«Sì,
signora, capisco perfettamente cosa sta cercando di dirmi,
ma...»
«Non
ci sono “ma” che tengano, signorina!»
sbottò la donna strizzata
in un tailleur grigio, agitando le braccia e spandendo attorno a
sé
una nuvola di profumo floreale. «Sono in coda a quello
sportello da
due ore... anzi, no! Tre ore, ormai, visto che
sono
praticamente le dieci!»
Anna
si passò una mano sui capelli stretti in uno chignon
molto
professionale e lanciò un'occhiata a Giulia, sperando che la
sua
responsabile potesse accorrere in suo aiuto. La donna, però,
se ne
stava seduta al computer vicino alla finestra e digitava furiosamente
sulla tastiera, apparentemente immersa nel proprio lavoro e dunque
sorda a tutto ciò che la circondava.
Eh,
figuriamoci!
Pensò Anna, con una punta di fastidio. Doveva imparare a
cavarsela
da sola, certo, ma aveva iniziato a lavorare all'URP dell'Ospedale di
Lanzate da un mese soltanto e non era ancora capace di liquidare con
eleganza gli utenti più boriosi e insistenti. E la signora
con il
tailleur grigio era molto
insistente.
La
ragazza sospirò e si aggiustò gli occhiali sul
naso. «Come le ho
già detto, l'accesso agli sportelli è regolato da
un sistema
automatico...»
«Che
non funziona!» sbottò la donna, sbattendole sotto
il naso un
piccolo tagliando tutto stropicciato. «Lo vede?
C'è scritto P12, il
che significa che davanti a me c'erano soltanto undici persone:
com'è
possibile che ci vogliano tre ore
per fare undici prenotazioni?»
«Il
fatto è...» tentò di spiegare Anna, ma
la donna la interruppe di
nuovo.
«Sa
qual è il problema? Che chiamano tutte le altre lettere ad
eccezione
delle “P”!» sbottò, fissando
il foglietto di carta lucida come
se esso fosse la casa di tutti i suoi mali. «Chiamano sempre
e solo
le “A” e le “H”, ma le
“P” mai! Non è possibile che ci
vogliano più di tre ore per fare una prenotazione!»
La
ragazza fece per rispondere, ma la vibrazione del cellulare posato
sulla sua scrivania la distrasse per un istante. Da
quando
è così rumorosa? Si chiese,
leggermente a disagio.
«So
che...» Anna tentò di spiegare alla donna che le
stava davanti
quale fosse il funzionamento del sistema che regolava l'accesso agli
sportelli, ma il cellulare vibrò un'altra volta, e poi altre
due,
dando vita a un vero e proprio concerto di ronzii. Ma
chi
diavolo mi scrive? Si
chiese la
giovane, senza riuscire a evitare di compiere un mezzo giro su se
stessa e di lanciare un'occhiata dubbiosa alla scrivania.
«Vuole
andare a rispondere al telefono?» le chiese la signora in
tailleur,
sollevando un sopracciglio con aria derisoria.
La
ragazza si voltò di scatto verso di lei, resistendo a stento
alla
tentazione di rifilarle una risposta acida. «No, non
è necessario»
replicò, mordendosi la lingua. «Come le stavo
spiegando, c'è un
motivo, se la lettera “P” viene chiamata meno
spesso delle altre.
Vede? La “P” sta per prenotazione. La
“A” sta per
accettazione e le “H” vengono assegnate solo ai
pazienti che
hanno diritto all'accesso prioritario. Dal momento che le
prenotazioni possono tranquillamente essere fatte anche telefonando
al centralino o al numero verde regionale, allo sportello si
è
deciso di dare priorità a quegli utenti che non possono che
venir
qui di persona. Non dico che sia un sistema perfetto, ma ha una sua
logica, no?»
La
donna la soppesò con lo sguardo. «E allora
togliete la possibilità
di prenotare in ospedale e basta!» sbottò.
«Io ho preso due ore di
permesso dal lavoro: come lo giustifico, questo ritardo? Potrebbero
anche pensare che me ne sono stata in giro a farmi i fatti miei per
un'ora!»
Anna
soffocò un sospiro. «Non si preoccupi: la collega
allo sportello le
rilascerà un certificato che attesta che lei è
stata in coda per
più tempo del previsto.»
Anziché
placarla, quella risposta parve indisporre ancora di più la
signora
con il tailleur grigio. «Ah, perfetto!»
ringhiò, infatti,
stritolando tra le mani il tagliandino. «Quindi, se voglio
avere un
giustificativo di qualche tipo, devo restarmene in coda per altre due
ore? Devo buttare tutta la mattinata in sala d'aspetto?»
La
ragazza esitò, presa in contropiede.
«Be'...»
«Siete
degli incapaci!» esclamò la donna, alzando la
voce. «Non avete
rispetto per i cittadini!»
Anna
retrocedette di un passo, allontanandosi da quella furia
gesticolante. «Ehm... se vuole può fare
reclamo» si arrese,
afferrando uno dei modulo impilati su uno scaffale e offrendolo
all'utente.
Quella
glielo strappò di mano e lo squadrò velocemente.
«E chi la
leggerebbe, 'sta roba? Scommetto che la buttate via.»
In
realtà, quei moduli li leggo io e poi li trasmetto ai
reparti, pensò
la ragazza. Ma
'sta pur tranquilla che con le segnalazioni inutili come la tua ci
fanno gli aeroplanini di carta. «Ma
no», disse, invece, «tutte le segnalazioni vengono
prese in
considerazione: riceverà anche una risposta attraverso i
canali da
lei indicati.»
La
donna la guardò con diffidenza. «Sì, va
be'» disse, come se fosse
certa che Anna la stesse prendendo in giro. «Comunque questo
me lo
prendo comunque: tanto di tempo ne ho, se devo aspettare che si
decidano a chiamarmi!»
Quando
la signora se ne fu andata sbattendo la porta con malagrazia, Anna
tornò mestamente alla propria scrivania e si
lasciò cadere sulla
sedia girevole blu. «Che strazio»
sospirò, rivolgendosi a Giulia.
«Certa
gente è proprio cretina» replicò la
donna, senza nemmeno
distogliere gli occhi dallo schermo del suo PC. «Ti diamo la
possibilità di prenotare le visite senza nemmeno dover
alzare il
culo dal divano di casa: e fallo, no? Se invece provi l'insano
desiderio di venire a rompere il cazzo alla gente di persona, almeno
non lagnarti se devi fare la coda.»
Anna
non commentò e si lamentò a inarcare le
sopracciglia: non riusciva
a capacitarsi di come una persona bellicosa e poco empatica
come Giulia fosse finita a lavorare proprio all'Ufficio Reazioni con
il Pubblico di un ospedale. Almeno questa qui
non aveva un
problema grave,
si consolò,
prima di allungare una mano verso il cellulare, incuriosita dalla
serie di messaggi che aveva ricevuto poco prima.
Oh,
sono notifiche di Facebook,
notò con un brivido di entusiasmo. Ancor prima di aprire il
messaggio, la ragazza si lasciò sfuggire un ampio sorriso:
Sabrina
aveva accettato la sua richiesta di amicizia. E
mi ha anche scritto qualcosa!
Anna
dovette rileggere più volte ciò che la sua amica
d'infanzia le
aveva scritto: l'emozione di essere riuscita a ristabilire un piccolo
contatto con il suo passato era tale che i suoi occhi stentavano a
soffermarsi sulle singole parole e tendevano invece a correre subito
verso la fine della frase.
Vuole
che ci incontriamo,
comprese, abbassandosi un poco sulla scrivania per evitare che Giulia
notasse il sorriso ebete che le si era disegnato sulle labbra e le
facesse qualche domanda alla quale non aveva intenzione di
rispondere, almeno per il momento. Mentre leggeva e rileggeva il
messaggio inviatole da Sabrina, sentiva risuonare nella sua testa la
voce che la ragazza aveva avuto da bambina: le diceva che era
felicissima di saperla nuovamente a Lanzate e le proponeva di
trovarsi per un aperitivo il giorno seguente – o quello dopo
ancora
– presso il Caffé
Excalibur,
storico locale che
sorgeva in un angolo della piazza più grande del paese.
Aveva già
avvisato anche Esther, che da quando era diventata mamma non usava
più Facebook, ma che
sarebbe stata ben contenta di rivederla.
Esther
ha avuto un bambino,
pensò Anna scombussolata. L'idea di rivedere lei e Sabrina
le fece
correre un improvviso brivido nervoso lungo la schiena: e se gli anni
che avevano passato lontane le avessero rese troppo diverse per
essere ancora amiche? Oh,
ma cosa sono questi dubbi da bambina dell'asilo!
Si riprese, impugnando saldamente il cellulare e digitando un
messaggio in risposta a quello di Sabrina. Domani
va
benissimo,
pensò, mentre il
dito tracciava quelle stesse parole sullo schermo luminoso. Tanto
non è che abbia chissà quali impegni extra
lavorativi!
Quando,
quella sera, rientrò nel proprio appartamento, Anna si
sentiva
decisamente rilassata e di buon umore. In ufficio non erano arrivati
altri utenti molesti come la signora che non voleva fare la coda allo
sportello e la mattinata grigia e uggiosa si era dissolta in un
limpido pomeriggio autunnale, con un cielo terso e una brezza mite
che sapeva quasi ancora un po' d'estate. È un buon
momento per
sistemare questi e per dare una spazzata al giardino,
pensò
Anna, recuperando dal bagagliaio del Panda la cassettina di ciclamini
che la zia Clara aveva voluto rifilarle a tutti i costi.
Una
volta entrata in casa, Anna salutò le sue due gatte e poi
corse in
camera a cambiarsi, abbandonando i jeans attillati e la camicetta in
favore di una meno elegante ma assai più comoda tuta da
ginnastica
color verde salvia che possedeva da almeno una dozzina di anni.
Semplicemente agghiacciante, si disse, lanciando
un'occhiata
distratta allo specchio a figura intera che aveva sistemato accanto
all'armadio. Ci mancava solo la toppa dei Ramones a
metà coscia,
per completare l'opera!
Decidendo
che la sua tenuta casalinga era perfetta per il giardinaggio, la
ragazza marciò verso il salotto e poi raggiunse la
portafinestra che
dava sul giardino, portando con sé i ciclamini e sperando
che i
piccoli e resistenti fiori invernali fossero in grado di dare una
nota di colore a quel fazzoletto di terra altrimenti spoglio.
«Volete
venire anche voi, signorine?» chiese, notando che Calliope
l'aveva
seguita e ora indugiava sull'uscio, incerta se posare o meno le
zampette sull'erba un po' troppo alta. Dietro di lei, Anna poteva
vedere l'ombra nera di Cassandra che, come suo solito, aspettava che
la sorella facesse la prima mossa.
Quasi
come se fossero in attesa di un qualche tipo di permesso, le due
bestiole parvero prendere coraggio e trotterellarono all'aperto,
frustando l'aria con le code e osservando con fare guardingo
l'ambiente che le circondava.
Oh,
a proposito! Lasciando ricadere a terra il rastrello che
Paolo,
appassionato di giardinaggio, le aveva regalato il giorno stesso in
cui aveva scoperto che Anna avrebbe avuto un paio di metri quadri di
prato di cui prendersi cura, la ragazza si avvicinò alla
recinzione
che separava il suo giardino da quello di Oleksander. Mi pare
che
il simpaticone non sia ancora tornato a casa, si disse,
posando
quasi di soppiatto le mani sul reticolato metallico che, nelle
intenzioni di chi aveva disegnato le villette bifamiliari, avrebbe
dovuto essere ricoperto da uno spesso intreccio di gelsomino, ma che
era in realtà ancora piuttosto spoglio. Ma il suo
cane dov'è?
Durante il giorno lo tiene in casa o lo lascia in giardino?
Premendo
la fronte contro la rete rigida, Anna cercò di spiare come
meglio
poteva lo spazio che si apriva al di là di essa. Riusciva a
scorgere
un prato ordinato, un tavolino di plastica sistemato a ridosso del
muro, qualche pianta aromatica e la ciotola metallica che per prima
aveva attirato l'attenzione del suo fratellastro. Tutto era
però
immobile e silenzioso, chiaro segnale del fatto che il giardino era
disabitato.
Rinfrancata,
Anna si staccò dalla rete e si voltò verso le sue
gatte. «Via
libera, ragazze» disse, come se fossero in grado di
comprendere le
sue parole. «Il nemico non c'è. Però
non allontanatevi, che non si
sa mai.»
Per
la mezz'ora successiva, la ragazza si dedicò completamente
alla cura
del suo piccolo giardino. Sistemò e risistemò
più volte i
ciclamini sui davanzali, rendendosi conto solo al secondo tentativo
che era necessario posizionare un sottovaso di plastica sotto i
singoli vasetti per evitare che l'acqua in eccesso scivolasse via e
macchiasse il muro. Con l'aiuto del rastrello, radunò le
foglie che
la betulla che cresceva appena al di là della recinzione
metallica
aveva generosamente sparso per tutto il prato e poi recuperò
una
vecchia scopa di saggina spelacchiata – dono della zia Clara
– e
spazzò i pochi metri di pavimentazione di cemento che si
estendevano
davanti alla portafinestra.
Quando
ebbe radunato un discreto mucchietto di foglie gialle e secche, Anna
abbandonò la scopa a terra e lo squadrò con aria
critica. Adesso
mi serve qualcosa in cui buttarle. Che sacco si usa per le foglie? Va
bene il sacco nero o ce ne vuole uno speciale? Decidendo che,
per
quella volta, avrebbe utilizzato un normalissimo sacco nero e
confidato nella clemenza del netturbino, la giovane tornò in
casa
con passo rapido.
Mentre
era inginocchiata a terra, con la testa immersa nell'armadietto posto
sotto il lavello nel tentativo di reperire un sacco della spazzatura,
dal giardino giunse una sorta di grido che le fece balzare il cuore
in gola. Anna trasalì e si affrettò a rimettersi
in piedi,
imprecando tra i denti quando il suo ginocchio colpì
dolorosamente
lo spigolo dell'anta dell'armadietto.
Cosa
diavolo sta succedendo?
Si chiese, precipitandosi fuori. Mentre stava per sorpassare la
portafinestra, incespicò in Cassandra che, simile a un lampo
nero,
si stava rifugiando in tutta fretta in casa. Sentendosi travolta, la
gatta soffiò e si fiondò sotto il divano, mentre
Anna inciampava
nei suoi stessi piedi, con il rischio di cadere lunga e distesa
sull'erba.
Riuscendo
a rimanere in equilibrio per puro miracolo, la ragazza si
fermò nel
centro esatto del giardino respirando affannosamente. Dov'è
Calliope? Si
chiese, guardandosi
attorno con apprensione crescente. La risposta non tardò a
palesarsi. Il grido che l'aveva fatta sobbalzare poco prima si
ripeté
e, voltandosi quasi al rallentatore verso sinistra, Anna si
trovò di
fronte a una scena che le fece ghiacciare il sangue nelle vene.
Approfittando
della sua breve assenza, Calliope era sconfinata nel giardino del
tipo dell'Audi e ora era addossata al muro, con il pelo irto, la
bocca spalancata e un'espressione omicida negli occhi giallo-verdi.
Soffiava, ringhiava e emetteva minacciosi miagolii al tempo stesso
rochi e acuti, nell'evidente tentativo di rendersi terrificante agli
occhi dell'avversario. Davanti a lei, immobile e rigido come una
statua, c'era il cane più brutto che Anna avesse mai visto:
era
enorme, alto sulle
zampe e con una testa troppo piccola rispetto al corpo dinoccolato.
Aveva il sedere più alto della groppa, il che dava
l'impressione che
fosse come ingobbito e portava la coda vaporosa pudicamente raccolta
tra le zampe posteriori. Aveva il pelo candido e riccio di un
agnello, il muso allungato e irto di denti di un coccodrillo e la
stazza di un vitello – o così almeno parve ad
Anna, in quegli
attimi pieni di panico.
«Calliope!»
gridò, lanciandosi d'istinto contro la rete e tentando di
allungare
le braccia attraverso di essa, come se potesse afferrare la gatta
nonostante i metri che le dividevano.
Quel
richiamo lasciò del tutto indifferente il felino, che non
diede
cenno di averlo udito, ma catturò per un istante
l'attenzione del
cane, che voltò il muso nella sua direzione e
squadrò Anna con un
paio di occhi neri, tondi e curiosi. «Va' via!» gli
ingiunse lei,
cercando di adottare un tono di voce perentorio.
«Via!»
Quell'ordine
non sortì il risultato sperato e quella specie di mostro
lanoso
finse di balzare su Calliope, limitandosi però ad abbassarsi
sulle
zampe anteriori, innalzando il sedere al cielo e liberando la coda
all'indietro, come se l'intera situazione non fosse altro che un
magnifico gioco. Per tutta risposta, la gatta sferrò un paio
di
zampate all'aria e poi saltò all'indietro, arrampicandosi in
qualche
modo sulla grondaia che scendeva lungo il muro, agile e velocissima.
Il cane si lanciò subito al suo inseguimento, ma nonostante
fosse
davvero molto alto, dovette limitarsi ad alzarsi sulle zampe
posteriori e a posare quelle anteriori sul muro, senza riuscire
però
a raggiungere Calliope.
Aggrappata
al minuscolo filo d'edera che cresceva a ridosso della grondaia di
rame, la gatta soffiò di nuovo, ma ora pareva in
difficoltà: non
poteva scendere, ma non riusciva nemmeno a salire più in
alto.
Ah,
merda!
Pensò Anna, con le mani che le sudavano a causa della
tensione. Che
cosa faccio? E da dov'è spuntato quel coso? Prima non c'era!
Rendendosi
conto che qualcuno doveva per forza aver fatto uscire il cane,
probabilmente mentre lei era impegnata a pulire il giardino, la
ragazza si aggrappò nuovamente alla rete, resistendo alla
tentazione
di scavalcarla e di andarsi a riprendere personalmente la sua gatta.
«Ehi!» gridò con quanto fiato aveva in
gola. «Il cane! Tenetelo
un attimo!»
Udendo
le sue grida, il cane in questione si voltò a guardarla e
poi abbaiò
un paio di volte in direzione di Calliope, facendo riecheggiare
contro le facciate delle villette i suoi latrati metallici.
Anna
si sentì sul punto di piangere per la frustrazione, ma,
proprio in
quel momento, il proprietario dell'Audi comparve in giardino,
evidentemente attirato dal rumore.
Doveva
essere appena rincasato dopo una giornata lavorativa e, proprio come
nelle aspettative della ragazza, indossava una camicia bianca, dei
pantaloni scuri e una cravatta discreta. La giacca doveva essere in
casa, ordinatamente riposta su una gruccia. «Il tuo
cane!» sbraitò
Anna, senza perdersi in convenevoli. «Vuole mangiarsi la mia
gatta»
Sul
volto dell'uomo c'era un'espressione confusa e anche un po' seccata,
ma quelle parole parvero metterlo in allarme. Con un'occhiata veloce
inquadrò la situazione e poi si lanciò sul cane,
afferrandolo per
il collare a due mani e stringendolo tra le gambe, costringendolo a
rinculare. «Yaroslav: no!» scandì, con
voce secca. L'animale
appiattì ulteriormente le orecchie contro il cranio e
guardò il
volto del padrone, leccandosi rapidamente il muso: nonostante la
distanza, Anna riuscì a vedere un'espressione di pentimento
passare
nei suoi occhi scuri. Calliope, però, scelse proprio quel
momento
per scivolare qualche centimetro lungo la grondaia, attirando
nuovamente l'attenzione del cane, che sgroppò nel tentativo
di
liberarsi dalla presa del padrone, rischiando così di
mandarlo a
gambe all'aria.
«No!»
ripeté l'uomo, strattonando nuovamente il cane per
distoglierlo
dalla gatta. «Basta! Vai sul tuo cuscino!»
L'animale
parve processare quello che gli era stato detto e levò
lentamente il
muso, osservando il volto del padrone con espressione ferita e
vagamente accusatoria. Oleksander lo liberò dalla presa
delle sue
gambe, ma con una mano continuò a trattenerlo per il
collare. «Sul
cuscino, ho detto!» ribadì, puntando un dito verso
il suo
appartamento. «Forza!»
Con
un'ultima occhiata di rimpianto in direzione di Calliope, il cane
trotterellò con passo sorprendentemente leggero ed elegante
verso la
portafinestra, la coda nuovamente ripiegata tra le zampe.
Dall'altra
parte della rete, Anna aggrottò la fronte, vagamente
impressionata.
Però, considerò, la
bestiaccia è obbediente. Peccato che
lo stesso non valga per il mio demone tricolore.
Oleksander
chiuse la porta che garantiva l'accesso al suo giardino, poi si
voltò
verso Anna, incrociando le braccia davanti al petto. «Si
può sapere
cosa ci fa il tuo gatto nel mio giardino?»
Contro
le sue migliori intenzioni, la giovane si ritrovò ad
abbassare lo
sguardo. «Deve aver scavalcato la rete proprio nel momento in
cui io
sono entrata in casa» disse, avvertendo un vago calore
all'altezza
delle guance. Ti prego, dimmi che non sto arrossendo!
«Ehm...
scusa. Di solito non fa queste cose» mentì,
soprassedendo sul fatto
che erano in realtà ben poche, le cose che Calliope aveva la
creanza
di non fare.
L'uomo
la soppesò con i suoi occhi di ghiaccio e Anna dovette
mordersi le
labbra per evitare di sbuffargli in faccia. D'accordo, era
effettivamente accorso in suo aiuto e aveva salvato la sua gatta da
un incontro ravvicinato con le zanne del cane, ma il suo modo di fare
aveva un che di indisponente e antipatico.
Senza
dire una parola, Oleksander si avvicinò alla grondaia.
«Dai, forza»
disse, alzando gli occhi verso la gatta, che si trovava una ventina
di centimetri più in alto rispetto alla sua testa.
«Scendi.» Così
dicendo, l'uomo allungò una mano in direzione del felino,
forse per
convincerlo a lasciare la presa dal ramo di edera, ma Calliope
soffiò
e gli sferrò una fulminea zampata ad artigli spiegati.
Dio,
che vergogna, pensò Anna, coprendosi il volto con
una mano.
Oleksander
balzò indietro e si esaminò la mano, che pareva
miracolosamente
illesa. Poi si voltò nuovamente verso la vicina di casa,
puntandole
addosso uno sguardo d'accusa. «Ho cambiato idea: vieni qui
tu, a
riprendertela!» sbottò.
Anna
esitò, presa in contropiede. Doveva andare in casa sua? Ma
nel suo
appartamento c'era Yaroslav: anche se non aveva mai
avuto
paura dei cani, era comunque vagamente preoccupata dalla prospettiva
di trovarsi a tu per tu con un esemplare tanto grosso.
«Forza»
la spronò Oleksander, con una profonda ruga tra gli occhi
chiari.
«La tengo d'occhio, ma tu muoviti, che poi ho altro da
fare.»
Annuendo,
Anna corse in casa, schivò Cassandra che, nel frattempo, era
riemersa dal suo nascondiglio e uscì sul vialetto,
raggiungendo poi
la porta della casa di Oleksander. Posando la mano sulla maniglia, la
ragazza levò brevemente gli occhi al cielo. Ti
prego, Madonnina,
fa che il cane-coccodrillo non decida di mangiare me, visto che non
ha potuto assaggiare Calliope.
Aprendo
cautamente la porta, la ragazza si introdusse nell'appartamento del
vicino di casa, che aveva fortunatamente la stessa struttura del suo.
La prima stanza era vuota, ma lì, dietro il muretto che
separava il
salotto dalla sala da pranzo, c'era un grosso cuscino rosso decorato
con dei minuscoli ossetti bianchi: su di esso era acciambellato
Yaroslav il cane, il naso affondato nella vaporosa coda bianca e
un'espressione di afflitta desolazione dipinta negli occhi scuri.
Vedendola comparire nel suo regno, l'animale mosse appena gli occhi,
ma tanto bastò ad Anna per sentirsi giudicata e studiata.
Notando
che lo sguardo del cane seguiva ogni suo movimento, la giovane
affrettò il passo e raggiunse il giardino, chiudendosi la
porta alle
spalle e rivolgendo un sorrisetto di circostanza a Oleksander.
Ora
che si trovava vicino a lui, si sentiva quasi a disagio. Decisa a
ridurre al minimo la durata di quella situazione scomoda,
puntò
decisa verso Calliope. «Va bene, Calli: vieni
giù» le disse con
dolcezza.
Dall'alto
del suo rifugio di metallo ed edera, la gatta la puntò con i
suoi
occhi lunari e poi strizzò appena le palpebre, come per
dirle che
l'aveva riconosciuta e che era tutto sommato felice di vederla
lì.
«Brava micia» mormorò Anna, alzandosi
sulla punta dei piedi per
sfiorare il pelo folto e morbido della gatta. «E adesso
andiamo»
disse ancora. Estendendosi quanto più poteva,
portò una mano sotto
le ascelle di Calliope e tentò di sollevarla, sperando
così di
convincerla a lasciare la presa. La bestiola, però, rimase
abbarbicata al tronco dell'edera con le zampe anteriori, mentre
quelle posteriori si agitavano nell'aria, cercando di ritrovare un
appoggio stabile. Nel suo scalciare, la gatta spinse indietro il
polsino della tuta di Anna e i suoi artigli graffiarono la pelle
delicata del polso della ragazza, due strisce rosse sulla pelle
bianca, solcata da vene azzurrine.
«Ahia!»
sibilò Anna, lasciando subito andare la gatta.
Destabilizzata,
Calliope atterrò morbidamente a terra, poco distante dai
piedi della
sua padrona. Dopo un'energica scrollata, trotterellò verso
la rete
divisoria, la superò con una velocità
preoccupante e andò a
sedersi in buon ordine davanti alla portafinestra dell'appartamento
della ragazza.
Disgraziata,
pensò la giovane, portandosi istintivamente il polso alla
bocca e
succhiando via le goccioline di sangue che erano comparse sulla
pelle. Lo
sapevo, io, che dovevo prendere il maschietto, quello bianco e nero
con l'occhietto un po' storto. Sicuramente sarebbe stato meno
stronzo.
Qualche
istante più tardi, Anna divenne consapevole del fatto che
Oleksander
la stava osservando. «Mh?» gli chiese, abbassando
il braccio e
asciugando il polso nella stoffa dei pantaloni della tuta.
«La
tua gatta si chiama Calli?» le chiese,
con quello che
sembrava uno stupore genuino.
Aggrottando
la fronte, la ragazza si rese conto in quel momento di quanto poco
grazioso fosse il diminutivo con cui era solita riferirsi alla
bestiola. Le scappò un sorriso. «No, no: si chiama
Calliope.
“Calli” è solo un diminutivo. Ho anche
un'altra gatta che si
chiama Cassandra, “Sasà” per gli
amici.»
«Ah»
fece l'uomo, in un tono piatto che faceva intuire il suo scarso
interesse per l'argomento. «Cerca di non farle entrare nel
mio
giardino: Yaroslav è un cane da caccia e tende a inseguire
tutto ciò
che si muove. E, poi, non voglio che vengano a scavare nel mio
prato.»
Piccata
da quell'osservazione che aveva quasi il sapore della minaccia, Anna
annuì rigidamente. «Farò il
possibile» replicò con sussiego.
«Buona serata.»
Così
dicendo, la giovane cercò gli occhi dell'uomo in una sorta
di
dimostrazione di forza, ma appena li trovò, così
freddi e limpidi,
sentì che qualcosa nel suo stomaco faceva una capriola. Non
era mai
stata brava a mantenere il contatto visivo: perché si era
messa in
quella situazione? E Oleksander, invece, sembrava non avere problemi
di alcun tipo: sosteneva il suo sguardo senza tradire alcun segno di
nervosismo e, anzi, sulle sue labbra c'era quasi l'ombra di un
sorriso.
Sta
ridendo di me? Si
chiese la ragazza, aggrottando la fronte indispettita. Per una
frazione di secondo, lo sguardo dell'uomo scese più in
basso, sulla
sua tuta larga e rovinata, con la sua toppa e le ginocchia che erano
ormai sporche di terra, e Anna non dovette faticare per capire che
cosa stesse pensando. Oh,
ma vai al diavolo, razza di damerino! Pensò,
arricciando le labbra in una smorfia di disgusto. «Buona
serata»
ripeté, prima di aggiungere, sibilando tra i denti:
«Spero che il
tuo cane non sia aggressivo, altrimenti mi ripaghi come
nuova.»
Il
mezzo sorriso sul volto dell'uomo si trasformò in un sorriso
vero e
proprio. «Non ti preoccupare, il mio cane mangia solo roba super
premium: non
rientri nella sua
dieta, credo.»
«Simpatico»
replicò Anna, acida, resistendo a stento alla tentazione di
mostrargli il dito medio.
Senza
aggiungere altro, girò sui tacchi e rientrò
nell'appartamento
dell'uomo, attraversandolo a passo di carica. Yaroslav pareva essersi
assopito sul suo cuscinone e al passaggio della ragazza si
limitò ad
aprire un occhio appannato dal sonno.
Anna
sogghignò, notando che nel suo sguardo nero c'era
più simpatia che
in quello grigio del suo padrone.
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