Gente mia,
l’ennesimo
mappazzone giunge a compimento, con un capitolo che già di per sé è
a rischio di essere un po’ mappazzone…
Grazie
a tutti coloro che mi hanno seguito, mi hanno messo in qualche lista
o addirittura mi hanno lasciato un commento, e grazie a Soul per
l’ispirazione!
Capitolo
3
Rizzelli
bussò alla porta dell’ingegner Losi.
“Avanti!”
provenne dall’interno.
Egli
aprì ed entrò nello studio del titolare della Diamond House. “Buona
sena, ingegnere,” esordì, “avrei bisogno di un paio d’ore di
permesso stasera.”
L’altro,
un uomo basso, brizzolato, con gli occhiali cerchiati d’oro, lo
fissò critico da dietro l’ampia scrivania e rispose: “Ultimamente
ne ha presi parecchi di permessi, dottor Rizzelli.”
“Lo
so,” rispose il primo, “mi rendo conto. Ma vede, mia moglie non
sta tanto bene ultimamente, ci tengo ad accompagnarla alle visite.”
Losi
sollevò colpito le sopracciglia. “Non sta bene? Che cos’ha, se
posso chiedere?”
Rizzelli
si strinse nelle spalle e abbassando appena la voce rispose: “Laura
non lo sa ancora, ingegnere, ma i medici temono una brutta malattia
del sangue.”
L’altro
lo fissò serio. “Mi dispiace molto,” gli rispose. “In tal caso
vada, vada pure. E mi tenga informato.”
“Certo,
ingegnere, non mancherò. Grazie per la sua comprensione.”
Rizzelli
uscì dall’ufficio del titolare, ben attento a mantenere
l’espressione di circostanza. Indossò il soprabito e raggiunse
velocemente la macchina.
Mentre
guidava rapido nel traffico si congratulò con se stesso per la
naturalezza con cui aveva raccontato al suo capo la balla della
malattia di Laura, ma soprattutto per l’idea che aveva escogitato:
non c’era bisogno di aspettare le vincite al gioco per ricostruire
il capitale delle ragazze, sarebbe stato sufficiente chiedere un
prestito dando la casa come garanzia.
Di
finanziarie del resto ne conosceva parecchie, visto il mestiere che
faceva. Scelse la Easy Fin, che come da nome era di solito rapida
nell’elargire i soldi e faceva poche domande.
La
faccenda fu più rapida del previsto ed egli uscì dai locali della
Easy Fin mezz’ora dopo esserci entrato, più ricco di
centocinquantamila euro. Giusto il tempo di fare le pratiche bancarie
– un paio di giorni al massimo – poi il conto per Chiara e Serena
si sarebbe presentato intonso, come se nessuno l’avesse mai
toccato.
Era
ancora in quello spensierato stato d’animo quando giunse a casa.
La
prima cosa che lo colpì fu che non si sentiva alcun odore di
mangiare, nemmeno quella pizzaiola disgustosa che sembrava piacere
tanto a sua moglie. Ovunque c’era un silenzio cupo, reso più greve
dal fatto che l’unica luce accesa era quella sul tavolo della
cucina.
Fu
assalito dalla paura che fosse successo qualcosa di brutto, magari a
Chiara o Serena.
“Amore?”
disse in tono esitante. “Amore, sono a casa.”
Non
gli giunse risposta.
“Amore,
dove sei? Va tutto bene?”
Arrivò
alla cucina, guardò dentro. Sua moglie era seduta al tavolo e teneva
lo sguardo fisso davanti a sé. La luce che proveniva dall’alto
induriva i suoi lineamenti dolci rendendoli simili a una maschera
tragica.
Rizzelli
si immobilizzò sulla porta. “Gesù, Laura, ma cos’è successo?”
le chiese, aspettandosi di sentirsi dire che una delle loro figlie
era morta o gravissima in ospedale.
La
donna si voltò lentamente verso di lui, ed egli vide che aveva gli
occhi rossi di pianto. “Dimmelo tu, cosa sta succedendo,” gli
disse in un sibilo roco.
Egli
fece addirittura un passo indietro, turbato da quella strana
messinscena. “Che intendi dire?” le chiese.
Per
tutta risposta, Laura buttò sul tavolo una manciata di cenere, che
si sparse sul piano lucido del mobile. “Cos’è questa roba?”
chiese la donna.
Rizzelli
si avvicinò. Aveva riconosciuto da lontano i gratta e vinci
bruciati, tuttavia fissò i frustuli anneriti, poi fissò lei con
l’aria di non capire e propose: “Della carta bruciata?”
“Da
dove viene?”
“In
che senso, scusa?”
“Cos'hai
bruciato?”
Rizzelli
alzò le spalle con aria noncurante. “Mi
sono liberato di alcune vecchie fatture.”
“E
di qualche gratta e vinci, dico bene?”
Egli
sorrise. “Sì, un paio.” Poi, dopo una pausa, in tono vagamente
complice: “Uno ci prova sempre, no?”
A
quel punto, Laura si alzò in piedi. Con una manata sparse ovunque la
cenere “Non dire stronzate!” lo gelò.
“Cosa?”
“Non
dire stronzate,” ripeté la donna in tono minacciosamente basso.
“Ho visto quello che hai fatto, nel conto delle ragazze non c’è
più niente!”
Rizzelli
dovette farsi forza per non sobbalzare. Una sferzata di adrenalina
gli attraversò tutto il corpo, sentì le guance andargli a fuoco.
“Ma cosa stai dicendo?” sbottò.
“Il
conto di Chiara e Serena, mi capisci quando parlo? È vuoto, ci
saranno al massimo duecento euro, e ce n’erano centoventimila!”
“Com’è
possibile?” tentò l'uomo, indietreggiando come per sfuggire allo
sguardo di fuoco della moglie.
“Dimmelo
tu, com’è possibile. I prelievi li hai fatti tu!”
L’altro
si erse piccato. “Pensi sul serio che potrei fare una cosa del
genere?”
Laura
strinse le labbra, poi in tono duro replicò: “Non
lo penso, lo so!
Sei tu che hai spostato tutti quei soldi sul tuo conto, sei tu che
giochi on line tutta la notte e che ti compri dei quintali di gratta
e vinci!”
“Non
è vero!”
“Oh,
sì che è vero!” A ogni replica Laura si avvicinava di un passo,
tanto che a un certo punto Rizzelli si chiese cos’avrebbe dovuto
fare se lei avesse cercato di colpirlo. Immaginò Carabinieri,
avvocati, soldi da pagare, e a lui i soldi servivano.
Si
fece indietro per mantenere la distanza di sicurezza e disse: “Chi
ti ha raccontato queste cazzate? Quelli della banca?”
In
un moto di stizza, Laura afferrò una ciotola di vetro con dentro un
pot pourri e la lanciò contro la parete, dove esplose in una miriade
di frammenti. “Pensi che sia scema?” urlò. “In quel conto ci
possiamo entrare solo io e te, e io non sono stata!”
“Beh,
nemmeno io!”
“E
allora chi è stato, il gatto?”
“Saranno
stati dei pirati informatici, se ne sentono un sacco al giorno
d'oggi,” disse Rizzelli, congratulandosi con se stesso per la
trovata.
L'espressione
di Laura rimase impenetrabile. “Con il tuo account?”
“Certo!
Come pensi che facciano a vuotare i conti? Mi avranno rubato in
qualche modo le credenziali informatiche.”
A
quelle parole seguì un lungo silenzio. Il cane dei vicini abbaiava
fioco in lontananza, lungo la strada passò una macchina. Nella luce
cruda dell'unica lampada accesa, Laura era immobile come una statua.
“Tu
devi farti curare,” disse infine. “Tu sei malato.”
“Io
sto benissimo,” protestò Rizzelli.
“Sei
un ludopatico! Domani andiamo al Ser.T., devi andare da qualche
parte, in una comunità o dove ti pare, ma devi guarire da questa
cosa.”
“Sto
benissimo,” ripeté Rizzelli, “non sono mai stato meglio in vita
mia. A differenza tua, io voglio la vita vera, voglio i soldi, voglio
le macchine! Perché devo accontentarmi di questo?” Fece un gesto
circolare con la mano, indicando sprezzante ciò che lo circondava.
“Accontentarti?
Hai una moglie che ti vuole bene, due figlie bellissime, un lavoro,
una casa… ripigliati, Alessandro: è questa la vita vera!”
“Questo
lo chiamo esistere.
È quello che fanno gli animali: figliare, procacciarsi il cibo e un
rifugio, crepare, fine. Non fa per me.”
“E
cosa sarebbe quello che fa per te, sentiamo? Le Ferrari? Gli yacht?”
“Certo,
se posso averli! E comunque, ti stai facendo mille paranoie per un
problema che non esiste, perché al massimo dopodomani il tuo
conticino avrà di nuovo tutti i suoi soldini, va bene?”
“Allora
ammetti di averli presi tu?”
Rizzelli
aprì la bocca per ribattere, ma l'unica cosa che riuscì a dire fu:
“Ora esco, mi hai rotto i coglioni.”
Le
girò bruscamente le spalle, raccolse le chiavi della macchina e
uscì.
Sapeva
di una sala che stava aperta fino a tardi. Fino a quel momento
l’aveva evitata perché si diceva che non fosse proprio del tutto
legale, ma a quel punto della legalità gliene fregava meno di zero.
Quella
specie di stronza moralista, pensava irritato. Si fosse fatta i cazzi
suoi.
E
invece no! Invadente, impicciona come tutte le donne. Affetta dalla
perversa mania di voler controllare qualsiasi cosa.
Se
a lei andava bene vivacchiare in quel modo, con una casettina, una
macchinina e un lavorino per tirare avanti, lui di sicuro aveva altre
aspirazioni, e non si sarebbe fatto mettere i bastoni fra le ruote da
una che passava le giornate a leggere riviste di moda in un negozio
che in pratica costava più di quello che rendeva.
Parcheggiò
con gran stridore di freni davanti al primo bancomat che incontrò,
scese, infilò la tessera nell’apparecchio e prelevò un migliaio
di euro, quindi raggiunse la sala giochi.
Individuò
subito una VLT, il fluido
gli percorse le membra come una sferzata calda.
Si
sedette, alla terza giocata aveva già vinto trecento euro.
“Alla
faccia tua, stronza,” ringhiò.
Continuò
a giocare. Le banconote entravano nella macchina una dopo l’altra,
ma di pari passo il montepremi lievitava. Toccò la cifra di
diecimila euro.
Squillò
il telefono, Rizzelli diede uno sguardo al display, riconobbe il
numero della moglie e lo ignorò.
Continuò
a giocare, il montepremi lievitò fino a dodicimila euro. Intanto si
era radunata intorno a lui una piccola folla, che lo incitava con
grida e acclamazioni ogni volta che lui premeva il pulsante ‘Play’.
Perse
mille euro, tra i mormorii sconcertati degli astanti, ne riguadagnò
altri duecento, ne perse settecento.
Tutte
le volte che toccava il pulsante, era come se una scossa elettrica
gli percorresse tutto il corpo. Si sentiva potente, si sentiva vivo.
A ogni vincita era come se qualcosa lo sparasse in cielo, a ogni
perdita precipitava verso il basso, poi si riprendeva, tornava su,
poi ancora giù, poi su…
Era
ebbrezza, era adrenalina pura. Era meglio di qualsiasi altra cosa.
A
un certo punto realizzò che tutt’intorno a lui c’era silenzio.
Sbatté gli occhi, scosse la testa come per schiarirsela. Il
montepremi era duecento e qualcosa euro.
Si
portò una mano al nodo della cravatta, solo per trovarlo allentato e
floscio. Aveva la camicia mezza aperta e sgualcita, non aveva più la
giacca. Nel portafoglio non c’era più un soldo.
Raccolse
il cellulare e vide innanzitutto che erano le otto di mattina, e poi
che c’erano almeno dieci telefonate di sua moglie, più altre
cinque di suo fratello Fabio e qualcuna di qualche numero che non
riconosceva.
“Un
altro po’ e chiamava anche l’Esercito, ‘sta stronza,”
borbottò.
$
Quando
rientrò a casa, verso le dieci di sera, si accorse che Laura lo
stava di nuovo aspettando seduta al tavolo della cucina.
Soffocò
un'imprecazione: dopo la sala giochi era andato direttamente a
lavorare per non trovarsela addosso, poi era uscito ed era andato di
nuovo nella sala giochi della sera prima, che gli pareva fortunata,
ma a un certo punto aveva dovuto far ritorno a casa, anche solo per
farsi una doccia.
E
lei era lì, immobile come una cazzo di sfinge, pronta a fargli la
sua morale da zia acida.
“Hai
giocato anche oggi?” gli chiese non appena mise piede in cucina.
Rizzelli
aggrottò le sopracciglia. “Non sono affari tuoi.”
Laura
scosse la testa e replicò: “Lo sono eccome. Hai usato tutti i
soldi di Chiara e Serena, non te ne frega proprio niente di loro?”
“Ma
che discorsi,” sbottò lui, “certo che me ne frega.”
“Non
si direbbe.”
“Non
cominciare con le tue frasi rivendicative del cazzo, Laura!”
A
quell'esplosione, la donna rimase impassibile. “Dammi il bancomat,”
disse.
“Cosa?”
“Il
bancomat e le carte di credito, hai già fatto abbastanza danni. E
domani andiamo al Ser.T. a parlare.”
“Ma
figurarsi se vado in quel posto pieno di drogati e ubriaconi. Io sto
benissimo, non ho nessun problema, e se tu ieri mi avessi lasciato
parlare, invece di fare le tue scenate isteriche, ti avrei spiegato
che è tutto sotto controllo, che ti sei fatta prendere dalla
paranoia per niente.”
Di
nuovo, Laura rimase gelida. “Che intendi dire?”
“Che
entro breve sul conto ci saranno di nuovo tutti i tuoi cari soldini,
tesoro. Che non dovrai più preoccuparti che questo cattivone brutto
rubi i risparmi per Chiara e Serena.”
La
donna emise un sospiro infastidito e replicò: “Smetti di fare il
bambino, sono cose serie. Tu devi darmi il bancomat e le carte.”
Rizzelli
fece addirittura una breve risata. “Ma non esiste proprio. Non hai
nessun diritto di portarmeli via, se ci provi vado dai Carabinieri.”
“E
io ci vado e dico che hai vuotato il conto delle ragazze.”
“Cioè,
fammi capire,” replicò lui in tono sarcastico. “Mi denunci
perché ho speso i miei
soldi, che si trovavano su un conto intestato a me?”
“Ma
io non lo sapevo!”
“Dimostralo.”
I
soldi della Easy Fin arrivarono due giorni dopo. Rizzelli prese le
carte che li accompagnavano e con noncuranza le firmò, quindi le
portò a casa e le ficcò in un cassetto.
Laura
non c’era. O, se c’era, non si faceva vedere.
“Sarai
contenta, adesso,” ringhiò. Guardò in su, dal momento che
verosimilmente sua moglie era in mansarda a fare qualche cazzata da
donne, e alzò in quella direzione il dito medio.
Andò
in taverna, estrasse un pacchetto di sigarette dalla sua riserva
segreta, si stravaccò sul divano e per un po’ rimase a fumare in
silenzio.
Quando
la sigaretta finì, schiacciò il mozzicone in un portacenere già
straripante e se ne accese un’altra.
Alla
terza sigaretta, si voltò verso il computer.
Sul
suo conto adesso c’erano un sacco di soldi, molti più di quelli
che aveva prelevato dal conto per gli studi delle figlie. Che male ci
sarebbe stato a giocarsene un po’? Si sarebbe solo rifatto delle
recenti perdite, tutto lì.
Fece
le cose per bene: rimise sul conto delle figlie tutto quello che
aveva prelevato, e stabilì che quella cifra era sacra e inviolabile.
Le ragazze dovevano andare in America, quelli erano soldi loro, non
si potevano toccare.
Il
resto, però, era suo, quindi poteva farne quello che voleva.
$
Rizzelli
realizzò che doveva tornare alla Easy Fin, o rivolgersi a un’altra
finanziaria. Era successo quello che si era ripromesso di evitare in
ogni modo: mille euro qua per una giocatina, mille euro là per
coprire un debituccio… Fatto sta che le tasse universitarie delle
ragazze stavano per arrivare e sul conto c’era la metà di quello
che avrebbe dovuto esserci.
Il
che per le tasse sarebbe bastato, ovviamente, ma poi, una volta negli
Stati Uniti, Chiara e Serena avrebbero dovuto mantenersi facendo le
cameriere nei fast food.
Ma
non era un gran problema, in fin dei conti: avrebbe discusso un altro
prestito, magari anche a un tasso maggiore di interesse, tanto la
casa bastava ampiamente come garanzia per coprire entrambi.
Raccolse
il soprabito. Laura ormai lo evitava, discuteva di separazione,
minacciava di andare a vivere da sua madre – come se poi quella
potesse essere una minaccia – ma ovviamente si guardava bene dal
farlo.
Era
sempre lì, l’arpia, figurarsi. Aveva mandato via solo le ragazze.
Per il loro bene, diceva.
E
intanto continuava a volersi appropriare del suo bancomat, continuava
a cianciare di cure e di dottori, quando l’unica ammalata lì
dentro era lei, che voleva vivere e crepare in una vita miserabile,
uguale ogni giorno, scialba e triste.
Uscì,
andò alla macchina.
Una
giocata e poi alla Easy Fin, si disse.
Salì
a bordo e partì.
Al
ritorno riconobbe parcheggiata lungo la strada di casa sua la
macchina di suo fratello Fabio. Alzò gli occhi al cielo: già aveva
perso, quindi era scazzato, in più ci si metteva anche suo fratello.
“Che
palle,” sospirò.
Per
un attimo fu tentato di ingranare nuovamente la marcia e tornare alla
sala giochi. Lo trattenne unicamente il fatto che aveva finito il
soldi e per quel giorno aveva raggiunto il tetto massimo del
bancomat.
Lasciò
l’auto nel garage, entrò in casa e subito arricciò il naso: non
era l’odore di cucina a infastidirlo – di cucina ormai non se ne
faceva più in casa sua – ma il dopobarba di suo fratello, che mai
come in quell’occasione lo disgustava.
Gli
bastò seguire la scia e trovò lui e sua moglie seduti in cucina,
con l’aria da tragedia greca. Al suo arrivo, Fabio alzò la testa a
fissarlo e disse: “Laura mi ha detto tutto. Tu devi farti curare,
Sandro.”
“Non
ti ci mettere anche tu,” replicò brusco Rizzelli.
“Quanti
soldi ti sei giocato?” chiese l’altro. “Scommetto che non lo
sai neanche tu.”
“Lo
so benissimo, invece. Io ci passo la vita a gestire soldi, quindi so
contarli molto bene.”
Fabio
scosse la testa. “A me pare di no, Sandro.”
“Ma
piantala col melodramma,”
brontolò Rizzelli. “So badare a me stesso. Ho deciso di fare un
investimento, e come in tutti gli investimenti, bisogna avere
pazienza prima di raccogliere gli utili.”
“Quanti
utili pensi di poterne ricavare?”
L’altro
alzò le spalle. “Quanti ne voglio, basta solo imparare la tecnica
di gioco. C’è gente che guadagna venti o trentamila euro al mese.”
Fabio
scosse la testa. “Tu non ragioni più, Sandro. Non sai quello che
dici.” Fece una pausa, forse in attesa di una risposta che non
giunse, poi proseguì: “Domani andiamo tutti insieme al Ser.T., ti
accompagno anch’io, e parliamo con un dottore.”
“Ci
andate voi dal dottore,” replicò per l'ennesima volta Rizzelli.
“Io sto benissimo. E poi lo so cosa fanno quelli là: ti ficcano
negli ospedali e ti fanno uscire solo quando sei uno zombi. È questo
che volete ottenere?”
Intervenne
a quel punto Laura: “Non dire idiozie. Noi vogliamo che tu stia
bene.”
“E
non sto bene, adesso? Sentiamo: cos’avrei che non va?”
“Dai,
Sandro,” s’intromise Fabio. “Non fare il bastian contrario per
partito preso. Tu non stai bene, soffri di disturbo da gioco
d’azzardo patologico. Devi farti curare, prima di finire rovinato.”
“Sai
che ti dico? Fatti curare tu. Vacci tu dai medici nazisti, a farti
iniettare dei farmaci sperimentali.”
A
quel punto Laura disse: “Farmaci sperimentali? Ma ti senti quando
parli, Alessandro?”
“Ho
visto i filmati in internet.”
“Che
filmati?”
“Un
mio amico me li ha fatti vedere, mi ha detto tutto. Un mio amico
medico.”
“Gesù
Bambino,” sbottò Fabio. “Ma di chi parli? Tu non hai amici
medici.”
“E
invece sì, su Facebook.”
Laura
e Fabio si scambiarono uno sguardo a metà fra l’impotenza e la
rabbia. Rizzelli fissò entrambi e in tono provocatorio disse: “Non
potete obbligarmi a fare niente, conosco la legge.”
“Hai
anche un amico avvocato, adesso?” lo provocò il fratello.
“Ne
ho molti,” replicò Rizzelli in tono di sfida, “quindi se fossi
in te starei bene attento a quello che faccio.”
Detto
questo, prese la porta e uscì.
$
Un’infermiera
si affacciò in sala d’aspetto. “La signora Vignali?” chiese.
Laura
si alzò in piedi.
“Venga,
signora,” la invitò la donna. “Il dottor Poli la vede subito.”
La
condusse in uno studio dall’arredamento spartano, dove qua e là
era stato appeso qualche poster di mostre d’arte per dare una nota
di colore.
Il
dottor Poli, che si alzò per andarle incontro, non portava il
camice, ma solo un tesserino identificativo appuntato al taschino.
Era un uomo sulla cinquantina, di altezza media, robusto, dai capelli
ancora castano scuro.
Le
strinse la mano e la invitò a sedersi.
Per
la mezz’ora successiva Laura, a tratti piangendo, a tratti
spargendo sulla scrivania fatture ed estratti conto, descrisse la
situazione.
Il
medico la ascoltò attento, prendendo appunti di quando in quando,
spedendo l’infermiera a fare le fotocopie dei documenti più
importanti. Infine chiese: “Lei è regolarmente sposata, signora?”
Laura
annuì.
“Allora
deve divorziare.”
La
donna, che aveva chinato la testa, la rialzò e fissò stupefatta il
suo interlocutore. “Cosa?”
“Deve
divorziare. E subito, anche. Deve tutelare la sua famiglia, prima che
suo marito la distrugga.”
“Che
intende dire?”
“Mi
ha detto che suo marito ha acceso due prestiti, giusto? Cos’ha
usato come garanzia, secondo lei?”
Laura
tacque.
“È
verosimile che abbia usato la vostra casa, signora?”
“Sì,
penso di sì,” sospirò lei. “È intestata a lui.”
“E
le sta pagando le rate? O si gioca anche quelle?”
Di
nuovo silenzio.
“Lei
finisce in mezzo a una strada, signora,” disse in tono duro il
dottor Poli. “Lei e le sue figlie.”
“Le
ragazze stanno da mia madre,” obiettò la donna.
Il
medico si limitò a un sospiro di esasperazione. “Il divorzio le
garantisce la separazione dei beni, l’assegnazione della casa –
non impugnabile dai creditori – e l’assegno di mantenimento.”
Laura
scosse la testa e rispose: “Lo so, ma Alessandro è mio marito, non
posso abbandonarlo.” Fece una pausa e in tono quasi speranzoso
soggiunse: “E poi, sono sicura che con un po’ di forza di volontà
e con il suo aiuto, dottore, smetterà di giocare.”
Poli
crollà il capo con l’aria di aver già sentito lo stesso discorso
decine di volte, poi spiegò: “Il denaro crea meccanismi di
dipendenza simili a quelli delle droghe, signora. Attiva i centri del
piacere, induce la produzione di dopamina. Suo marito non riuscirà
mai a rinunciarvi da solo.”
“Ma
qui non vuole venire.”
“È
proprio per questo che le suggerisco di agire per tutelare se stessa
e le sue figlie, signora Vignali. Se divorzia, passate da coniugi a
conviventi, cambiano tutti gli obblighi legali.”
“Lo
so, ma non me la sento, dottore.”
Come
se non l'avesse nemmeno sentita, imperterrito il medico proseguì:
“Contatti un avvocato, faccia partire anche la pratica per
l'inabilitazione temporanea.”
Laura
lo fissò annichilita. “Inabilitazione? Ma io non posso fargli una
cosa del genere.”
“Preferisce
vederlo diventare un barbone? Preferisce trovarsi lei stessa a vivere
con i pacchi della Caritas?”
“Io
ho un negozio,” protestò Laura, “posso mantenermi.” Non che
avesse mai usato la sua boutique in quel senso, ma nella necessità
era certa che avrebbe saputo farla fruttare.
Il
medico interruppe il filo di quei pensieri rassicuranti “È sicura
che suo marito non l'abbia già usato come garanzia per qualche
prestito?”
La
donna emise un sospiro: no, non ne era affatto sicura. Non era più
sicura di niente, per la verità.
Solo
pochi mesi prima Alessandro era il marito perfetto, affettuoso e dedito
alla famiglia... e ora?
La
voce del dottor Poli la richiamò alla realtà: “Mi
prometta che ci penserà, signora. È l’unico modo che ha per
salvare la sua famiglia. E poi tenga conto che tutelare il nucleo
significa anche tutelare la persona ammalata.”
Laura
arrivò a casa ancora immersa nei suoi pensieri. Durante il viaggio
di rientro aveva rimuginato sulle parole del dottor Poli ed era
giunta alla conclusione che separarsi o inabilitare Alessandro erano
misure troppo drastiche. In pratica l'avrebbe ucciso, l'avrebbe
spinto al suicidio. Non poteva fargli una cosa del genere.
Forse
quel medico era abituato a gente meno sensibile, oppure a persone con
lavori modesti, abituate ad avere pochi soldi.
Cos'avrebbe
fatto invece suo marito solo e inabilitato, con un curatore che
magari gli dava a malapena di che vivere?
Entrò
nell'ingresso, lasciò cadere il soprabito su una sedia e si guardò
intorno: ovviamente, l'unica luce accesa – di un colore azzurrato
da monitor – proveniva dalle scale della tavernetta.
Andò
giù.
Suo
marito, impegnato in una partita di videopoker, non alzò nemmeno la
testa.
Lei
si avvicinò. “Alessandro.”
L'uomo
fece come se non avesse neppure sentito.
“Alessandro,
per favore, dobbiamo parlare.”
“Lasciami
in pace. Sto guadagnando soldi anche per te.”
Laura
strinse i pugni, ma per il resto si obbligò a rimanere immobile.
“Dobbiamo parlare,” ripeté.
“Oh,
che palle!” sbottò a quel punto Rizzelli. “Ecco, sei contenta?
Stavo vincendo, ma per colpa tua ho perso la mano.” Spense con fare
teatrale il computer, quindi disse: “Avanti, sentiamo: cos'hai da
dirmi di così importante?”
“Dammi
il bancomat e le carte.”
L'uomo
scosse la testa. “Te l'ho già detto: scordatelo.”
“Alessandro,
se non me li dai, io chiedo il divorzio e mi rivolgo a un avvocato
per farti inabilitare.” Era decisa a non farlo, naturalmente, ma
forse la minaccia l'avrebbe convinto.
L'altro
però fece una risata. “Nientemeno! Mi fai inabilitare! E mi vuoi
anche chiudere in manicomio, già che ci sei?”
“Per
favore, dammi il bancomat. È meglio che lo tenga io, per il tuo
bene.”
“Per
il mio bene,” pigolò Rizzelli facendole il verso. “No, cara. Il
bancomat è mio e tu non ci metti le grinfie.”
Laura
fece un passo avanti. Si protese a prendergli le mani e disse: “Per
favore, fallo per Chiara e Serena.”
“Le
ragazze hanno già i loro soldi.”
“Ma
stai continuando a giocare, ti mangerai tutto un'altra volta.”
“Stavo
vincendo, prima che arrivassi tu a rompermi le palle.”
Senza
abbandonare le mani del marito, la donna replicò: “E quante volte
hai perso, invece? Alessandro, stai distruggendo tutto, le ragazze
non avranno più una casa, non potranno andare a studiare in America.
È questo che vuoi?”
Rizzelli
emise un sospiro. Distolse lo sguardo da quello della moglie, lo
fissò sullo schermo nero del computer e rispose: “Io voglio la
vita vera.”
“Amore,
la vita vera è qui, con me e le nostre figlie, nella nostra casa.”
L’uomo
sciolse le mani da quelle della moglie, si frugò in tasca, prese il
portafoglio e ne trasse il bancomat. Lo buttò sul tavolo. “Tieni.
Sarai contenta, adesso.”
“Le
carte di credito.”
Altre
due tessere seguirono la prima.
“Grazie,
amore. Grazie,” mormorò Laura fra le lacrime, ma Rizzelli non
l’ascoltava neanche più, assorto nel calcolare quanto potesse
valere la sua macchina al mercato dell’usato.
$
L’ingegner
Losi fissò l’uomo seduto di fronte alla sua scrivania. Barba di
due giorni, camicia spiegazzata. Addirittura una macchia, forse di
caffè, sulla cravatta.
Nessuno
avrebbe affidato la vendita della propria casa a un tipo del genere.
Eppure
ricordava Rizzelli come un uomo elegante, curato, che teneva
maniacalmente al proprio aspetto.
Lo
ricordava puntuale, soprattutto. Preciso. Uno che a fare bene il suo
lavoro ci teneva.
“Ultimamente
arriva spesso in ritardo, dottor Rizzelli,” gli disse.
L’uomo
annuì consapevole e rispose: “Lo so, ingegnere. Ma vede, non ho
più la macchina.”
L’altro
alzò stupito le sopracciglia. “Come mai?”
“Me
l’hanno rubata.”
“La
sua berlina? Quella a cui teneva tanto?”
Rizzelli
annuì di nuovo.
“Quando
gliel’hanno rubata?”
“Due
settimane fa, direi.”
“E
i Carabinieri non le hanno ancora fatto sapere niente?”
Con
una curiosa apatia, Rizzelli alzò le spalle e rispose: “Dicono che
potrebbero averla mandata in qualche paese dell’est.” Tacque e
rimase con lo sguardo fisso sul piano della scrivania.
Losi
lo fissò perplesso. “Come sta sua moglie?” gli chiese.
Per
un attimo l’uomo parve tentennare. “Mia moglie…? Ah, certo,
ingegnere. Mi scusi. Sono molto stanco ultimamente.”
“Come
sta? I medici sono riusciti ad arrivare a una diagnosi?”
Rizzelli
si strinse nelle spalle e non rispose.
L’ingegnere
ritenne opportuno non insistere. “Prenda un po’ di ferie,” gli
suggerì.
“Non
ce n’è bisogno, ingegnere.”
“Rizzelli,
non amo i giri di parole,” rispose allora Losi, indurendo appena la
voce. “Arriva in ritardo, è trasandato, si dimentica gli
appuntamenti. Io sono un uomo comprensivo, capisco quando un mio
collaboratore è in difficoltà, ma non tiri troppo la corda. Prenda
le ferie e si rimetta a posto, oppure cerchi un altro lavoro.”
Rizzelli
si ritrovò nel suo studio. Si passò una mano sul mento ispido, si
ravviò i capelli spettinati, poi infilò una mano in taca e ne
trasse un mucchietto scintillante. Lo fissò critico, chiedendosi
quanto ne avrebbe potuto ricavare in uno di quei posti dove si andava
a vendere l’oro per ricavare contanti.
Aveva
ripulito la cassaforte. Non c’era molto, Laura aveva la mania di
girare agghindata come un albero di Natale anche di prima mattina, ma
qualcosa aveva recuperato. Sorrise fra sé e sé al pensiero della
faccia che avrebbe fatto sua moglie alla vista del portagioie vuoto.
Goditi
il tuo bancomat, stronza, si disse, e poi uscì.
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Scese
dall’autobus e per prima cosa buttò in un cestino la multa che gli
avevano fatto perché viaggiava senza biglietto.
Lo
fece con noncuranza, come si sarebbe disfatto della carta di una
caramella, quindi proseguì verso casa con passo svelto.
Ogni
tanto si batteva sulla tasca, dove si trovavano numerose banconote
arrotolate, come per essere sicuro che ci fossero davvero.
Il
colpo grosso.
Era
arrivato, finalmente.
Solo
poche migliaia di euro, non certo quello che aspettava lui, ma
perlomeno era un inizio. Significava che le cose stavano cominciando
a girare nel modo giusto. Che aveva capito il sistema.
Palpò
di nuovo la tasca, trovandola piena del suo adorabile contenuto.
Sorrise fra sé e sé.
Percorse
il vialetto, entrò in casa e sentì il rumore di qualcuno che stava
piangendo.
Corse
in cucina, ma non c’era nessuno. “Laura?” chiamò.
Non
ci fu risposta.
Seguendo
il suono arrivò in salotto. Lì c’era sua moglie che piangeva
contro il petto di suo fratello Fabio. Sul tavolino c’era una
lettera aperta, riconobbe il logo della Easy Fin.
“Laura,
che succede?” chiese, ma aveva già visto parecchie missive di quel
genere nella sua carriera e sapeva bene cosa gli avrebbe risposto sua
moglie.
Fu
Fabio a parlare: “Vi portano via la casa.”
Egli
fece per replicare, ma l’altro in tono duro sibilò: “Pezzo di
stronzo. Io te l’avevo detto: andiamo dal dottore, devi curarti,
devi farti passare il vizio del gioco. Ma tu niente: sto benissimo,
siete voi quelli ammalati, guadagnerò un sacco di soldi. Hai visto
cos’è successo?”
Rizzelli
si batté sulla tasca con rabbia. “Eccoli qui, i vostri soldi!”
ribatté. “Ho vinto cinquemila euro, va bene? E questo è solo
l’inizio.”
“L’inizio,
Sandro? Questa è la fine. È la fine, capisci?”
“Macché
fine, fate il solito melodramma! Riscatterò questa casa del cazzo,
se ci tenete tanto, e poi me ne andrò dove si vive veramente!”
Fabio
scosse la testa. “Tu non vai da nessuna parte, abbiamo già
telefonato all’avvocato per le pratiche dell’inabilitazione. Se
non sei capace di fermarti da solo, dovrà provvedere qualcun altro.”
A
quelle parole, Rizzelli arretrò di un passo e rimase a fissare
alternativamente l’uno e l’altra. “Ah, molto bene,” disse poi
in tono sarcastico, “ma pensa un po’ cosa decidono di fare mio
fratello e mia moglie, cioè le persone che teoricamente mi
dovrebbero amare di più al mondo.”
“È
per il tuo bene, Alessandro,” balbettò Laura. “Non sei in te,
devi fermarti.”
“Ma
certo, non sono in me. Muori dalla voglia di ficcarmi in qualche
ospedale psichiatrico, vero? E intanto ti prendi anche i miei soldi.
En plein,
come si dice alla roulette.”
“Di
quali soldi stai parlando?” replicò la donna. Afferrò la lettera,
gliela sventolò davanti. “Di quali stramaledetti soldi stai
parlando? Non vedi che questi avvoltoi si prendono la nostra casa?”
“Sto
vincendo forte, la riscatto quando voglio.”
A
quel punto intervenne Fabio: “Ma di cosa stiamo parlando?
L’avvocato ha preso informazioni: hai acceso due prestiti, il
secondo dei quali con un tasso di interesse da usura, e non hai
pagato una rata! Ti sei giocato tutto! È ora che qualcuno ti fermi,
Sandro, per il tuo bene.”
Rizzelli
arretrò ancora. Di nuovo fissò alternativamente l’uno e l’altra.
Facce afflitte, di circostanza. Lacrime e buoni propositi.
Corse
in corridoio, staccò le chiavi della macchina di Laura dal gancio a
cui stavano attaccate e corse in garage.
Fabio
tentò di inseguirlo, ma l’unica cosa che poté fare fu saltare
bruscamente di lato per non farsi investire.
Rizzelli
guidava a tutta velocità, la destinazione era Portorose.
La
Fortuna era dalla sua, lo sentiva. Il fluido
non era mai stato così intenso. Si vide al tavolo da gioco, la
bionda da una parte e la mora dall’altra, a far saltare il banco.
Pensò
ai suoi familiari e subito fu assalito dalla rabbia. Stabilì che da
quel momento Fabio non sarebbe più stato suo fratello. Di Laura si
sarebbero occupati i suoi avvocati, dal momento che presto sarebbe
stato in grado di pagarsi i migliori sulla piazza.
E
poi finalmente avrebbe vissuto alla grande, come si meritava.
Una
selva di luci rosse, qualche lampeggiante blu: cento metri più
avanti il traffico era fermo, i veicoli tutti incolonnati. Piantò il
piede sul freno.
$
Seduta
nello studio del medico del reparto di traumatologia, Laura non
riusciva a smettere di piangere. Teneva un fazzoletto ormai fradicio
stretto fra le dita e continuava incessantemente a tormentarlo.
“Mi
dispiace, signora,” disse l’uomo. Si tolse gli occhiali dalla
sottile montatura d’oro, li appoggiò da una parte.
“Non
ci sono speranze?” chiese lei.
Il
medico sospirò. “Forse col tempo recupererà qualcosa, ma è
presto per dirlo. La lesione del midollo è troppo estesa.” Fece
una pausa, poi soggiunse: “Farò attivare l’assistenza
domiciliare, verrà tutti i giorni un’infermiera.”
La
donna alzò su di lui uno sguardo che sembrava chiedere aiuto. “Per…
fare cosa?”
L’altro
sfogliò la cartella, scorse la lettera di dimissione che a breve le
avrebbe consegnato. Tossicchiò. Infine si risolse a dire: “Per
l’igiene, il catetere… insomma, tutto ciò di cui un tetraplegico
può avere bisogno. L’indirizzo è quello che c’è sui
documenti?”
Laura
scosse la testa, un altro accesso di pianto la assalì. Singhiozzò
per un po’, e alla fine con voce flebile rispose: “No, adesso
stiamo in un appartamento che ci ha trovato l’ex collega di mio
marito.”
“Il
paziente dovrà avere una stanza dedicata. Sarà necessario
collocarvi il letto ospedaliero, il sollevatore e tutto il
necessario.”
“Le
mie figlie andranno a dormire nella stessa camera.”
“Può
permettersi una badante, signora?”
Laura
si tamponò gli occhi. “Sarà necessaria?”
“Temo
di sì.”
“Faremo
il possibile,” rispose la donna. “Io ho un negozio di
abbigliamento, mia figlia maggiore lavora con me, la minore sta
cercando qualcosa. Un po' ci aiuta anche il fratello di mio marito.”
Di nuovo strinse fra le mani il fazzoletto sgualcito, quindi
soggiunse: “Magari per un po' può stare Chiara a casa con
Alessandro, visto che non ha lavoro.”
Il
medico emise un sospiro, quindi suggerì: “Chieda anche
l'invalidità e l'accompagnamento, signora.” Spinse verso di lei un
foglio su cui erano stampati dei nomi e dei numeri di telefono.
“Questo è un patronato gratuito, le faranno tutte le pratiche. Le
produrremo un certificato da allegare, intanto le consiglio di
chiedere copia della cartella clinica.”
Si
interruppe. A ogni parola la signora Vignali sembrava diventare più
piccola, più fragile. Il suo sguardo sembrava quello di certi
bambini che aveva visto nei documentari sulla guerra in Siria.
“Mi
dispiace, signora,” ripeté.
Laura
si alzò in piedi. Il medico si sentì in dovere di alzarsi a sua
volta. Aggirò la scrivania e le prese la mano fra le proprie. “Mi
dispiace davvero tanto,” disse per la terza volta. Avrebbe voluto
dire altro, ma la situazione di quella donna era un tale dramma che
non riusciva a farsi venire in mente niente di meglio.
Laura
emise un sospiro e rispose: “Lo so, dottore. Voi avete fatto il
possibile, ringrazio tutti.”
Uscì
adagio dallo studio. Il medico si affacciò a seguirla con lo sguardo
e la vide allontanarsi a testa bassa, con le spalle curve, nel
corridoio ormai in penombra.
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