E arrivò col canto della neve d'inverno
I
|
L’uomo
cacciato dal tempo
1.
È l’inverno del ‘36 quando Bucky lo
trova. Il freddo ha zanne aguzze quell’anno e la strada da
percorrere è ancora lunga.
Lui è un cane abbandonato sul
ciglio, sporco di neve e ubriaco di tempo.
«Che… anno è?»
L’ha visto alzarsi e traballare. Una
torre storta, un pilastro di marmo e muscoli strizzato in una tuta
ridicola, in grado appena di mettere una gamba avanti all’altra.
A colpirlo sono stati i capelli
biondi, due fanali come occhi e ciglia lunghe su cui gli unici
fiocchi bianchi di tutta New York s’adagiano danzando.
All’improvviso non sembra più un povero bastardo rifiutato da Dio e
scaricato in un vicolo, ma una divinità affiorata dall’inverno. Ha vinto la fisica, ricorda ancora
come stare in piedi – più guarda Bucky, anzi, più le gambe si
muovono con un proposito.
«Finalmente…»
Mani pesanti gli spremono le spalle e
Bucky non osa muoversi.
«Ti ho ritrovato.»
2.
Gocce sciolte di neve imperlano la
fronte ghiacciata dello sconosciuto.
Bucky credeva sarebbe stato investito
da un tanfo che ben conosce – alcol, sudore e l’odore di suo padre
quando rincasa tardi solo per far assaggiare la cintura ai suoi
figli. Invece l’uomo odora di fresco e di buono e di…
No!
Grugnisce un insulto, solleva le
braccia e spintona le spalle sconosciute, anche se è come
prendersela con un muro: non c’è mattone che si smuova.
«Hai intenzione di levarti o…»
O.
L’uomo stringe (non fa male, ma c’è
un intero treno carico di disperazione che deraglia addosso a Bucky
e lui, semplicemente, non è preparato), lo guarda – bagnato di
neve e ammantato di notte – e, rispondendo a un richiamo dipinto
sulla bocca d'un ragazzo appena incontrato, lo bacia.
L’incastro delle labbra è perfetto.
Il gancio sinistro che Bucky gli tira senza
pensarci due volte, fa più male a lui.
3.
«Scusa.»
«No.»
Bucky è davanti – passo spedito, dita
strette nella gemella e fiato corto. Vorrebbe seminarlo, ma non ha
gambe abbastanza lunghe.
L’altro gli è dietro, un cane fedele a
protezione del padrone. Tende un braccio, gli sfiora il polso, ma
Bucky strattona e prosegue – e strizza via l’imbarazzo come acqua da
una spugna.
«Fa ancora male?»
«Tu cosa credi?» Bucky accelera il
passo. Scappa.
Alle proprie spalle non s’aspetta il
tonfo.
Si volta e spalanca uno sguardo
d’apprensione – nasce naturale, come fosse abituato da sempre a
preoccuparsi di quell’uomo.
( forse è così )
«Per l’amor di Dio, Steve, a che ti
serve un corpo nuovo se poi lo maltratti peggio del vecchio?»
«Quindi mi credi?»
«Nessuno sano di mente inventerebbe
una tale idiozia. E poi… potrei riconoscerti perfino se fossi nel
corpo di un San Bernardo.»
«Allora perché sei scappato?»
Bucky china il capo, nuovo a certi
imbarazzi.
Sulle labbra è rimasto il sapore di un
bacio rubato.
4.
«Ce la fai ad alzarti?»
Nella neve le impronte di Bucky si
muovono in due direzioni: torna accanto a Steve, s’inginocchia e
stringe il bavero della sua tuta.
A nessuno dei due è stato permesso
d’assistere all’Allunaggio[1],
e ora eccomi qui: un astronauta sbarcato dal futuro che ha
finalmente raggiunto la sua Luna. Cosa significhi Bucky non l’ha
compreso ma, quando l’aiuta a mettersi in ginocchio, non ha nemmeno
più importanza.
Contano solo le braccia di Steve che
risalgono le sue spalle, conta il suo sguardo che si lucida di
lacrime non piante e conta la sua fronte poggiata al petto del
ragazzo.
«Dammi solo un attimo.»
«Prenditi il tempo che ti serve,
buddy.» Bucky affonda dita tra i suoi capelli.
Dov’è lo Steve che conosce? Fragile
nel corpo, ma testardo come un mulo.
Lo abbraccia e nasconde la vergogna,
perch’è così che lo vorrebbe sempre: bisognoso di averlo accanto.
5.
Bucky ricorda serate passate col peso
di Steve sulle spalle, braccia ossute intorno al collo e un respiro
rotto ansimato all’orecchio.
(Dimmelo se sei stanco Buck, posso
camminare. Ce la faccio. Dimmelo.)
Non pesava niente il suo
Steve.
Ora, invece, che lo sostiene accanto a
sé, non arriva a stringergli il fianco opposto.
E pesa.
Lui e i suoi fottuti muscoli.
Lui e un fottuto secolo sulle spalle.
E i suoi capelli che gli sfiorano la
fronte. E il suo bicipite contro la guancia. E l’altra mano che
stritola il giaccone e preme il palmo al suo addome – il suo
calore attraversa ogni strato di stoffa.
«Questo tuo amico…» si distrae.
«Tony.»
«È qui anche lui?»
«Non lo so, quando il raggio del
Chitauro ci ha colpiti siamo stati separati. Forse lui è riuscito ad
arrivare a destinazione.»
Tutto di quel racconto sembra
finzione.
Eppure Bucky preme la mano al fianco
di Steve e mai gli è parso così solido.
6.
Steve si è fermato in mezzo alla via;
a ingoiarli la notte e il silenzio. E la neve scende da un cielo che
l’uomo non conosce più.
A capo sollevato e occhi socchiusi, i
fiocchi si posano sul suo naso e quasi chiedono il permesso di
sciogliersi sulla sua pelle.
Steve è un quadro. Anche se Bucky
capisce poco d’arte, non serve un esperto per riconoscere un
capolavoro; si morde il labbro e stringe così forte il fianco
dell’uomo, da graffiarlo senza accorgersene.
«Eri perfetto anche prima.» La frase
spinge per essere pronunciata.
Steve lo guarda e Bucky non può
credere si sia stupito, non può credere che l’altro (un Bucky
ch’è cenere spersa in un vento che verrà) non gliel’abbia mai
detto. «Lo eri. Lo sei.»
Steve sorride, sulle labbra
risplendono cristalli d’acqua.
Bucky, troppo giovane per temere i
tamburi di battaglie future, è orgoglioso di sapere che un giorno,
lontano da quell’inverno, sarà l’uomo che glieli leccherà via.
II
|
Il
riflesso di uno specchio scheggiato
7.
«Lascia parlare me.»
Ma la porta si apre s’un broncio
infreddolito e una zazzera di capelli biondi spettinati e, di
parole, Bucky non ne trova.
«E quello chi è?» Occhi azzurro
pastello fissano uno sguardo identico (eppure così in alto).
«Sorpresa?»
«Buck, non fingere che sia un diavolo
di randagio.» All’uomo, invece: «Si sente bene? Non ha una bella
cera.»
L’uomo tace. L’ha già fatto, ha già
incontrato se stesso, l’ha combattuto nemmeno un’ora fa. Eppure
guardando il volto scavato di quel minuscolo ragazzino, non è più
sicuro della propria identità, della propria unicità. Si
sente la copia contraffatta dell’ometto malandato e malnutrito che
era, un falso messo innanzi all’originale, che non ha speranza
alcuna di superare la prova a carbonio.
Beccato.
«Mi sente?»
«Steve?»
«Come l’hai chiamato?»
Bucky entra, porta con sé Steve, la
neve e un futuro ch’ancora brucia negli occhi dell’uomo.
«È meglio che ti sieda.» Sorride
delicato (la guerra non l’ha ancora sfiorato). «Tutti e due.»
8.
Bucky vede doppio e distorto e non ha
nemmeno toccato un goccio della bottiglia di brandy rubata a suo
padre c’ha portato dai Rogers, per tenersi al caldo insieme a Steve.
Anche se ora a riscaldare la cucinotta
c’è una stufa e un uomo di troppo – Steve (il suo piccolo fagotto
tutt’ossa) lo guarda, cerca in lui se stesso e non si trova.
Bucky siede di fronte a loro e sa dove
guardare, segue l’ago di una bussola che punta all’amico e lo trova
in entrambi.
Ad ogni occhiata. Sempre.
Il ragazzino biondo serra i denti.
«Con che coraggio ti presenti a lui dopo averlo lasciato morire?»
«Per la miseria, Stevie!»
«No, ha ragione.» L’uomo – il Capitano
– ha la stessa identica espressione rabbiosa, lo stesso angosciante
senso di colpa che ha iniziato a consumare vene troppo sottili d’un
ragazzino emaciato.
Bucky serra i pugni.
«Hey, cretini, io sono ancora
qua.»
9.
«Siediti, Stevie. Sembri un
uccellaccio del malaugurio.»
Una smorfia, la voce appesa a un filo
«Sto bene in piedi.»
Bucky lo raggiunge, strattona i lembi
ruvidi della coperta che lo avvolge; in silenzio lo rimprovera. Sa
che mente, che le ossa gli tremano sotto la pelle, che il suo corpo
si ribella a una volontà che non è mai abbastanza.
E non è l’unico a saperlo.
«Avevo dimenticato che bel da fare ti
dessi a quell’età.»
Stevie gonfia il petto, è un galletto
spennacchiato e impertinente – la statura sarà corta, ma la lingua è
lunga (e lui, forse, un po’ troppo geloso): «Non
provarci, hai già avuto la tua possibilità con Bucky. Questo è il
mio migliore amico.»
Bucky lo guarda interdetto, finché non
realizza. Non c’è al mondo ragazzo più generoso di Steve, ma con se
stesso è un giudice spietato che ha già emesso la propria sentenza.
Colpevole.
10.
Un colpo di tosse. Stevie storce il
naso e potrebbe chiamarlo karma. Bucky, invece, vede il principio di
una polmonite convocata dal freddo e, nervoso, raggiunge la stufa;
attizza il fuoco e guarda malevolo una scorta di legna ormai ridotta
all’osso.
Un altro colpo di tosse. Stevie
incurva la schiena, puntella il mento al petto e sigilla labbra da
cui non fa più uscire alcun suono. Bucky si spoglia della giacca,
deve lottare per spingergliela sulle spalle (stupido caprone
idiota che non sei altro!).
In disparte Steve assiste – spettatore
muto in un cinema vivo, a guardare un film modificato col filtro
seppia che si dà ai ricordi.
«Tra un po’ te lo riprendi» si sente
borbottare.
«Va bene, ma ora infilatelo e stai al
caldo, mentre scaldo il brodo.»
E quel bisogno di sentirsi utile
(in qualcosa. Qualunque. Dannata. Cosa) sfonda la barriera della
memoria, per mescolarsi alla realtà.
«Lo faccio io.»
A parlare due voci di uno stesso uomo.
11.
Per Steve è tutta questione di memoria
muscolare: si aggira nella minuscola cucina come l’avesse lasciata
solo ieri e ogni suo movimento è elegante, è veloce, è un guizzo di
muscoli e fascino maschile.
Stevie lo invidia
guarda, per lui tutto è sforzo e fatica, perfino respirare. Perfino
esistere.
«Credevo che il raggio di quell’affare
ti avesse colpito.»
«Guarisco in fretta.»
«Poteva non essere altrimenti…»
Quando il brodo è pronto, Steve lo
versa in due scodelle.
Con la coda dell’occhio, Bucky scorge
il fondo della pentola. «Puoi prenderti la mia parte, tanto non ho
fame.»
È strano come certe cose rimangano
immutate.
«Non fa niente, mangiala lo stesso» La
voce ferma, il timbro caldo, lo stampo di un ordine.
Bucky rimane impalato, un soldatino di
Natale con le guance tinte di rosso che vibra d’un piacere appena
rivelato.
Steve rammenta tardi sospiri caldi e
occhiate languide (Dillo ancora, mi ecciti quando mi dai ordini).
Stevie, invece, lo impara soltanto
ora.
12.
Lontano dalla cena e da un amico che
non ha mai visto crescere, Bucky tira un buffetto alla fronte
pallida di Stevie. «Puoi dargli tregua?»
Stevie affonda il volto tra le pieghe
della coperta e il colletto di una giacca che odora di Bucky,
nasconde la bocca – una curva amareggiata che tortura con i denti.
«Come puoi non essere arrabbiato con me?»
«Di cosa stai parlando?»
«Ti ho ucciso due volte.»
«La guerra mi ha ucciso.» Bucky scuote
il capo, scaccia un destino non ancora avverato. Non è il loro.
Non è il loro. Non è il loro. «E nemmeno c’entriamo noi
in questa storia.»
«Ma…»
«Dio, Steve, non puoi essere così
ostinato da prenderti anche le colpe di un altro universo!»
Invece sì, mormorano occhi
velati di tristezza. A cosa servono arti più lunghi, se quando
cadrai non ti raggiungeranno?
«Non puoi capire.»
Bucky sbuffa contrariato. Può invece,
nessun altro può farlo meglio. «Promettimi che lo perdonerai. Se non
lo farai tu, lui di certo non lo farà mai.»
III
|
Dopo la
notte, un nuovo giorno
13.
Stevie dorme nell’unico letto della
casa. Bucky apre gli occhi al mattino e sorride felice – un'altra
notte è passata e il suo migliore amico ancora respira. Ancora
vive.
Si allontana da quel bozzo di lenzuola
e maglioni infeltriti, dal suo volto addormentato e dalla carezza di
capelli biondi che l’hanno solleticato per tutta notte,
incoraggiando lusinghe e umide fantasie. Avrebbe voluto toccarli,
accarezzarli, avrebbe voluto abbandonare la stretta al corpo di
Stevie solo per spogliarlo di tutto – perfino del pudore – e poi
rinsaldarla, annodarsi intorno a lui e alla sua pelle.
Steve, già sveglio, ha atteso davanti
a una porta mezza aperta.
«Dove stai andando?»
«Non posso rimanere.»
«Perché no?»
«Perché non dovrei nemmeno trovarmi
qui.»
«È un po’ tardi per quello.»
Steve sospira greve.
Ma, Bucky, occhi diciannovenni e
morbidi tratti impudenti da ragazzo, è più battagliero di lui. «A
meno che tu non voglia vincere un biglietto di sola andata per il
Rockland[2],
non puoi uscire conciato così.»
14.
«Vuoi lasciarmi solo con lui?»
Un mezzo ghigno di Bucky e un tocco di
gomito. «Lui pesa la metà di te e, se tanto, ti arriva al
bacino.»
Eppure l’orgoglio per il timore che
incute un cosettino come Stevie, si mescola a un groviglio di
preoccupazioni. Ma cos’è, in fondo, il peggio che può accadere?
«Voglio che mi racconti tutto,
dall’inizio alla fine. Tutto quello che è accaduto a Bucky e come
posso fare per evitarlo.»
A parte questo.
Steve segue con lo sguardo la
direzione della voce che ha parlato e incontra un’ombra che lo ha
perseguitato dal siero di Erskine. Il buono diventa migliore –
eppure, alle volte, è ancora convinto che la sua parte migliore
sia caduta da un treno in corsa o dissolta con uno schiocco in
Wakanda.
«Va bene.»
Non puoi cambiare il tuo passato.
Ha spiegato Banner.
Ma Steve s’accontenta di sovvertire il
loro futuro.
15.
Rebecca è un tornado in azzurro e
stivaletti bianco panna. Sgambetta tra la neve ingrigita delle
strade di Brooklyn e con femminili urletti entusiasti s’appende al
braccio del fratello.
«Non sei tornato ieri! Stavi facendo
un bilancio delle doti delle ragazze in città, direttamente dal loro
letto?»
Bucky ridacchia e per dispetto scrolla
il braccio. «Ero da Steve.»
«Oh, in questo caso era lui a
contemplare la tua dote.»
«Non farti beccare da pa' a dir certe
battute, o schiaffeggerà te per la tua boccaccia e prenderà a
cinghiate me per sodomia.»
Ma la sua vicinanza, benedetta
ragazza, è un toccasana e Bucky se la tiene vicino, mentre accelera
il passo.
«Dove stiamo andando?»
«A casa, devo prendere dei vestiti.»
Rebecca si stringe più forte al suo
braccio e con la mano strofina il bicipite – non serve togliere i
guanti per avvertire la pelle ghiacciata. «Anche una giacca, voglio
sperare.»
Bucky sbuffa vapore acqueo. Quella è
rimasta insieme a Steve.
16.
Non ha dovuto alzare i pugni contro
una versione agguerrita di Captain America, non si è ritrovato ad
annaspare nella stretta del suo braccio o a rivelargli di Bucky
(salvalo, salvalo, per l’amor di Dio salvalo e basta). Eppure
Steve ne esce esausto.
Seduto al divano dalle molle
arrugginite che quella notte ha ospitato la sua insonnia, tiene la
testa tra le mani e non osa fare i conti con se stesso. Sa già che
non tornerebbero, ch’è in difetto da troppo tempo.
Stevie trema, il freddo è qualcosa che
cresce dentro. Non può combatterlo. Può solo lasciare che l’avvolga,
che gli ghiacci le vene e apra cristalli salati agli angoli degli
occhi.
Non piange.
L’ultima volta è successo alla morte
di sua madre; anche allora ha aspettato che il dolore lo sfinisse,
prima di lasciarsi andare alle lacrime.
Stringe i pugni, unghie a graffiare i
palmi: «Cambierò tutto.»
Steve alza il capo, lo guarda.
Inconsapevole, assiste alla nascita dell’Eroe.
17.
Stevie si tortura le mani, consumato
da una domanda – è così stupida, così frivola. Ma deve
sapere.
«Gliel’hai… gliel’hai mai detto?»
Steve capisce al volo, come l’avesse
formulata lui per primo – non è forse così?
«Sì.»
Stevie deglutisce a vuoto. Piazza
occhi azzurri su un volto che è suo, anche se l’innata attenzione ai
dettagli coglie ogni differenza: le linee più marcate, i colori più
vividi, lo sguardo di chi ha già vissuto l’equivalente di due vite.
Steve stira la schiena. «La stessa
notte in cui l’ho trovato su quel tavolo operatorio. Mi sono
dichiarato sotto il cielo di Azzano, addossato al suo sacco a pelo
perché non ne avevamo abbastanza.»
«Cosa ti ha risposto Buck?»
Steve indugia. Prima di proseguire,
c’è qualcosa di più importante che deve confessargli.
«Ehy, ho portato un cambio per Steve!
Non vi siete scannati, vero?»
Bucky non poteva scegliere momento
peggiore per fare ritorno.
18.
Ho baciato Bucky.
«Tu cosa?» Stevie sibila e
spinge un’occhiata malevola sull’adulto.
«È stato l’impeto del momento.» Non è
una giustificazione, è a malapena una patetica verità. A meno di
racchiudere in quel momento tutti e cinque gli anni passati a
prendere a unghiate il fondo, col bisogno di riabbracciarlo che lo
ha tormentato, scosso, preso a pugni ogni istante di ogni giorno. E
ancora s’arrotola ai suoi piedi e risale, strattona, azzanna –
riporta indietro Bucky. A qualunque fottuto costo!
Thanos ha cancellato metà universo.
Steve l’ha, però, perso tutto
quanto.
«Fanculo all’impeto del momento!»
Stevie bercia improperi più facilmente di come respiri (male e
troppo velocemente).
«Calmati.» Bucky gli è addosso.
«Calmati un accidente! Non avrebbe
dovuto» ansima, distoglie lo sguardo. Il volto paonazzo per l’apnea
in cui sta cadendo e per altro. «…non avrebbe dovuto.»
Bucky indietreggia. «Ti disgusta così
tanto?»
A battere due cuori all’unisono.
E l’urlo, questa volta, prende la voce
di due linee temporali: «NO!»
19.
Bucky gli raccoglie la mano – dita
scheletriche che copre con un bacio al dorso, uno al palmo e uno al
polso. Gli lascia sulla pelle promesse di un amore segreto, gliele
incide nelle vene, nei tendini, nell’anima.
Un bacio perché t’ammiro. Un bacio
perché ti voglio. Un bacio perché t’amo.
Stevie annaspa; per una volta l’asma
non ha colpa alcuna. L’ha visto mille volte sedurre le ragazze di
Brooklyn, ballare con loro e baciarle al chiaro di luna; conosce a
memoria ogni piega del suo sorriso seduttore e ogni goccia di saliva
posata sulle labbra, quando la lingua passa sbarazzina a leccarle.
E ora cerca quei dettagli e non li
trova, perché Bucky non lo seduce, ma si confessa, si schiude a lui,
fiero come un fiore sbocciato dal cemento e in silenzio gli chiede
di coglierlo e amarlo.
«Non t’importa?» domanda Stevie.
«Cosa?»
«Che non sia un super soldato come
lui.»
Bucky scuote il capo. «Sei Steve,
questo m’importa.»
IV
|
Ultime
impronte di passato
20.
Per Steve è come ripercorrere un album
di ricordi, come assistere alla recita della propria vita e poi
vederla cambiare di colpo – in meglio – dal capriccio
di attori che hanno cominciato a improvvisare.
Li coglie a bisbigliare dietro agli
angoli di casa, come giovani colombi innamorati, dita intrecciate e
labbra che non smettono d'assaggiarsi. Si consumano di baci, di
morsi, di desiderio, quasi avessero paura che il futuro da lui
dipinto li raggiunga e si porti via quel poco tempo che hanno a
disposizione.
Li ascolta darsi battaglia per dare
all’altro l’ultimo boccone di cena e decidere alla fine di fare a
metà (nonostante gli improperi di Stevie, che l’adolescenza rende
scurrile).
«Se mi sentisse Tony…» mormora,
quando pensa di non essere ascoltato.
Ma è Stevie a sentirlo e su di lui
punta il dito, piccolo e feroce – come Davide contro Golia. «Chi
sarebbe questo Tony? Guai a te se scopro che tradisci Buck con un
altro! Ma' non ti ha cresciuto così!»
Una risata divertita.
No, l’ha cresciuto meglio.
21.
«Questo non sembra male.»
Un braccio s’allunga oltre la spalla
di Steve, lo supera e punzecchia il quotidiano aperto tra le mani.
«Anche questo. È al molo, non è
nemmeno tanto distante.»
Una testa bionda spunta vicino a
quella dell’uomo, dita ossute spiegazzano l’angolo del giornale,
all’altezza dell’annuncio.
Steve lo poggia al tavolo e guarda i
due.
I ragazzi sorridono – fossette alle
guance e una coppia di ghignetti malandrini.
«È solo un lavoro. Finché non avrò
trovato una soluzione.» Nessuno è venuto a prenderlo e lui non può –
ancora – tornare al tempo a cui appartiene. È finito troppo
indietro, perfino Howard è un ragazzo imberbe che cerca il suo
posto nel mondo. Mancano almeno altri tre anni perché lo trovi[3].
Stevie scrolla spalle storte e
sottili. «È un motivo in più per restare.»
Bucky e il Capitano lo guardano
stupiti: nella semplicità della frase si nasconde la sua
imbarazzata accettazione.
22.
Affacciato alla finestra, Bucky guarda
un mondo incrostato di neve. Le luminarie di Natale tremolano su
strade bloccate e alla radio gracchiano notizie di una tormenta in
arrivo (state in casa se potete, sarà un rigido weekend).
Stevie si arma di sciarpa.
Bucky lo blocca prima che possa
raggiungere la porta. «Che non ti venga in mente!»
«Perché no? È una mia responsabilità,
spetta a me andarlo a cercare.»
«Scordatelo! Ti è appena passata la
febbre, dovrai passare sul mio cadavere se vuoi uscire.»
A metterli a tacere è un battito sul
legno e uno nei loro petti.
Incorniciato dalla porta, Steve li
guarda con capelli bianchi di ghiaccio e un volto congelato dal
freddo – sembra un fantasma d’inverno, uno spirito errante scappato
dal buio.
«Ci hai fatto prendere un col –»
L’abbraccio zittisce Bucky.
Steve gli trattiene il capo contro il
petto, lo stringe, lo sente, lo rimpiange.
Stevie tace, ma già sa.
Il Natale se lo porterà via.
23.
Un tacchino flaccido, un vino scadente
in tavola e loro; non serve altro a farlo sentire re del
mondo. Bucky ha brindato e, ubriaco più di gioia che di vino, ha
baciato Stevie sotto un ciuffetto di vischio rubato al mercato e sulle labbra di Steve ha lasciato un ricordo felice.
«Cos’è?» chiede Stevie, quando il
Capitano lo trascina lontano, in un angolo della casa per
confidargli un segreto. In mano un pacchettino argentato.
«È per lui.»
«Allora dallo a lui, gli farà
piacere.»
«Non posso.»
«Perché no?»
Steve sorride distante – è già lontano
col pensiero, sta già tornando al suo tempo, a una guerra che ancora
non è cominciata, ma che nemmeno è mai finita.
Si china. Lascia un bacio alla fronte
di un ragazzino che spera ancora di vedere un giorno, quando
guarderà un riflesso allo specchio e cercherà se stesso.
«Perché il mio Bucky mi sta
aspettando.»
24.
«Ti sei portato dietro una spia,
Cap?»
Si chiama Tony l’uomo venuto dal
Futuro, ha un sorriso arrogante e uno sguardo di ferro –ma sotto le
ciglia, dietro le palpebre, spinge un io ferito.
Consegna un casco tra le mani di Steve
e attiva il proprio.
Bucky lo guarda a bocca spalancata,
con un’ammirazione eccitata che lancia fitte nella coscienza di
Stark – conosceva un tempo un altro ragazzo, occhi da cucciolo e
sorriso infinito. Questo, però, vorrebbe non averlo mai
incontrato. «Smamma ragazzino, non c’è niente da vedere.»
«Buck, torna dentro» implora Steve.
È già difficile così.
Bucky, però, ha un favore da chiedere
a Stark: «Si prenda cura di Steve.»
Una smorfia e l’uomo scansa impegni e
promesse. «Non ci penso nemmeno. Sono un uomo sposato, io.»
Bucky imbarazzato cerca una scusa per
spiegarsi. Non intendeva...
Ma Tony ghigna e segna il punto. «Mi
assicurerò di passare il messaggio a Barnes.»
Ed è, in fondo, tutto quel che conta.
25.
«Ti dispiace sia andato?»
Steve (è l’unica versione rimasta,
una bozza a carboncino, un frutto ancora acerbo) gli guarda la
schiena, teme voglia inseguirlo e lasciare lui indietro, insieme ai
propri difetti.
Non lo biasimerebbe. Anche se vorrebbe
dirgli che lo ama tanto quanto l’altro, forse di più, forse il
doppio.
Eppure Bucky si volta, risoluto, e
altrettanto innamorato. «Se i ruoli fossero invertiti, abbatterei
anche io i muri del tempo per tornare da te.»
Steve passa una mano tra i capelli,
cattura tra le dita l’imbarazzo e preme un pacchettino d’argento
contro la fronte. Non l’ha aperto, ma sa già cosa ci troveranno
dentro.
Tende il braccio – il palmo all’insù,
il pacchettino al centro – e non esiste nessun regalo al mondo,
nessun Natale, nessun uomo caduto fuori dal tempo, che possa
eguagliare la bellezza del sorriso di Bucky.
E poi il suo sguardo incantato, quando
il coperchio scatta.
All’interno una fede dorata e una
promessa immortale.
«Buon Natale, Buck.»
—
|
Till
the end of the line
0.
«Avengers, assemble!»
È nell’ululato della battaglia che lo
trova.
Un proiettile incamiciato, un colpo
preciso, occhi di lupo e mira da cecchino. La creatura cade e Steve
guarda oltre, alla canna di una mitragliatrice ancora fumante.
Sul grilletto un indice nero, sul
bicipite inserti dorati incisi nel vibranio.
Bucky avanza, attraversa anni
(cinque infiniti anni) in falcate ampie, veloci e leggere.
«Non ti si può lasciare un attimo da
solo, pal, che ti trovo sempre a combattere gente grossa il
doppio di te.»
(cinque fottuti anni)
«Potrei andare avanti per tutto il
giorno.»
Il mitra cade appeso alla spalla e
Bucky gli incornicia tra le mani guance sporche di terra e di
pugni. «Quanto?»
Il tempo che è passato, il vuoto c’ha
lasciato, il dolore che l’ha spezzato.
Oh, così tanto, amico mio, mia
metà, mia anima, mio tutto. Troppo, troppo, troppo.
Bucky posa labbra sulle sue, raccoglie
tempo (e sangue e paura e morte) in punta di lingua e sana ferite
che il siero non ha saputo guarire.
«Scusa per il ritardo, Stevie.»
Oh Buck, ben tornato a casa.
[ 4.110w ] |