non si ferma davanti a nulla per mostrare il vero, non
importa quanto doloroso sia, era comunque una parte di lei.
Due
pagine avanti: per far decollare più velocemente la sua
carriera, si dice fosse stata a letto con un suo amico fotografo senza
avvisare la sua manager di allora, la quale si trovava ad essere la
moglie di egli.
Peccato
non si fossero documentati sul dettaglio più importante: al
momento dell’accaduto lei era già una
celebrità, si
era semplicemente tolta uno sfizio, niente di così profondo.
“…ed
è per questo che io penso che ad Unima le Allenatrici donne
non
sono oppresse.” Si ricordava bene quell’intervista:
per un
mese intero sul web non si fece che discutere sull’impedire
alle
modelle ignoranti e qualunquiste di esprimere la loro opinione su fatti
di cronaca.
Nessuno prese mai in
considerazione tale proposta, ma essere sempre nei pensieri dei
progressisti le scaldava il cuore.
Richiuse il dossier,
battendone il bordo sul tavolo per far rientrare nella copertina le
carte uscite dal bordo rilegato.
«Ebbene?»
La incalzò Acromio, diventato più severo, esigeva
maggiore serietà.
«Niente.
Queste cose si sapevano da un po’, non sono chissà
che notizie.» Fece, indifferente.
Nonostante
tali rivelazioni non le facessero né caldo né
freddo, era
palese che avesse aspettato che lei stessa di esporre i propri punti
deboli, senza che dovesse lui sporcarsi le mani a dissotterrare i suoi
scandali sordidi e gli insradicabili dilemmi fissi, impiantati delle
sabbie mobili del subconscio di un individuo così
travagliato.
Poteva
darsi che ad Acromio, alle reclute, al Neo Team Plasma in generale non
piacessero granché le cosiddette “bambine
problematiche”. Ed avere a che fare con un numero tanto alto
di
esse richiedeva mezzi specifici.
Serviva
un lettino da psichiatra, ma anche le lame, il bisturi e
l’uncino
acuminato di un cercatore di ossa, per dissezionare i rancidi scheletri
che ognuna di loro nascondeva dietro all’aspetto di una
normale
cittadina di Unima.
E
talvolta non solo ossa, Camelia aveva alle spalle cadaveri freschi,
ripuliti dei segni di colluttazione, esposti in una collezione alla
maniera dei killer seriali dei romanzi gialli di metà
novecento.
Giaceva
la sua brutta fama nello stesso scrigno della coscienza in cui le sue
buone azioni, come quando aveva perdonato la più piccola del
gruppo nonostante l’avesse presa in giro e quando aveva
accettato
di venire a cena dal suo futuro suocero: anche quella era parte di lei,
non poteva cancellare nulla delle sue serate più selvagge o
delle sue affermazioni più controverse e ciò non
la
infastidiva mai.
«Camelia, ti
chiedo io adesso una cosa, una volta per tutte.
Ti sei mai chiesta come
si sentissero tutte le persone che hai in qualche modo
offeso?»
Dalle
labbra della ragazza scivolò solo aria intorpidita
dall’ansia. Si sentì come quando a scuola la
riprendevano
perché indossava gli auricolari dentro il cappuccio della
felpa
e punizioni quali i compiti extra la attendevano ogni doposcuola.
Quella
piccolezza, la odiava. Odiava anche Acromio, ma almeno se si trattava
di una sensazione non poteva avventarsi in avanti e strangolarla,
essendo qualcosa di astratto.
«Hai
mai pensato un attimo a tutto il dolore e la sofferenza agli altri che
hai causato con la tua
“onestà”?»
«No.
Perché, dovrei?»
«Questa
tua idea di dire quello che ti pare e piace, di giocare con i
sentimenti degli altri solo per proclamarti
“migliore”, sai
quanto è nociva alla felicità, al benessere di
tutti?
Mentre
tu ti vanti e fai di questo orrendo tratto della tua
personalità
un vanto, c’è chi invece, come il Nostro partito,
punta a
creare uno stato coeso, armonioso, in cui persone diverse possano
essere accomunate dall’unico desiderio: dare a tutti le
stesse
possibilità di successo, eliminando le disuguaglianze
sociali e
economiche…
Ma
tu non hai il cuore per tutto questo; - poi si rivolse al pubblico
– queste insolenze, questi affronti alla nostra bellissima
diversità, non saranno più tollerati, a partire
da ora in
poi!»
Acromio
scattò verso lo scranno, saltando quasi i due gradini su cui
era elevato.
«Ha
ragione, il professore. - Una donna nelle ultime file
confessò a
marito, intendendo però di ottenere il consenso di tutti i
suoi
vicini – Non si può lasciare che i giovani si
facciano
influenzare da queste derive autoritarie. Bisogna riportare
l’ordine.»
«Bisognerebbe,
- commentò un tirocinante della facoltà di legge,
a cui
stava stretta la camicia in seta – fare un purga di tutti
quegli
Allenatori buoni solo a seminare discordia, togliergli dalle posizioni
di rilievo: via tutti i Capipalestra e i Superquattro che speculano
contro la democrazia!»
«Giusto,
giusto, - gli fece eco una studentessa di una qualche
facoltà
umanistica, dagli occhiali spessi come vetri antiproiettile ed il golf
di cachemire in pieno luglio – non pensiate tutti che noi
giovani
siamo tutti così, per favore! Queste sono solo delle oche
ignoranti, che parlano per sentito dire, che non hanno studiato
né storia né filosofia.
Bisogna sempre
rispettare i diritti umani e non discriminare chi è diverso
è un diritto!»
«I
diritti umani sono fon-da-men-ta-li! Siamo nell’anno
corrente,
non è possibile che gente come questa Allenatrice abbia la
libertà di esprimere pensieri così estremi e
privi di
tatto.»
Si
unì alla lirica un altro signore, fra i tanti fortunati
scelti
per assistere al processo, che si trovò contento che la
propria
ideologia venisse confermata dalla nuova corrente di governo.
La mano ossuta
dell’uomo afferrò il martello in legno: un secondo
era proprio un secondo.
«Con la
presente…» Il tono andò in scala, come
se stesse cantando un ritornello.
Se
fosse andato tutto come sperato, lo avrebbero tutti ascoltato per altre
quattro volte, prima che la canzone del nuovo ordine terminasse, fra
gli squilli delle trombe e i rulli di tamburi e le risa dei bambini che
lanciano petali.
«No,
aspettate, non potete incarcerarmi per delle sciocchezze dette
chissà quanti anni fa…»
La
mora era ancora lì ma nessuno sembrava volerla
più
neanche guardare. Era davvero finita? Lei aveva ancora altro da dire,
da offrire a quella turba affamata di brama di disputa. Non importava
più a nessuno se fosse innocente o no?
Non lo sopportava.
Una bugia era diventata
più interessante, più rilevante di lei nel giro
di pochi istanti.
Si
arrabbiò. Provò ad alzarsi in piedi e torcendo il
braccio
verso l’esterno si girò verso la platea, verso le
sue
compagne. Non aveva altre persone su cui contare oltre a loro.
«Voi
altre, ditegli qualcosa! – Gli gridò, perdendo
tutto la
compostezza, al prospetto di non avere più nulla con cui
difendersi – Io non sono una criminale, potete provarglielo,
dovete provarglielo!»
Camelia
fece un respiro che però finì per gonfiarle il
volto di
disperazione, mentre gli iridi delle sue compagne si ingrossavano di
paura, di legittima preoccupazione di venire chiamate a loro volta a
testimoniare e di sapere benissimo di non avere alcun coraggio per
farlo e salvare la loro amica.
«Smettila,
per favore, di implorare attenzioni. - Il professore la riprese,
sterno, come una madre che secca il proprio lato femmineo apposta,
parendo talora più terrificante degli uomini – Le
prove
parlano chiaro, e vista la coerenza che ci hai dimostrato finora,
farebbe solo ancora più male alla tua reputazione, di negare
il
tutto.»
«Non mi merito
niente di tutto questo…» Soffocò un
singhiozzo, per nulla sceneggiato.
«Le
conseguenze si pagano, prima o poi. Legge del contrappasso.»
«Mi volete
mandare in carcere minorile per aver detto delle cose
che…?»
«Ma
quale carcere minorile! – Agitò il braccio, con
severità allarmante – Esattamente il 31 luglio, a
diciotto
anni, sarai al cento per cento responsabile per legge. Non manca mica
tanto: sei già un’adulta da un bel
po’.»
Schiarendosi
la voce dalla platea, le reclute appostate agli angoli della sala e
incaricate da far da scorta si riavvicinarono a lei come i demoni
muniti di forca atti a spingerla dentro la pece bollente. Era finito.
Con
brutalità, le pressarono sulle spalle fino a costringerla a
rimettersi seduta, per ascoltare la sua sentenza di condanna ed
imprimersela in mente.
Nessuno
osò abbandonare il proprio posto finché il
giudice-professore non terminò. Tanto si sarebbero
tutti
rivisti il giorno dopo, stesso luogo, stessa ora, alla vetrina delle
vergogne viventi.
«In
base a quanto stabilito dall’Altissimo consiglio del Grande
Partito, erede del regno dei Gropius-Harmonia e in base alla
deliberazione della Suprema Corte della Regione di Unima, la qui
presente imputata Camelia Taylor è accusata con tutta
validità di terrorismo ideologico, incitamento
all’odio e
alla violenza psicologica e, da quel che leggo qui… -
Acromio
strizzò le pupille, aveva dimenticato un dettaglio non poco
importante – di consumo di sostanze stupefacenti illegalmente
ottenute?!»
«N-non sono
una tossica, lo giuro.»
La
modella non ebbe nulla da ridire, aveva ricevuto esattamente
l’effetto boomerang che si aspettava. Solo che accorgersene
tanto
tardi era leggermente… Non era stato il Team stesso a
produrre
la sostanza proibita? Era il dilemma di chi fosse nato prima fra
l’uovo e la gallina.
«Comunque,
la giuria condanna l’imputata a scontare due anni di carcere
con
eventuale riduzione della pena in caso di buona condotta.
Si conclude la seduta di
oggi. Ringrazio tutti i presenti della Vostra
partecipazione…»
Come
poteva farsi un’idea, un programma per rassicurarsi sul suo
futuro con una predizione ufficializzata e infausta? Per quanto ne
sapeva, in quel lasso di tempo avrebbe potuto fare in tempo a morire.
Non si sarebbe vista mai ventenne.
Il
suo stesso profilo riflesso sul marmo lucido le ricordava quello delle
specie canine che una volta bastonati diventano incapaci di abbaiare,
ogni quando l’aguzzino torna per battergli la canna sul muso
quelli senza stancarsi continuano invece a muovere la coda domandando
del cibo.
Era
quello il senso di essere una ragazza addomesticata? Non era nata da
uno swing di un alcolizzato e di una prostituta per lamentarsi delle
sue scelte di vita in gattabuia.
Si trattava solo di un
brutto scherzo. Uno scherzo che si era fatta da sola, però.
E
visto il suo carattere, non poteva assolutamente dare ragione a chi,
come Acromio avrebbe sostenuto che il suo agire era dato da odio,
perché lei in quel momento non si odiava.
Neanche
se qualcuno avesse consegnato in mano a quell’uomo abietto la
pergamena lunga chissà quanti chilometri che al momento del
giudizio universale si sarebbe srotolata come un tappeto infinto
indicando ogni sua singola cattiveria, meschinità, errore e
peccato, lei non avrebbe mai potuto odiare quella persona.
Una parte, pure questa,
di lei.
❁
A
mezzogiorno, dopo il processo, non gli venne neppure dato da mangiare.
Per altre due ore circa, l’amministrazione carceraria aveva
preferito lasciare che alle cinque sventurate si corrodesse
l’apparato digerente con l’acidità della
pesantissima sconfitta appena subita.
Rimesso
piede in cella, la ragazza dai capelli sudati e unti di sebo, che poco
prima avrebbe grattato la faccia sul pavimento pur di non dover alzare
gli occhi ed incrociare tutte quelle domande, tutti quei dubbi e il
biasimo che la attendeva, si distaccò dal suo gruppo
appoggiandosi sullo spigolo del muro con la fronte.
Stavano
tutte a guardarla, ognuna aveva qualcosa di diverso per la testa. Nulla
di troppo prevedibile o di troppo insospettabile.
Camelia
si tappò naso e bocca come se una bombola di ossigeno fosse
collegata alle articolazioni delle braccia, tirò un respiro
rumoroso: non ce la faceva nemmeno a piangere a comando per sembrare
più dispiaciuta.
Si
girò per formulare qualcosa e la rapidità le fece
quasi
perdere l’orientamento, non riusciva quasi più a
distinguere chi avesse davanti a calpestare la sua ombra.
«Scusatemi…
Io…»
«No, non ti
scusiamo proprio, stupida figlia di…!»
Un
colpo secco la fece indietreggiare, spalle al muro, portò
subito
gli avambracci alti per proteggersi ancora da quel pugno contro
l’osso parietale, il cervello le riverberava come il gong dei
match di arti marziali.
Qualsiasi insulto fosse
stato inserito, la mora non vi fece attenzione.
Le
arrivò un altro pugno in faccia, stavolta sulla tempia, che
non
la prese di sorpresa quanto il precedente, solo che la vicinanza con
l’occhio la fece preoccupare, il bulbo aveva fatto uno strano
schiocco, causato dal muscolo, il nervo o chissà cosa.
«Perché
devi essere così? Potevi mentire, potevi negare tutto,
perché non ci hai pensato?!» Le strillò
alle
orecchie.
Da
destra, poi da sinistra, altri due manrovesci dall’ampia
circonferenza, lei non riusciva a stopparli con le mani accattate alle
spalle.
Avrebbe
voluto moltissimo difendersi, quando fu presa per il collo
dell’uniforme, sentendo la cucitura strillare mentre le
segava la
pelle; avrebbe potuto afferrare i polsi di colei che l’aveva
agguantata, ma perse l’occasione: il primo tentativo di presa
andò a vuoto, ma con il secondo le unghie
dell’altra erano
affondate nella carne e con una stretta eccessiva, assolutamente non
ragionata, Camelia ruppe il suo tacito subire con ripetuti
“basta!” e “smettila!”.
«Se ci succede
qualcosa… è tutta colpa tua, è sempre
e solo colpa tua, sei un’idiota!»
Aggiunse
anche “ti prego”. Dalla foga con cui tirava e visto
l’odio accumulatosi, avrebbe potuto giurare che Iris le
avrebbe
strappato il seno a suon di strattoni e graffi.
Più
provava a spingerla via, più anticipava la mossa successiva:
con
uno schiaffo abbastanza potente, una ragazzina così
magra… Non ce la faceva. Picchiare una più
piccola di lei
era un’impasse che purtroppo non avrebbe superato in quel
momento.
«Si
vede quanto te ne frega degli altri, di noi, di tua morosa, per colpa
del tuo stupido, stupido orgoglio, e se proprio vuoi saperlo non frega
a nessuno che tu vada in carcere o no a questo punto!»
Iris
la prese per la frangia, tirando verso il basso per esporla ancora
più alla sua voglia di batterla freneticamente, senza
trattenersi: gridare così forte l’aveva esaurita
abbastanza, ma non demorse nel voler come minimo scaricare la propria
delusione sulla disgraziata, sfruttando quella calzante occasione.
«Ohi, ohi,
ohi, calme, calme, abbassate quelle mani!»
«Non
l’ho neanche toccata!»
La mora adesso aveva il
fiato mozzo, le veniva da tossire un grumo di frustrazione bloccato
nella gola.
Non
si sarebbe mai aspettata una reazione tanto lenta dalla leader, la
antagonizzò per non aver fermato quell’aggressione
sin da
subito, che perfino Camilla avesse voluto vederla soffrire, in fondo?
In
realtà, si trattava solo dell’agilità
di Iris, era
sfuggita ai tentativi di immobilizzarla delle altre. Se solo ci
avessero la grinta e l’assertività giuste per
confrontarsi
con la sete di vendetta di quel piccolo mostriciattolo dai capelli
viola, era sicura che metà dei pugni presi non
l’avrebbero
neanche scalfita.
«Quanto
ti odio, - quella usò un turpiloquio, mentre Camilla
riprovava
ad allontanarla di almeno cinque passi tenendola per le spalle
–
quanto sono contenta di non doverti rivedere mai
più!»
«Okay, direI
che basta, ora.» La voce della bionda si era alzata ed era
discesa, non voleva altre discussioni.
Sorprendentemente,
invece di andarsi a nascondere dietro la folta chioma di capelli e la
sagoma protettrice della leader, Iris si scrollò le dita di
dosso, fece spallucce con il mento all’insù.
Camelia
si domandò da quando la bambina tanto terrorizzata dai
rimproveri dei superiori avesse smesso di essere intimidita da lei; non
se la ingraziava nemmeno con l’adulazione, invece quel giorno
alla Lega, in cui aveva detto “tu sei… una persona
famosa!
Scusa, ma devi essere bravissima”.
«Ah,
io non ho niente da aggiungere. – Iris incrociò
anche le
braccia, con un sorrisetto appena abbozzato, che cercava di ricreare
basandosi su quelli che la modella le aveva troppo di sovente rifilato
– Se vuoi tirarmi un calcio o cosa, fai pure, cambia
nulla.»
La
provocò, come se un’aura repulsiva la isolasse da
tutti
gli sguardi torvi guadagnati col suo comportamento irrazionale.
Terminata
l’ingiuria, udirono tutte per la seconda volta il cigolare
della porta che s’apriva.
«Ma vi stavate
menando? Che in basso che sono cadute…»
«Ricordiamo
che siamo ancora al primo giorno, entro sabato qualcuna secondo me ce
la troviamo appesa al soffitto.»
Due
reclute si misero a ridere nonostante nessuna di elle trovasse quegli
scadenti sforzi di umorismo davvero divertenti. Quella più
bassa
aveva in mano un secchio coperto di vernice stinta, in quanto ad
apparenza, non la distinsero dalle altre, se fosse stata in sala
d’udienze assieme a loro o no. L’altra se la
ricordarono
dai controlli.
«Che
volete?» Camelia non gli riservò troppa
gentilezza. Aveva un brutto presagio.
«Ci dispiace
un po’ per come te la sei presa sui denti, hehe.»
Fece recluta uno.
«No, non
è vero. Non ci dispiace neanche un po’.»
La riprese subito recluta due.
Dimenticandosi
di lasciare un intervallo comico per far sortire l’effetto
velenoso, le cinque si riempirono di disagio, fissandole sulla soglia.
«Siete
irritanti, andatevene.» Le intimarono.
«No,
non possiamo. Vi abbiamo visto che ve le stavate dando di brutto,
– indicò la telecamera, quale fosse un oggetto
senziente
che di propria volontà aveva spifferato tutto –
che bestie
senza autocontrollo siete, voi altre.»
«Ghecis
– Aveva davvero tutto questo tempo libero, il capo del Team?
Era
solo una minaccia probabilmente, ma si allarmarono comunque –
ha
detto che dobbiamo punirvi per questo.»
«No, no, non
dobbiamo punirvi tutte, basta una, secondo me.»
Quella
parlava in contemporanea alla collega e a loro, mescolando i punti di
vista, faticavano a capire se fosse certa delle loro intenzioni o
stesse interpellando l’altra per conferma di continuo.
«Hey,
ho un’idea! – le venne vicina tutta entusiasta e si
accostò al suo bicipite, l’altra
inclinò la testa
per porgerle l’orecchio – Se facessimo fare la
doccia alla
nanetta, non ci sarebbe gusto. Ma, se prendiamo una delle altre
quattro…»
«No,
che genio che sei! - Saltò, battendo le mani. Sembrava
parecchio
elettrizzata all’idea – Aspetta, ma se non puniamo
lei, poi
dopo queste altre potrebbero pestarla per vendetta, e quindi dovremmo
punirle ancora… un circolo vizioso, insomma.»
Colei
che aveva escogitato quella trovata si indicò la fronte con
l’indice, come se ci avesse pensato per prima alla
concatenazione
di causa-effetto che si sarebbe scatenata. In realtà non era
andata oltre lo step iniziale, solo che la competitività
stimolava il rendimento delle reclute, secondo i capi al livello di
Acromio.
«Allora, fra
voi quattro: vi diamo… dieci secondi!»
Esultò.
Poi
cominciò a contare alla rovescia in maniera piuttosto
inconsistente, decideva lei quanto un secondo dovesse durare e ogni
volta che abbassava un dito, i rimanenti apparivano stortignaccoli
quali artigli di un rapace.
Già
all’otto, Iris con due falcate era giunta fin dalle due
carceriere per implorare perdono; aveva appena rimproverato la sua
compagna per aver anteposto il proprio orgoglio personale alla salvezza
della squadra, non voleva fare il suo stesso errore. Poi voleva
interrompere sul nascere il piano diabolico secondo cui lei faceva da
capro espiatorio.
«Tre, due,
uno, uno e mezzo, uno e tre quarti, uno e sei
dodicesimi…»
Camelia
invece aveva trovato troppo conveniente che la sua assalitrice fosse
tornata alla sua posizione di sottomissione proprio ora. Lasciandola
andare però, quella avrebbe potuto considerare la situazione
un
mal comune-mezzo gaudio ed azzerare il conteggio delle offese fatte.
Come
minimo, per far sì che la mora le concedesse un uno-ad-uno,
le
due simpaticone dovevano stritolarle il seno con a stessa potenza, e
dubitava che una come la sua adorabile piccola compagna avrebbe sentito
metà del dolore patito da lei.
«Non pensateci
neanche. Vado io.»
«Woah,
la poveraccia ci fa da cavia! – La recluta dalle mani libere
scosse i palmi aperti, per poi lasciarle cadere, delusa - Che peccato,
io volevo la sociopatica, però.»
«Anemone,
non…» La modella provò a fermarla, in
tono un
po’ rude, con cui inconsciamente rafforzò la
supposizione
di Iris, ossia che non le fosse rimasto neanche un briciolo di tatto
per la sua fidanzata.
«”Non”
cosa? - La rossa si fece largo con movimenti fiacchi, aveva gli occhi
lucidi svuotati di ogni colore, pareva stessero per sgusciarle fuori e
lei li trattenesse con le palpebre – Gestitevele voi queste
cose.
A me non piace litigare.»
Ebbe una convinzione
tale da prevenire l’intervento delle due Allenatrici
più anziane.
La
luce al neon le batteva sulla fronte, trasformando il grasso cutaneo in
un illuminante naturale e Camelia non riusciva a guardarla. Era ancora
vulnerabile allo stoicismo di quella ragazza come lo era al momento in
cui le aveva inondato le maniche dello yukata di lacrime frivole.
Anemone
le ispirava qualcosa in mezzo al timore e al profondo rispetto quando
la sua personale presunta dominanza non riusciva ad immergersi nelle
crepe di quello spirito integerrimo e compatto come cemento armato. E
perciò a crollare era sempre lei per prima.
Lo trovava umiliante, ma
giusto.
Si
morse la lingua e non sviolinò tardi ringraziamenti al suo
sacrificio, usò quell’energia mentale per pregare
che
nulla di peggio di quanto era successo a lei succedesse alla sua cara
fidanzata.
«Okay, ve la
riportiamo fra… due-tre orette? C-Cosa credevate, che ce la
saremmo tenuta?!»
La Capopalestra di
Ponentopoli le squadrava senza metterci troppo risentimento.
«Questa
è per voi! – La recluta posò il secchio
a terra con
così poca cura da far strabordare il liquido contenuto in
esso,
ingrigendo ancora di più il pavimento con la macchia umida
– Sapete che se non si bevono almeno quatto litri al giorno
in
estate la pelle si secca e vi viene fuori l’acne
cistica?»
«Ma
è acqua? Cosa ci avete messo dentro?»
Sparirono
con la stessa grazia con cui si erano presentate, Anemone aveva ancora
la benda e quindi supposero fosse quella la prassi per tenerle
all’oscuro di dove si trovassero e dove le stessero portando.
La
richiusura della cella sembrò durare troppo, la porta scorse
l’angolo retto con una lentezza amplificata
dall’assenza di
ogni qualsivoglia commento riguardo la situazione corrente: le quattro
giovani ex-aspiranti Campionesse non condividevano nulla se non
l’aria pregna di terrore della clausura.
A
quel punto, con i palmi ancora brulicanti dalla voglia di colpire
qualcuno di vivente, ragion di quella scelta il bisogno di ferire
intenzionale e di un feedback in ritorno ad esso, Iris pensò
che
ritrovarsi con degli estranei ad esaurire gli ultimi istanti di
libertà formale che le rimanevano, se non preferibile, le
sarebbe stato indifferente.
Mentre
la furia del temporale ruggiva fuori nei campi di colza, tutte la
ignoravano e lei aveva osato crucciarsi; ora sentiva la mancanza di
quell’invisibilità, rivoleva le lacrime spese per
persone
ormai troppo lontane dal suo cuore perché la speranza di
sistemare le cose e di lasciarsi curare dal tempo potesse ricondurle
nel suo stesso spazio.
Rimasero tutte immobili,
come modellini di cera, non sapevano se fosse dì o notte.
L’unica
cosa che impressionò la piccola di Boreduopoli fino al
momento
in cui si addormentò, fu Camilla, andata ad analizzare il
contenuto trasparente del secchio, si augurò almeno che non
si
tagliasse con la ruggine.
Guardava
dentro quello specchio deformato, i ciuffi biondi le scivolavano da
dietro le orecchie e si tuffavano le punte: dall’odore e
dalla
consistenza, pareva acqua. Veleno, forse? Non lasciava alcun pigmento
violaceo o giallastro.
Dopo mezza giornata,
potersi reidratare un po’ non sarebbe stata una cattiva cosa,
pensò.
Ma
senza preavviso, il tossire prolungato e strenuo della Campionessa,
chinata a terra con la mano sotto il mento a raccogliere la saliva che
faceva capolino, dall’esofago la materia ingurgitata era
stata
violentemente rigettata, intanto respirava a fondo per asciugarsi la
bocca dal tremendo sapore e parlare con Catlina e Camelia,
già
pronte a soccorrerla.
«È
acqua e sale.» Disse, tossendo ancora più forte.
Finì che la
convinsero a sputare per terra, fino a che del retrogusto tossico non
ne fosse rimasta traccia.
❁
Niente luna, niente
cielo. Il soffitto sembrava pesare con lo spessore
dell’intera atmosfera terrestre.
Da
fuori tuttavia i rombi dei tuoni s’infiltravano nelle pareti
e le
reti dei materassi vibravano come telefonini in modalità
silenziosa.
I sogni di mezza estate
non dovrebbero conoscere così presto l’alba
Dappertutto, gli uccelli avrebbero comunque cantato. Anche non le
avessero rinchiuse, se c’era perfino la pioggia e il vento a
sibilare nel buio, quanta possibilità avrebbero avuto di
poter
vedere le stelle? Un desiderio del genere era strano. I fiori caduti
dagli alberi, chissà quanti.
Acromio
aveva ragione: il caldo umido impestava l’aria. Le
città
più inquinate, in particolare Austropoli e Sciroccopoli, in
cui
le nuvole grigio antracite ammassate
attorno alle punte dei grattacieli coprivano
le teste di circa sei milioni di abitanti di Unima non erano tanto
soffocanti.
«Direi
che basta per oggi. Ho finito il materiale, non posso farci
molto.»
Iris
si passò una mano sull’osso cervicale, sentendolo
più pronunciato del solito vista la sua posizione ricurva da
seduta, mantenuta per un tempo prolungato. Alzò la testa e
uno
scricchiolio sospetto la indolenzì.
Voleva
proprio fare un bel respiro aperto, ma le compagne dormivano tutte e
ormai le rimanevano poche coordinate sul come intrattenere una
conversazione con loro. Aveva segnalato chiaramente un addio poco
rincresciuto mediante le sue azioni.
«Se mi chiedi
“scusa” adesso e non dopo che ti sei fatta sgridare
da Camilla, potrei anche accettarlo.»
Lo aveva detto la mora,
prima di dormire. Lei non le aveva risposto.
«Avrei
dovuto metterle le dita negli occhi. O darle un morso. Non mi sono
impegnata davvero.»
Pensò
in quel momento. Perfino il silenzio della sua testa le pareva un luogo
insicuro e vulnerabile, sentiva allo scoperto tutti i suoi ragionamenti
non esternabili. Era tremendo per la ragazzina ancora scossa
emotivamente rimanere abbandonata al proprio rancore.
«Anemone
non me la perdonerà mai… -
fissò la compagna addormentata, racchiusa fra le braccia
della
sua fidanzata, invidiò tutta la sua bontà
– Ma come si fa a chiudere un occhio su
una cosa del genere… Giuro, non mi innamorerò
mai.»
La
rossa era effettivamente tornata da loro, un po’
più tardi
di quanto la recluta bassa aveva annunciato: se ne erano accorte solo
lei, che fingeva di essere assopita, distesa con mezzo occhio aperto, e
Camelia, la quale le aveva posto tantissime domande. Ma siccome non
aveva programmato il dopo, specie se avesse
intenzione di vendicarsi prima o poi, ora i loro rapporti si
erano malamente troncati e Iris si stufò di ascoltarla.
Riguardo
a cosa le avessero fatto, Anemone aveva ridacchiato e aveva rassicurato
la compagna che non era nulla di cui preoccuparsi. Non poteva riferire
in cosa consistesse la tortura, spiegò solo che era
intuibile
(lei provò a riflettere ma non ci arrivava da sola comunque)
e
la definì “sopportabile”.
«Certo,
avrebbero potuto anche frustarla, strapparle le unghie una ad una e
sfregiarla con l’acido. Tanto Anemone non direbbe niente
comunque, chi glielo fa fare… boh. Perché le
dà
sempre corda? Lei e Camelia sono una peggio dell’altra.
Come fanno a
non odiarsi una cifra? Se non stessero insieme magari capirebbero di
essere sulla strada del suicidio…
Forse
è vero. Sono io che sono gelosa perché non ho
nessuno a
darmi ragione a prescindere. O forse voglio qualcuno che mi abbracci
mentre dormo? No, fa troppo caldo, che schifo.»
«Iris, soffri
di insonnia per caso? Sei sempre sveglia nel bel mezzo della
notte.»
La
voce profonda di colei che stava sul letto al di sotto del suo si
intromise nel suo flusso di coscienza, un braccio bianco
spuntò
dal bordo delle sue lenzuola, le dita danzavano come ad invogliarla ad
afferrare la mano.
«Sì.
Sì, in un certo senso. Adesso dormo,
però.»
«Non
è che rinunciando al sonno tu stia espiando le tue colpe nei
confronti di Anemone e Camelia, sai?»
Ogni
presunzione della giovane Allenatrice di Pokémon Drago si
sgretolò, un vero e proprio malore fisico la costrinse a non
ribattere. Non si sentiva più se stessa, era convinta che
un’altra persona avesse agito al posto suo: la tipica scusa a
cui
non avrebbe mai creduto neanche lei.
Camilla,
poi. Sempre a sviscerare i suoi intenti più veri anche
quando
era sincera. Doveva solo arrendersi e lasciarsi sondare la coscienza e
non sarebbe stata una cosa breve come quando aveva osato mancare di
rispetto a Catlina.
Si
avvinghiò al braccio della Campionessa, a testa in
giù si
mostrò in viso mentre la matassa di capelli scompigliati le
scivolò sul naso e la compagna si sorprese piacevolmente.
Stava
seduta sull’angolo come una principessa in attesa del suo
salvatore, nella poca luce la sua attenzione ricadde sulle sue
ginocchia piegate, il muscolo del polpaccio riempiva tutta la carne e
la pelle diafana era piena, di un gonfiore sano e rassicurante.
Se
Camilla avesse avuto il fantomatico fidanzato di cui lei e le altre
insinuavano l’esistenza più che plausibile dal
giorno del
loro incontro, ora lui sarebbe venuto a salvarla, magari su un Rapidash
cromatico bianco o su un Drago che usava Lanciafiamme con poca mira.
Però
non c’era. E dopo tutte le batoste subite, Iris non si
sarebbe
mai permessa di proporsi come tale, la sua alterigia si era spenta e
guai se la cenere di essa le avesse offuscato l’animo.
«Ti faccio
vedere una cosa, vieni su.»
Come
se dovesse lasciar spazio al passaggio di un regale, si dispose subito
sul lato del letto, affinché la leader potesse salire senza
intralci: aveva scelto lei quello in alto, per risparmiare alle altre
la fatica di arrampicarsi, azione che invece alla ragazzina cresciuta
in mezzo ad alberi dai rami robusti e dai frutti deliziosi in apparenza
irraggiungibili, causava poco disturbo, magari un po’ di
nostalgia dell’infanzia.
Sperò
che Camilla non si aspettasse nulla di spettacolare quali passaggi
segreti, tunnel sotterranei o un fortuito condotto di aerazione
(quell’ipotesi, quanto fu doloroso scartarla sentendo il
monito
del professore via video!) per far condicio dei suoi misfatti
precedenti, altrimenti lei avrebbe già porto scuse ufficiali
e
se ne sarebbe lavata le mani.
Non
appena ella si accomodò nella posizione appoggiata sui
talloni
inconcepibile per il mondo occidentale, le diede le spalle per estrarre
qualcosa dal fianco del materasso adagiato al muro, una specie di tasca
artificiale, da cui venne fuori un rigurgito di ovatta che si
sforzò di contenere.
«Questo. Mi
dispiace, non ho saputo fare di meglio.»
«Dove hai
trovato questa corda?»
La
reazione istintiva che Camilla ebbe una volta l’utensile
finì fra le sue mani fu quella di tirarne varie sezioni per
testarne la resistenza: provò più volte e non si
ruppe.
In seguitò tentò di analizzare la composizione
delle
singole fibre, arrangiate in una treccia abbastanza stretta, poco
flessibile.
«L’ho
fatta.»
«Con
cosa?»
Lo
sguardo della ragazzina cadde verso il basso, a destra e a sinistra,
senza puntare a qualcosa di specifico però. Per quanto le
dispiacesse vedere la sua metodica ed arguta leader in
difficoltà per via del proprio essere restia ad aprirsi, non
le
offrì alcun indizio. Voleva che Camilla capisse nella sua
maniera solita, come per magia, come se non fosse cambiata di una
virgola la Iris che tanto la adorava e l’ammirava e non
poteva
fare niente se non era per il suo intervento miracoloso.
«Oh. Ho
capito. – lanciò uno sguardo verso il suo di letto
– Puoi avere le mie per stanotte.»
«No, sto bene
così. Tanto fa troppo caldo per dormire con le
coperte.»
In
effetti, la superficie del materasso spoglio e del cuscino senza federa
le ricordarono un deserto ghiacciato, in mezzo al quale stava la sua
compagna, chissà quante volte si era persa fra tutta quella
solitudine, oppure un mare bianco, piatto e senza onde, senza appigli o
punti di riparo.
Si
ricordò di una confessione, Iris odiava il freddo.
L’aveva
messa giù sul ridere, aveva fatto passi da gigante con
l’autoironia dall’inizio di giugno, ma dopo aver
scoperto
che la sua nemica era specializzata nel Tipo in grado di spazzare via i
suoi amati Draghi, il tutto aveva preso una nota cupa.
Aveva
scelto lei di fare tutto ciò, ma le faceva comunque pena,
anche
effetti collaterali tanto minuscoli la impressionavano. Sì
rimproverò di essere troppo empatica.
Rimase
a corto di commenti per un bel pezzo. Anche si fosse complimentata per
le sue doti manuali, era certa che la compagna avrebbe voltato il capo
e le sarebbe scivolato tutto addosso, senza farle alcuna differenza.
Onestamente,
lei non ci sarebbe mai riuscita a fabbricare una corda lunga quanto il
doppio dell’arcata delle proprie membra in circa due-tre ore,
al
buio, in un silenzio autoimposto, come l’eroina della fiaba
che
tessé la veste di ortiche. Rimpianse di non aver domandato
nel
dettaglio a Nardo in riguardo ai fatti accaduti previ alla competizione
che riguardassero Iris; questo perché lei aveva sviato ogni
suo
interesse nell’onsen, non sapeva se per vergogna o per
schiettezza.
Ecco
come s’era ingegnata, tornando un po’ indietro con
i fatti:
legato l’angolo della coperta maleodorante alla testiera in
acciaio, aveva affettato in lunghe striscioline, simili alle shide per
purificarsi nei santuari, usando uno dei cocci taglienti rinvenuti dopo
il loro sfogo piuttosto immaturo.
Piccoli
segmenti rossi infatti affioravano fra quelle dita sottilissime, ma di
infilarle nell’acqua salata per farli cicatrizzare non ci
pensava
nemmeno.
Aveva
seguito una serpentina, in modo da non sprecare un solo centimetro
della stoffa: un taglio orizzontale da destra e uno da sinistra, senza
mai strapparla in due. Non aveva disponibile neanche un gesso o una
matita per segnarsi dove era arrivata, aveva riservato fin troppa
concentrazione ad un lavoro tanto manuale ed in apparenza da
sempliciotta.
Solo
alla fine la ragazzina realizzò che perfino il suo leggiadro
peso non avrebbe retto con uno strato soltanto, allora ne aveva
aggiunti tirando le tre estremità per serrare i nodi,
ottenendo
la larghezza del suo braccio.
Improvvisamente
ricordò la battuta della recluta sul fatto che con quella
corda
robusta una si sarebbe potuta impiccare senza problemi; le vennero i
brividi, si pentì di aver sprecato ore di sonno in cambio di
sguardi confusi e in parvenza rammaricati da parte della Campionessa di
Sinnoh, la quale finalmente smise di giocherellare con il suo manufatto.
«Queste
fibre rosa, a fiori verdi e gialli, dove le hai trovate?»
Chiese,
sollevando gli angoli della bocca in un sorriso.
«Eh…
- mormorò, grattandosi l’attaccatura dei capelli,
la donna
colpiva sempre la testa del chiodo con le sue domande impertinenti
– dovevo aggiungere altro spessore e avendo finito i
teli…»
Un
bollore le intiepidì le guance, si strinse forte ai propri
palmi. Gli occhi nocciola della ragazzina fissavano la mano della
Campionessa con lo stesso shock di un ragno che si arrampicava sul suo
collo, eppure quel tocco delicato lungo le spalle accaldate le diede
l’impressione che la propria pelle si stesse sciogliendo,
risucchiando i polpastrelli della Campionessa all’interno di
essa.
Non
aveva mai detto a Camilla di smetterla con tutte quelle dimostrazioni
corporali di affetto, perché cominciare ora, si chiese.
Quando
la sentì scendere un po’ verso il basso,
prendendosi
più libertà di tastare la zona sotto alla
clavicola ed
adiacente allo sterno, il corpo che tanto biasimava poiché
fermo
ancora ad una fase bambina, puerile ed incompleto, si stupì
di
quanto risultasse sensibile: con movimenti più veloci aveva
già esplorato metà superiore del seno sinistro,
Camilla
ritrasse la mano e finalmente i loro occhi si rincontrarono.
Alla leader, come aveva
previsto, veniva da ridere. La assecondò, quindi.
«Solo il
reggiseno, o anche… sotto?»
«Uh…
Tutti e due.»
«Se ti dessi
una mano anch’io?»
«C-Camilla,
no, tranquilla, non devi! - Il senso di disagio riecheggiava
intensamente, finì per rompere il sussurro – N-Nel
senso… io posso, tu… no?»
«Perché
“no”?»
«Te lo devo
spiegare io?! Peggio della volta dell’onsen…
Allora, in teoria se tu hai…»
«Io
ho…? Vai avanti.»
«…No,
vabbè, niente. Girati, te lo sgancio io.»
Mentre
scostava la chioma bionda dalla cerniera dell’uniforme
arancione,
Iris capì finalmente che forse passare un decennio e un
lustro a
confrontare le proprie misure con quelle delle altre ragazze
l’aveva leggermente distaccata dalla realtà:
magari le sue
coetanee le avevano mentito, non avevano voglia di correre e saltare e
distendersi a pancia in giù ed usavano la mole del seno come
giustificazione. Così doveva essere.
Però
prima di allora non aveva incontrato una femmina con un rapporto
busto-vita grande come quello di Camilla, non poteva parlare di
qualcosa che non poteva immaginare neppure lontanamente. Ancora una
volta la Campionessa aveva l’ultima parola su faccende anche
fin
troppo mondane.
Trovò
inoltre un miracolo della tecnica il fatto che gli indumenti per adulti
aggirassero i problemi dovuti alla crescita del corpo che la propria, a
detto suo, inconcepibile coppa B non si poneva nemmeno: le spalline si
potevano staccare.
Si convinse che le donne
adulte fossero in realtà soltanto pigre e non fisicamente
impedite.
«Adesso
sono stanca però… Se te lo tieni un altro giorno
e me lo
dai domani, che mi rimetto a lavorare?»
Non
agguantò i ganci se non appena Camilla le diede riscontro.
Allora non esitò a staccarli dall’ultima asola.
«Se domani non
ci vediamo…» La voce di lei appariva disconnessa.
Iris
moriva dal bisogno di accarezzare la nuca bianca, di sfiorarle le
vertebre come i tasti di un pianoforte in avorio. Ma aveva paura di
avere le mani gelate e che a causa del caldo detestasse le sue manie
sciocche, non le avrebbe trasmesso nulla, non avrebbe saputo motivarla
o confortarla.
Come
fosse un’estensione del suo corpo, si mise a fissare il
reggiseno
nero (possibile avessero una selezione tanto misera nei colori, le sue
compagne più grandi? Poteva giurare a se stessa che a parte
quello bianco di Anemone e i pezzi da duecento Pokédollari
di
Catlina non aveva visto altri colori indosso a loro).
Attenta
a non venire guardata, si passò la coppa fra il pollice e
l’indice: gli diede addirittura un colpo con le nocche,
neanche
fosse una corazza d’acciaio; Camilla aveva sottovalutato il
supporto che offriva. Si appuntò in mente di rimuovere
l’imbottitura prima di procedere con il taglio, per poi
infilarla
nelle intercapedini della corda.
Fu
però un altro dato sensoriale a rapire la sua immaginazione
dalla cella buia e dalla disperazione dei momenti precedenti.
«Oh,
ma… profuma stranissimo. Sa da un misto di deodorante, pelle
e… boh, ha un odore forte. Non fa schifo, ma non
è
né dolce, né chimico… Come dire,
“essenza di
donna”? Essenza di Camilla?»
«Ti
può essere utile, allora?»
Iris
alzò di scatto il capo, per non farsi catturare con il naso
infilato nell’intimo della compagna, nonostante avesse solo
il
mento basso, Camilla continuò a scendere verso il proprio
letto
con molta attenzione ad appoggiare i piedi solo sul ferro e non sul
materasso scricchiolante.
«Sì…
è meglio di come pensavo.»
Farfugliò,
cercando di osservare l’oggetto al di fuori del contesto,
pesando
a tutti i modi per sfruttarlo al meglio, neanche fosse uno Strumento
per la lotta.
«Per fortuna.
Adesso ti lascio dormire, okay? Buonanotte, Iris.»
«Buonanotte,
Camilla.»
Il
sonno non le avrebbe portato via le sue compagne e, se non dopo ore dal
risveglio, l’odio, le cattiverie e le frustrazioni di quel
dì non sarebbero stati loro abbastanza chiari. Prima la
separazione, dopo la riunione, aveva deciso il Team Plasma per
arrecargli danno: e mentre lei vagava nel caos, il suo legame con
Camilla si era rafforzato.
Come poteva avere senso,
tutto ciò? Volle darsi da fare con la corda ancora un
po’.
Ma
quel reggiseno non era affatto flessibile come i suoi, non si riusciva
a tagliare subito: brandendo il suo machete improvvisato,
scorticò l’orlo inferiore per tutta la lunghezza,
come se
stesse aprendo il ventre di un grosso pesce per rimuoverne le interiora.
Dentro il pesce, ci
trovò metaforicamente un anello d’oro.
«Woah,
che grossi… con questi ferretti ci puoi strozzare una
persona.»
❁
«Quindi
domani vuoi andare tu al processo?»
«Non
c’è altra scelta. Dopotutto, la leader dovrebbe
sempre
essere la prima a sacrificarsi per il bene delle sue
apprendiste.»
«Com’è
che farti un massaggio dovrebbe contribuire al mio bene?»
«Hai
quasi staccato un seno a Camelia. Direi che te lo sei guadagnato,
questo privilegio.»
«Ah,
giusto! Domani, prima che si svegli le rovescio l’acqua
salata
sugli occhi, poi le taglio le tette con il mio nuovo bellissimo
taglierino!»
«Iris!»
«Va
bene, non lo faccio... Che schiena rigida che hai, hai tutti i muscoli
delle spalle duri…»
«Vero?
Credo sia una condizione genetica ereditaria, o la postura quando
leggo, ce l’ho fin dalle elementari: dici siano delle
cervicali?
Me lo chiedo da un po’…»
«…no?»
«No?
Pensi sia il clima? O una questione d’umore? Sai, magari
è
una di quelle cose che si risolve con gli impacchi caldi e la
meditazione zen…»
«Camilla,
posso riavere il mio bel taglierino affilato?
Sento
il fortissi-missi-missimo bisogno di tagliarmici la pancia e pugnalarmi
nello stomaco.»
«…tutto
okay?»
«Tranquilla,
è normale, faccio questi pensieri da un mese e mezzo!
Comunque
non sono una psicopatica.»
❁
Behind
the Summery Scenery #20
1. Sono
poco fiera di questo mio traguardo... l'intervallo di tempo fra il
capitolo prima e la pubblicazione di questo capitolo è il
più lungo di tutta la storia: sono passati ben un anno e
circa 6
mesi, il TRIPLO di quanto normalmente mi ci vuole per scrivere +
editare + pubblicarne uno. Chiedo scusa in stile booty guru apology,
anche se la mia
cancellazione è imminente e perderò lettori
comunque.
2.
Il titolo di questo capitolo: una ripresa di una delle mie
serie
preferite "Una serie di sfortunati eventi". Ho usato nel titolo la
tecnica dell'alliterazione, anche il tono generale del captolo
è
paradossale, cinico e no-sense, mi sono proprio calata nei panni di
Lemony Snicket, LEMOMO SNICKET.
3.
Domanda che sono sicura esiste: ma le reclute di basso rango del Neo
Team Plasma sono tutte uguali? Certo! Massima fedeltà ai
giochi.
Se ricordate inoltre, nello scorso capitolo, le reclute si chiamano R e
Z: questo perché, come la N del principe Harmonia
rappresenterebbe l'insieme dei numeri naturali, Z è quello
degli
interi relativi ed R quello dei numeri reali. Le altre reclute come si
chiamano? Esattamente coe le 26 lettere dell'alfabeto o come i simboli
unicode. Sì questo vuol dire che esiste una recluta L, che
però noi non vedremo mai .
4.
Ebbene, cosa mi qualifica per scrivere di processi, accuse,
codice
penale e cose varie? Ho un papà avvocato (con cui
denuncerò per diffamazione tutti i miei haters) a cui non
farei
leggere starobba neanche per sbaglio. Inoltre ho già
procurato
un bella delusione alla famiglia non andando a studiare giurisprudenza,
eheh. Quindi mi sono informta usando un misto della legislazione
americana e italiana perché tanto Unima non esiste. Al
solito,
segnalate errori kudasai.
5.
Acromio ha finalmente detto la battuta memosa! In realtà non
l'ha detta come la volevamo tutti, ma sono già in ritardo di
sei
anni con questa meme, che altro potrebbe umiliarmi di più?
6.
Esiste un punto del testo in cui mi sono letteralmente quasi
arresa, ho avuto un crollo ed un burnout temporaneo ma doloroso, in cui
ho letteralmente dumpato nel testo seria frustrazione e che non ho
cancellato tuttavia. Nella stub originale il punto era marcato da un "I
HAVE GIVEN UP, Alexa play God knows I tried by Lana del Rey", quindi
ero proprio sul fondo del barile di liquami in cui mi immergo a
capofitto ogni volta che scrivo. Trovatelo e ridete di me, come fate
sempre.
7.
Questo non è un vero punto da BTSS, ma un esperimento che
volevo
fare per pura curiosità: siamo nel mese del pride month, in
cui
voi altri, disgustosi froci che non siete altro, andate in piazza a
gridare quanto vi piaccia scopare (non siete mica come gli altri/e
ragazzi/e, eh!) e che volete i diritty tm. Quindi, mi sono detta di
fare qualcosa a tema identity politics.
Giochiamo
alle oppression olympics! Whooo! Magari nessuna delle nostre ragazze
diventerà Campionessa, ma si consolerà con il
premio
"sfiga 2019"! Ovviamente terrò conto del canon di ESG e di
quello che io come autrice so (e voi no, eheh). Ecco qui il nostro test.
Iris:
59/100
Camelia:
56/100
Anemone:
58/100
Catlina:
63/100 (???)
Camilla:
57
Acciderboli!
Ma come è possibile che una ragazza bianca eterosessuale
fino a
i/3 della storia e pure troia sia la meno privilegiata del gruppo???
N-Non ditemi che questa fantastica fanfiction non è poi
così intersezionale, queer e femminista! Ora mi metto a
piangere.
8.
La fantastica Kuro-san ha fatto questo
artwork per
celebrare il 4° anniversario di ESG, di cui nemmeno io mi sarei
ricordata! Lei è proprio brava, simpatica e paziente. Thanks
Kuro, really cool!
A
tutti gli amici artisti: se mi mandate le vostre creazoni su
@esg_offical_ig per messaggio privato, le metto anche qua, vvb
1000
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