Il
sole era accecante quando scesero dalla nave e il caldo, già
soffocante di suo, era accentuato da quella massa indistinta di
persone che, dopo mesi di navigazione, non vedeva l'ora di mettere
piede a terra e spingeva per scendere dalla nave coi pochi bagagli
che aveva con se.
Demelza,
strattonata e coi bambini stretti a lei e a Prudie, lottò
con tutte
le sue forze per non farsi spingere a terra mentre la nausea a causa
del caldo e della gravidanza, non le dava tregua.
Nella
calca si guardò attorno, osservò quelle povere
persone che, come
lei, erano state costrette ad abbandonare il loro vecchio mondo alla
disperata ricerca di una vita nuova e meno misera e si chiese se
anche lei avesse il loro sguardo sperso e spaventato in quel momento.
C'era di tutto, in quella nave, da povere famiglie vestite di stracci
a giovani marinai che cercavano fortune in quei mari ancora
inesplorati e in quelle terre da popolare.
Con
i loro piccoli fagotti, finalmente furono a terra. Si era imbarcata
coi bambini e con Prudie usando nomi falsi per non essere
rintracciata eventualmente da Ross ma ora poteva tornare ad essere
Demelza di Illugan, moglie abbandonata di Ross Poldark ma pur sempre
moglie... E madre dei suoi bambini.
Appena
fu a terra, osservò quel mondo nuovo che spesso aveva
cercato di
immaginare in quei mesi di viaggio ma mai era riuscita davvero ad
inquadrare nella sua mente.
Era
tutto così diverso dalla Cornovaglia...
Il
cielo era di un azzurro intenso mai visto e il mare, dai colori
talmente belli da sembrare quelli del Paradiso, sembrava fondersi con
esso. Mai aveva visto un mare tanto magnifico e trasparente, dai
colori che andavano dall'azzurro turchese al verde smeraldo e con
delle acque talmente limpide da poter vedere il fondo anche lontano
da riva.
Ma
per il resto, tutto era ancora selvaggio e la natura rigogliosa
formata da piante che non conosceva, sembrava voler lottare e
inglobare quel piccolo borgo portuale costruito sulle spiagge e che
diradava verso la foresta e le colline interne.
Il
porto era composto da un ammasso di casette di legno costruite senza
un effettivo criterio dove marinai e forse contrabbandieri andavano e
venivano senza sosta. Baracche, più che case, povere, che
scorrevano
su strade sterrate dove persone ed animali vivevano in
promisquità.
In
lontananza, alla fine di un sentiero che costeggiava la foresta e che
si staccava dal porto, scorse il piccolo campanile di una Chiesetta
improvvisata e intorno ad essa delle costruzioni meno fatiscenti,
forse le case delle poche persone abbienti dell'isola e dei
governatori locali, circondate da una moltitudine di casette di legno
colorate e da altre baracche che dovevano essere probabilmente il
borgo abitato principale dell'isola.
Ormeggiate
al porto c'erano altre barche, alcune grandi come la loro che
dovevano aver portato migranti, altre più piccole e
probabilmente
appartenenti a pescatori e altre, ormeggiate più al largo,
dall'aspetto sinistro e piene di uomini chiassosi che, a prima vista,
dovevano forse essere pirati e gente poco raccomandabile.
Con
i bambini, Prudie e Garrick, mosse i primi passi a terra, spersa e
spaventata. Santo cielo, partire era stato facile a caldo ma ora
aveva paura! Cosa avrebbe pensato Ross di un posto del genere? Di
quella gente dai vestiti variopinti, povera ma col sorriso sulle
labbra, di quei bambini magri e scalzi che sbucavano da ogni dove e
correvano chiassosamente dappertutto senza nessuno che li guardasse e
forse senza aspettative nella vita? Aveva portato lì i suoi
figli,
in quella terra lontana e sconosciuta e ora aveva paura... Aveva
sbagliato? O fatto bene?
Pensò
a Ross abbracciato a Tess e il cuore le fece male. E capì
che non
poteva permettere che il cuore facesse male anche ai suoi bambini e
che aveva fatto bene a scappare da quel terremoto che si era
abbattuto su di lei e sulla sua famiglia. Non sarebbero più
stati
felici in Cornovaglia, non lei, non i bambini. E sarebbero stati soli
come lo erano stati gli ultimi mesi, con un marito e un padre assente
e ormai disinteressato a loro. Una famiglia senza amore che famiglia
sarebbe stata?
Scossa
da quei pensieri, mentre muoveva incerta i primi passi in quella
terra sconosciuta che presto sarebbe diventata la sua casa, la
piccola Isabella-Rose le diede un calcione ben assestato che la fece
fermare per riprendere fiato. "Giuda".
"Signora!"
- la soccorse Prudie.
Jeremy
rise. "Bella sta dando un saluto alla sua nuova casa".
Demelza
sospirò. Isabella-Rose, per Jeremy e Clowance era diventata
'Bella'.
Era con questo nomignolo affettivo che parlavano di lei e anche
Demelza avrebbe voluto tenere con la figlia in arrivo quel tono
confidenziale. Ma non ci riusciva, non riusciva davvero a ridurre le
distanze con quella piccola bimba e per lei era rimasta Isabella-Rose
Poldark. Niente confidenze, per ora...
Prudie,
più spersa di lei e sudata come un cavallo, si
asciugò la fronte.
"La piccola Bella è al fresco nel pancione, ma noi si va
arrosto. Che posto è questo, con un caldo così
infernale?".
Demelza
si trovò d'accordo. Era una terra strana la Jamaica, con un
mare dai
colori del Paradiso e un caldo che ricordava le fiamme dell'inferno.
Si sarebbero abituati a quel clima assurdo? Osservò le donne
del
posto, indossavano abiti che sembravano per lo più
sottovesti
leggere, con le gonne sopra la caviglia, le braccia scoperte,
informali e piuttosto sfrontate nel mostrare le loro curve. "Ci
abitueremo, Prudie" – tentò di consolarla, anche
se con poca
convizione.
"E
mentre ci abituiamo? Arrostiamo?" - insistette la domestica.
Già,
dovevano fare qualcosa e in fretta. Indugiare in quel porto sarebbe
servito a poco visto che non avevano né una casa
né punti di
riferimento. E quindi dovevano sbrigarsi, cercare informazioni su
Kitty e Cecily e poi mettersi alla loro ricerca. "Andiamo verso
il paese, dove c'è la Chiesa! Qualcuno forse
saprà darci
informazioni".
Clowance,
saltellando, le indicò la spiaggia bianca che si stagliava
dopo il
porto. "Nel caso non troviamo Kitty e Cecily, mamma, potremo
dormire lì!Davanti a quel mare, sai che bella avventura
sarebbe?".
Demelza
le sorrise, appoggiandole la mano sulla spalla. Era così
indomita,
le ricordava un sacco suo padre... "Oh lo faremo, te lo
prometto. Ma solo quando avremo comunque una casetta nostra dove
tornare, nel caso ci stancassimo di tutta quella sabbia".
"Dove
le cerchiamo Cecily e Kitty?" - chiese Jeremy.
Demelza
osservò il piccolo campanile della Chiesa e lo
indicò al figlio.
"Credo che nessuno possa conoscere meglio la gente dell'isola di
un prete. Che ne dite di iniziare da lì?".
Jeremy
annuì. "Sì, ottima idea mamma" – le
rispose,
prendendola dolcemente per mano.
Fecero
per avviarsi verso il villaggio con Prudie che borbottava, Garrick
che correva entusiasta in quella nuova terra e i bambini che
chiacchieravano, quando un gruppetto di monelli sporchi, scalzi e
malnutriti corse verso i nuovi arrivati della nave, urlando come
forsennati. "Correte, correte nella piazza signori! Un grande
spettacolo per voi! E ve lo abbiamo detto noi, ricordatevi di darci
una monetina per avervelo detto!".
Demelza
sospirò. I monelli erano uguali in tutto il mondo, furbi,
intelligenti, scaltri e capaci di chiedere una moneta per qualsiasi
cosa, anche la più futile. Erano così magri quei
bambini, ma pieni
di vita. Come era stata lei fin da piccola, sempre con la pancia
vuota e una energia comunque indistruttibile.
Clowance
si avvicinò ad uno dei bambini. "Che succede?".
Il
mocciosetto che doveva essere il capo della combriccola, un bambino
biondo forse di cinque anni, tirò su col naso pulendosi poi
la
faccia con la mano. "Impiccano un pirata! Uno spettacolo vero,
signorino! Una moneta per l'informazione, grazie" – concluse,
allungando la mano verso di lui.
"Che
faccia tosta!" - sbottò Prudie.
Demelza
si avvicinò per riprendere Clowance. "Vi ringrazio per la
gentile informazione ma non abbiamo soldi da darvi e non intendiamo
andare a vedere un uomo che muore".
"Ma
signora! Il pirata Flint Dancan! Terrore dei mari del sud, catturato
dalla guardia inglese dopo mesi di inseguimento! Non potete
perderlo".
"Credo
che potrò farne a meno" – disse Demelza, donando
comunque ai
piccoli il poco pane che aveva portato per lei dalla nave.
Il
monello, forse deluso dal dono che però prese e
divorò in un
secondo, sospirò. "Come volete signora!". E poi corse via.
Jeremy
le strattonò il braccio. "Mamma, mamma! Dai, andiamo a
vedere
com'è questo pirata! Un pirata vero, con un occhio bendato,
la
bandana nera e un pappagallo sulla spalla".
"Appeso
per il collo!" - aggiunse Clowance.
Demelza
prese per mano entrambi, decisamente meno entusiasta. "E' uno
spettacolo orribile e non lo guarderei per nulla al mondo. E non
abbiamo tempo da perdere, abbiamo cose più importanti da
fare".
"Grazie
al cielo" – borbottò di nuovo Prudie.
I
bimbi parvero delusi ma alla fine ubbidirono, come sempre. "Come
vuoi, mamma... Tanto di pirati impiccati mi sa che è piena
quest'isola. Pirati ovunque, morti ma anche vivi!".
Demelza,
facendo finta di non sentirli, si incamminò stancamente,
dando
un'ultima occhiata alle persone che avevano diviso quella nave con
lei in quei mesi. Tutti loro sarebbero ripartiti da zero, con paura
ma anche voglia di fare. E silenziosamente, ad ognuno di loro,
augurò
buona fortuna anche se non li conosceva...
Camminando
nel sentiero che conduceva al villaggio, osservò le
rigogliose
piante che sembravano voler fagocitare in loro quel pezzo di
civiltà
che si era impossessato dell'isola e si chiese chi l'avrebbe avuta
vinta in quella battaglia: uomo o natura? C'era nell'aria un profumo
intenso di frutti sconosciuti e di piante, unito alla salsedine del
mare, un clima asciutto che dopo tutto, appena fattaci l'abitudine,
faceva apprezzare anche quel caldo fortissimo e in fondo decise che
quel posto era affascinante e che i colori del Paradiso aveva vinto
sul calore soffocante dell'inferno. Avrebbe amato quel posto, ci
sarebbe riuscita. E ne avrebbe conosciuto segreti, abitudini e tutto
ciò che serviva per viverci.
Poi
però sorpassarono un gruppo di una ventina di giovani uomini
di
colore che, in catene, camminavano in senso opposto al loro, spinti
in malomodo da uomini bianchi muniti di fruste. E di colpo l'inferno
sembrò bussare in quelle candide terre, ricordando a Demelza
quanto
le aveva raccontato Kitty Despard. Allora questi erano...?
"Mamma,
sono schiavi quelli?" - chiese Clowance pronunciando quella
parola che, dai racconti di Kitty sua madre aveva imparato ad odiare,
un pò intimorita dal vedere uomini martoriati, smunti e in
catene e
con sguardo cupo e assente come se fossero già morti.
"Sì"
– rispose un vecchio uomo dalla lunga barba che camminava di
fianco
a loro, diretto verso il paese.
Lo
guardarono, dagli abiti sembrava un marinaio e comunque un uomo
esperto della zona. "Dove li portano?" - domandò Demelza.
Il
vecchio alzò la spalla, portandosi alla bocca la pipa che
teneva fra
le mani. "Nelle piantagioni dei signori dell'isola,
nell'entroterra. Probabilmente sono uomini di Sir Copper. O di Gillet
o Cameron... Sono loro i signori della Jamaica, comprano al mercato
gli schiavi migliori per lavorare le loro terre. Credo siano di
Copper, sì. Casa sua si trova nella direzione che stanno
seguendo,
nell'entroterra.
Copper?
Demelza si accigliò, aveva già sentito quel
nome...
Copper,
Copper...
Improvvisamente
le venne in mente la piccola e strana ragazzina incontrata sul
pontile poche ore prima, di notte assieme alle sue due strane guardie
del corpo e alla sua silenziosa domestica. Si chiamava Lilith Copper
e aveva detto che suo padre era il più potente uomo
dell'isola...
Non l'aveva vista mentre sbarcavano dalla nave ma probabilmente i
viaggiatori di prima classe scendevano da pontili separati e qualcuno
era venuto a prenderla prima che la ressa dello sbarco la
coinvolgesse. Vedendo quegli schiavi e ricordando le parole della
bambina su suo padre, ora capiva da cosa derivasse la sua potenza e
la sua ricchezza. Si ricordò di Hanson, il padre di Cecily e
capì
che questo Copper non doveva essere molto diverso. E la figlia pareva
la sua degna erede... "E' il governatore dell'isola?" -
chiese, al vecchio con la pipa.
Lui
rise. "Copper? No, che gli importa di Governare? E' amico dei
governatori, questo sì! E loro sono amici suoi, un mutuo
scambio di
favori che gli permette di lavorare nell'ombra senza compromettersi e
condurre tranquillamente i suoi loschi affari con la protezione dei
poteri forti".
"E'
una persona potente, quindi, in queste terre?".
L'uomo
la adocchiò pensieroso. "Sì, ma... Diciamo che se
dovessi
scegliere se essere amico di Copper o di uno squattrinato pirata...
sceglierei il pirata".
Demelza
spalancò gli occhi e anche Prudie e i bambini fecero lo
stesso.
"Addirittura? Ne stanno per impiccare uno in piazza,
però...".
Il
vecchio sorrise, prima di sorpassarla e andarsene per la sua strada.
"Siete appena arrivata, vero signora?".
"Sì".
"Imparerete
molte cose su queste terre, su chi le abita e di chi essere amica.
Benvenuta in Jamaica, mia lady". E così dicendo, a passo
veloce
quasi fosse un giovane, scomparve nella via sterrata davanti a loro.
Lasciando nella mente di Demelza ancora più dubbi di quanti
ne
avesse avuti poco prima durante lo sbarco. In che diavolo di posto
era finita?
...
Le
avevano mandato incontro a prenderla due schiavi, una donna di circa
trent'anni e un uomo molto più anziano, con un cavallo nero
su cui
Tim e Tom l'avevano posta come se fosse stata un pacco.
Lilith
stavolta li aveva lasciati fare senza rimostranze, spaurita, stanca e
accaldata. Che posto strano questa Jamaica, così diverso da
Belfast
e da tutti i luoghi visitati con i suoi nonni. Non c'erano palazzi ma
solo casette di legno fatiscenti, bambini dai più disparati
colori
di pelle che correvano scalzi e vestiti di stracci fra viottoli
sterrati e alberi, un panorama selvaggio oltre al piccolo paesino
portuale che li aveva accolti e tutt'attorno un mare dai colori che
andavano dal verde smeraldo all'azzurro intenso.
Era
una bella visione ma si sentiva spaventata e i 2 schiavi di colore di
suo padre e i suoi tre accompagnatori, col loro silenzio non
aiutavano a renderla più serena. “Quanto manca
alla casa di mio
padre?” - sbottò infine, sul cavallo, mentre la
conducevano fuori
dal porto e dal piccolo borgo marinaro, diretti verso la foresta e
poi chissà dove.
I
due schiavi si guardarono spaventati per il fatto che lei gli avesse
rivolto la parola ed ora esigesse una risposta.
“E
allora?” - insistette Lilith, stizzita.
Fu
l'uomo a parlare, in una lingua stentata, con un tono sommesso e
quasi spaventato. “Dopo qualche miglio nella foresta, saremo
alla
tenuta del padrone. La grande casa è in mezzo alla
vegetazione,
lontana dalla folla del porto”.
Lilith
si asciugò la fronte madida di sudore.
“Sbrigatevi!”.
Non
aveva così voglia di vedere suo padre, a dire il vero. Era
più che
altro incuriosita dalle tante voci che aveva sentito su di lui,
alcune grandiose, altre meno lusinghiere... Non lo incontrava da
quasi quattro anni ma ricordava che i suoi nonni non parlavano spesso
di lui e quando lo facevano, non ne sembravano entusiasti. Dicevano
brutte cose di nascosto, su di lui, che lei aveva ascoltato
rannicchiata dietro le porte. Amava i suoi nonni ma non aveva mai
voluto credere a cosa dicessero di suo padre. Che era feroce, crudele
ed avaro, dovevano essere solo frottole! Che ne sapevano loro, a
Belfast? Dicevano anche che la loro amata figlia, sua madre, era
morta a causa sua. Che colpa ne aveva suo padre se lei era caduta
dalle scale?
Certo,
non poteva nascondere a se stessa una certa inquietudine comunque.
Suo padre le era sconosciuto, aveva sei anni l'ultima volta che lo
aveva visto e ne ricordava poco persino i tratti del viso. Aveva i
capelli neri, nerissimi, questo lo sapeva. E dei baffetti molto
curati che stavano bene sul suo viso scavato e magro. Non era molto
alto ma aveva una figura elegante, anche questo ricordava... E poi
basta, sapeva solo che era l'uomo più potente e ricco della
Jamaica.
Persa
in quei pensieri, mentre oltrepassavano strane piante che mai aveva
visto, Lilith quasi non si accorse del grande cancello e del grande
muro giallo che avevano oltrepassato. Un viale acciottolato
più
elegante che attraversava un rigoglioso giardino molto curato fu
l'ultimo tratto del suo viaggio prima di giungere al grande ingresso
di una elegante villa bianca a due piani, con tante vetrate, una
grande veranda e un enorme terrazzo al primo piano che dominava il
giardino. La casa, di forma curva, pareva cingere il giardino
più
interno come a volerlo proteggere dall'esterno selvaggio ed
inospitale. Una gabbia dorata, questo le venne in mente... Un posto
bello ma che sulle prime le fece paura.
Tanti
uomini di colore malvestiti e malnutriti sbucarono dal giardino e dai
campi circostanti, avvicinandosi con circospezione e timore. I due
schiavi venuti a prenderla al porto la aiutarono a scendere da
cavallo e a quel punto la grande porta d'ingresso si
spalancò e un
uomo dai capelli neri ne uscì, scendendo i tre scalini che
separavano l'atrio dal giardino. “Lilith, finalmente sei
arrivata”.
La
ragazzina deglutì. “Padre” -
mormorò, esibendosi in un perfetto
inchino. Poi si avvicinò a lui che la aspettava con passo
elegante,
a testa alta. Quando gli fu davanti si esibì in un perfetto
inchino
e con fare formale ed educato, allungò la mano a stringere
quella
dell'uomo. Le persone per bene, le avevano insegnato, non si
abbracciano. Si salutano così, educatamente, senza esibirsi
in
plateali manifestazioni d'affetto. Solo i poveracci e gli analfabeti
si abbracciano e baciano e lei non era né l'una
né l'altra.
Suo
padre la guardò intensamente, come a volerla studiare. Si
lisciò i
baffetti con le mani e poi annuì soddisfatto.
“Vedo che sei stata
educata bene alle buone maniere”.
“Sì
signore” - rispose la bambina.
L'uomo
fece cenno a una domestica di portargli qualcosa e la donna,
anch'essa di colore, corse in casa uscendone poco dopo con una grande
ed elegante bambola fra le mani, dai capelli biondi e con indosso un
bellissimo vestitino rosso di velluto. “Questa è
per te, Lilith.
E' un gioco adatto a una futura lady e padrona di casa, ti
preparerà
per il tuo ruolo di madre e moglie”.
Lilith
osservò la bambola. Mai si doveva dimostrare scontento
davanti a un
regalo, era cattiva educazione e lei non voleva sfigurare davanti a
suo padre, ma le bambole non le aveva mai amate troppo ed erano
almeno due anni che non ci giocava. Osservò silenziosamente
Tim, Tom
e Miss Thorpe, la sua domestica, e loro le fecero cenno di
ringraziare e non dire altro. “Grazie” - disse
infine, senza però
particolare entusiasmo.
Suo
padre se ne accorse. “Non è di tuo
gradimento?”.
“Oh,
è bellissima! Ma adoro leggere i libri più che il
gioco con le
bambole”.
L'uomo
si accigliò, prima di mettersi a ridere. “Libri? A
che ti serve
essere istruita quando sei figlia di Vincent Copper e potrai avere
TUTTO senza fatica?”.
“Ma
a me piacciono comunque” - rispose la piccola.
Copper
sbuffò. “Beh, se ci tieni tanto, avrai qualche
libro”.
“Davvero?”.
L'uomo
annuì. “Ovviamente veglierò sulle tue
letture e non spenderò
capitali per comprarti dell'inutile carta rilegata. Li ritengo una
perdita di tempo ma al villaggio c'è un gruppo di
missionarie che
gestisce un orfanotrofio e vende vecchi libri usati portati dai
viaggiatori europei che si trasferiscono qui”.
Libri
usati? Non che la cosa la entusiasmasse, ma sempre meglio di nulla.
Ed era troppo in soggezione per muovere delle rimostranze davanti a
un padre che ancora non conosceva e che gli appariva fin troppo
distante dalle sue abitudini e dai suoi gusti. “Grazie,
padre” -
rispose, inchinandosi di nuovo.
L'uomo
sospirò, osservando i tre accompagnatori della figlia.
“Il
viaggio? Andato bene?”.
“Lungo
e noioso” - gli rispose, a tono.
Copper
rise. “Bene, sei senza peli sulla lingua, mi piace! I miei
due
schiavi che son venuti a prenderti ti hanno trattata con
rispetto?”
- chiese, squadrando i due che, in un angolo, attendevano nuovi
ordini senza fiatare. Come tutti gli altri, del resto... C'erano
tante persone in quel giardino ma solo in quel momento Lilith si
accorse del grande silenzio che li attorniava.
Lilith
annuì, colpita da quell'aspetto. “Sì.
Ero stanca e loro mi hanno
detto che saremmo giunti qui in poco e hanno rispettato i tempi che
mi hanno preventivato”.
“Cosa?”.
L'espressione di Copper cambiò di colpo, si
incrinò, i suoi occhi
divennero cupi e con furore mischiato ad odio, osservò i
due. “Chi?
Chi ti ha parlato?” - chiese alla figlia, gelido, mentre i
due
schiavi iniziavano a tremare.
Senza
capire, Lilith rispose. “Lui, quel signore”.
Copper
si avvicinò all'uomo, prendendolo per il bavero e
sbattendolo con
violenza contro il tronco di una pianta. Era minuto ma in quel
momento Lilith si accorse di quanto forte e rabbioso potesse essere.
“Hai osato rivolgere la parola a mia figlia? Piccolo verme,
lo hai
fatto?” - urlò, piantandogli un pugno nello
stomaco.
L'uomo
boccheggiò, annaspando e lottando contro l'aria per non
cadere. “La
signorina mi ha fatto una domanda e io...”.
“TU
dovevi stare zitto! I vermi non rivolgono la parola alle principesse,
eseguono solo i loro ordini. Lo sai, lo sai vero qual'è il
tuo
posto? Beh, forse lo hai dimenticato ma te lo ricorderò io".
Si voltò
verso un altro schiavo, fermo ed immobile. Nessuno sembrava capace di
muovere un dito per aiutare l'amico in difficoltà.
“Entra in casa
e prendimi la frusta, ho bisogno di allenare il mio braccio e questo
verme me ne darà l'occasione”.
Gli
occhi di Lilith si riempirono d'orrore. Che stava succedendo? Che
aveva fatto di male quell'uomo? Era colpa sua? Spesso diceva a Tim e
Tom che li avrebbe fatti frustare ma mai aveva visto davvero un uomo
che frusta qualcun altro. “Padre?! Gli ho fatto una domanda,
lui è
stato gentile a rispondermi”.
Copper
si voltò verso di lei, cercando di tenere a bada una rabbia
furente.
“Lilith, impara la lezione più importante! Tu sei
una persona,
loro sono animali. Tu comandi, loro eseguono senza parlare! Loro non
hanno il diritto di dirti nulla, sono bestie, vanno guidate e
strigliate quando non ubbidiscono e d'ora in poi non voglio che tu ti
sbagli ancora quando hai a che fare con loro! NON devi parlare con
gli uomini dalla pelle scura! Né uomini, né
donne, né bambini.
Sono bestie e noi non parliamo con le bestie!”.
La
bambina guardò guardò Miss Thorpe e Tim e Tom in
cerca di aiuto. Ma
loro le fecero capire di non dire nulla. Purtroppo però lei
non
riusciva, non era mai stata capace di star zitta. “Io non lo
sapevo, non è colpa di quell'uomo. Non gli
parlerò più ma voi...
voi per questa volta...”.
Copper,
a dispetto di tutto, sorrise. Un sorriso gelido di chi già
pregusta
il piacere di sottomettere qualcuno completamente in sua
balìa.
“Cuore debole di donna il tuo, figlia. Ma io frusto questa
specie
di uomo per il suo bene, per insegnargli”. Poi si rivolse ai
suoi
tre accompagnatori. “Tim, Tom, voi sarete le guardie del
corpo di
Lilith, la seguirete ovunque quando uscirà dalla tenuta. La
accompagnerete al villaggio per le sue passeggiate e per prendere i
suoi libri senza perderla di vista e riferendo a me ogni cosa che le
succede. Miss Thorpe, voi curerete la sua persona, le sue stanze e
veglierete sul suo cibo e il suo sonno. E ora portate mia figlia in
camera sua, la domestica vi farà strada”.
La
donna che aveva portato la bambola fece cenno di seguirla e mentre
lei fu costretta ad ubbidire e si allontanava con Tim, Tom e Miss
Thorpe, vide suo padre trascinare via lo schiavo e gli altri schiavi
rimanere fermi, immobili e in silenzio. Si sentì di voler
piangere
ma sapeva anche che non era signorile farlo. Non conosceva quel mondo
e quello che le appariva cattivo, forse non lo era. Suo padre diceva
che lo schiavo meritava delle frustate per il suo bene e lei doveva
credergli. Questo era il compito di una brava ed educata figlia.
La
domestica li condusse in casa, elegante, raffinata e dalle pareti
bianche e candide. Mobili di pregio ovunque, quadri di valore alle
pareti, una grande scala in legno e al primo piano, con un balcone
che dava sul giardino e sul mare che si intravedeva in lontananza,
una magnifica stanza per lei, piena di giochi e di ogni agio, con un
grande letto a baldacchino. Ma non riusciva ad esserne contenta e si
sentiva fuori posto e spaventata.
Mentre
Miss Thorpe si affaccendava a disfare i bagagli che uno schiavo aveva
portato nella stanza, Lilith si avvicinò alla finestra e lo
vide...
Di sotto, in giardino, c'erano suo padre e lo schiavo, legato a un
albero, percosso da decine di violente frustate inferte senza
pietà
sulla sua schiena sanguinante e martoriata. Da suo padre...
I
suoi occhi si riempirono d'orrore. Possibile che quello fosse fatto
per far del bene? Sangue e urla erano fare del bene? La sua mano
tremò, si sentì sola e spersa in un mondo non suo
dove non
conosceva nulla, suo padre gli apparve più simile ai
racconti dei
suoi nonni che a quelli lusinghieri dei suoi soci in affari e
desiderò tornare a casa sua, a Belfast.
Improvvisamente
la mano di Miss Thorpe le strinse il braccio. La donna tirò
le tende
e con uno strattone la allontanò dalla finestra e da quella
visione
orribile. “Non guardare!” - le intimò -
“Quello non è uno
spettacolo per te”.
“Ma...”.
Ma
la donna, di solito taciturna, parlò di nuovo.
“Zitta e ascolta!
Non guardare, qui è così che funziona”.
“Voglio
tornare a casa” - mormorò la piccola, ancora
più confusa.
“Questa
ora è la tua casa”.
“Non
mi piace”.
La
donna la prese per le spalle, scuotendola. “Zitta! Se tuo
padre ti
sentisse...”.
Ma
lei non stette zitta. “I miei nonni dicevano che ha ucciso
mia
madre”.
“ZITTA!”.
“Lo
sai? Tu sai se è così?”.
“ZITTA!!!”.
Lilith,
con uno strattone, si liberò dalla stretta.
“Andiamo via! Con la
prima nave, subito!”.
Miss
Thorpe, pallida, la strinse a se. “Non è
possibile”.
“Cerca
un modo! Con Tim e Tom. Cercalo o io urlerò come volevo
urlare sulla
nave. E dammi del LEI quando mi parli, non osare mai più
prenderti
tutta questa confidenza” - le comandò la ragazzina.
Ma
Miss Thorpe non si fece schiacciare, anche se si accorse dell'errore
commesso a causa dell'agitazione, nel rapportarsi con la sua
padroncina. “Perdonatemi, la preoccupazione per
voi...”.
“Non
importa. Cerca un modo o urlerò”.
Miss
Thorpe scosse la testa. “Non lo farete”.
“Come
lo sai?”.
“Lo
so perché anche voi sapete bene che non potete
farlo”.
“Perché?”.
“Sapete
anche questo”.
Arrabbiata,
frustrata e spaventata, Lilith prese la bambola donatale dal padre
che era stata appoggiata sul letto e la scaraventò contro la
parete.
“Questo posto non mi piace”.
Miss
Thorpe le si avvicinò, poggiandole dolcemente una mano sulla
spalla.
“Avrete dei libri però, almeno di questo dovete
esserne contenta”.
“Libri
usati!”.
“Sempre
libri, però. E non era scontato che vostro padre vi
accordasse il
permesso”.
Lilith
sospirò, mettendosi sul letto con la testa sotto il cuscino.
Fuori
non si sentiva più nulla, né il rumore delle
frustate, né i
lamenti dello schiavo. Forse suo padre aveva smesso di agire per il
bene di quell'uomo... “Voglio stare sola” - disse
infine,
stancamente.
Miss
Thorpe comprese. Le accarezzò i capelli, la
salutò, uscì dalla
porta e la lasciò coi suoi pensieri.
E
Lilith, con gli occhi arrossati, si mise a pancia insù,
guardando il
soffitto di legno della stanza. Faceva così caldo... E aveva
bisogno
di una consolazione e una bambola non poteva dargliela. Poi si
ricordò di qualcosa che forse avrebbe potuto sollevarle il
morale,
un qualcosa donatole da una donna sconosciuta dai capelli rossi, su
una nave. Frugò nella tasca del suo vestitino di pizzo rosa,
tirandone fuori il libricino ricevuto in dono poche ore prima di
notte, sul pontile della nave, da una donna sola, incinta e gentile.
Poesie sul mare... Lo sfogliò, lesse di mari meravigliosi
che
portavano le persone in posti fantastici. E fece finta di essere una
di quelle persone...
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