CRIMSON
SHADOWS
Derry, 20 Giugno 1930
La strada buia e deserta donava un senso di pace interiore che Anna
raramente riusciva a provare.
Pochi minuti prima, l’orologio a pendolo del salotto aveva
emesso due flebili rintocchi.
Rose e Jackie se n’erano andate verso mezzanotte e mezza,
più o meno nello stesso istante in cui i signori Donovan
erano rincasati.
Neanche un’ora più tardi, Jamie aveva telefonato
per avvertire che sarebbe andata a dormire da Bess.
Anna aveva atteso che i genitori si addormentassero, poi, lasciando un
biglietto sul tavolo della cucina, aveva preso la propria patente e le
chiavi della Renault grigia.
Le capitava spesso di avvertire l’irrefrenabile bisogno di
guidare per le vie illuminate soltanto dalla luce irregolare dei
lampioni, disabitate, silenti.
Dopo anni passati ad affrontare i problemi dell’insonnia,
Anna aveva finalmente trovato un’attività che le
donasse… beh, forse non gioia, ma di certo una singolare
serenità.
Poche ragazze della sua età erano in grado di guidare, a
Derry. Lei aveva insistito a lungo con suo padre, prima che lui si
decidesse a insegnarle.
Non che Richard Donovan fosse un osso duro o un tradizionalista, anzi.
Probabilmente, lui avrebbe acconsentito alla prima richiesta, se la
moglie non si fosse messa in mezzo con le sue paranoie.
“Guidare
è pericoloso, Annie. Perché vuoi metterti in
pericolo da sola, Annie? Di solito le ragazze non guidano,
Annie.”
Bah. Quante storie inutili.
Anna giunse all’incrocio di Kansas Street, rallentando
gradualmente. Girando a sinistra, avrebbe proseguito fino a costeggiare
la zona dei Barren; a destra, si sarebbe trovata ben presto in quello
che considerava il centro della vita civile della città.
Per dove svoltare?
Alzando lo sguardo, oltre il parabrezza, notò
l’enorme cartellone, ormai scolorito, che riportava al tempo
delle elezioni cittadine: il sindaco Parker Boone sorrideva con aria
beota, con il suo elegante completo gessato e la stempiatura
accentuata.
Anna osservò l’immagine con un ghigno, colta da
un’illuminazione.
Avviò nuovamente il motore, girando a destra.
C’era una sola persona a Derry capace di restare sul posto di
lavoro fino a tarda notte, ben oltre l’orario di chiusura,
dormendo poggiata alla scrivania pur di passare meno tempo possibile a
casa.
La ragazza proseguì spedita, percorrendo quasi per intero
Kansas Street, arrestando la corsa soltanto quando si trovò
davanti alla grande biblioteca.
Parcheggiò con precisione millimetrica, in barba a
ciò che diceva spesso il padre di Butch Bowers sulle
abilità di guida delle donne.
(Questa volta
sarà diverso, Annie!)
Si ravvivò leggermente i capelli, riflettendosi nello
specchietto retrovisore, e, forse con un po’ troppo zelo,
uscì dal mezzo, sigillando la portiera e raggiungendo con un
paio di falcate la porta d’ingresso della Derry Public
Library.
La creatura non era ancora sazia. Strisciava tra le ombre, alla ricerca
di nuove prede.
Finalmente, un ticchettio di passi sul marciapiede attirò la
sua attenzione. Sogghignò, riducendo gli occhi a sottili
fessure: erano due ragazze, carine e giovanissime.
Camminavano da sole nella viuzza scura e solitaria, rapide e
guardinghe, venivano dritte verso di lei.
La creatura fiutò la tensione che attanagliava le loro
adorabili menti fanciullesche. Temevano un agguato. Temevano gli
aggressori.
Una di loro temeva i vampiri.
Si acquattò dietro un grosso albero. I suoi canini superiori
cominciarono ad allungarsi.
Anna suonò il campanello un paio di volte.
Abbozzò un sorrisetto quando vide un fascio di luce
divampare attraverso una delle finestre del pianterreno e si
lasciò sfuggire un ghigno quando una vocina insicura e
lievemente assonnata domandò: - Chi è?
- Chi vuoi che sia, a quest’ora? –
replicò la ragazza.
Tre giri di chiave.
La porta si aprì: oltre la soglia, c’era una donna
dall’aria raffinata e sobria, longilinea, sulla quarantina. I
suoi capelli, folti, lucenti, e tagliati all’altezza del
mento, erano di un intenso castano dorato, mentre i suoi occhi
oscillavano tra incerte sfumature di verde e marrone.
Un’espressione di piacevole sorpresa illuminava i suoi
graziosi lineamenti.
- Annie – mormorò. – Cosa ci fai qui?
Miss Donovan replicò con un sorrisetto furbo, le mani nelle
tasche dei pantaloni neri: - Soffro d’insonnia, dovresti
saperlo, Daisy.
La bibliotecaria scosse la testa, le labbra piegate verso
l’alto: - Entra.
Anna accettò l’invito senza troppe cerimonie.
Attese che la donna mettesse in sicurezza la porta d’ingresso
con i tre soliti giri di chiave, poi si lasciò condurre da
lei fino al grande bancone in legno a cui, di giorno, ella sedeva
lavorando incessantemente, segnando i prestiti, rispondendo con
cortesia alle domande della gente e scorrendo elenchi infiniti.
- Anche oggi ti toccano gli straordinari, eh? –
commentò la diciassettenne con ironia, leggiucchiando
distrattamente alcune delle carte sparse sul tavolo da lavoro.
- Già – rispose Daisy, con la medesima punta di
ilarità, mentre copriva le finestre con le spesse tende
bordeaux. – Un’altra notte fuori casa.
- Al tuo maritino mancherai tantissimo – ridacchiò
la più giovane.
- Oh, sicuro.
La donna fece una smorfia: - Tornare a casa per sentirmi ripetere ogni
volta che quello che faccio è inutile, che lui
può darmi una vita da regina, restando a casa tutto il
giorno a farmi servire dai domestici, e io, invece, mi ostino con
questo lavoro da ceto medio! Sono tutti…
- … capricci inutili, Daisy! – terminarono
assieme, in una perfetta imitazione del simpatico marito riccone.
Entrambe scoppiarono a ridere.
Daisy scostò un ciuffo ribelle dal volto di Anna, scivolando
poi con le dita sulla sua guancia pallida.
Ora che indossava i tacchi, riusciva più o meno a eguagliare
la giovane in altezza.
Miss Donovan ridusse gli occhi scuri a due fessure, osservando la donna
con fare malizioso e quasi inquisitorio: - Credo proprio che la mia
insonnia mi torturerà ancora per qualche ora, Miss Doppler.
O forse dovrei dire… Signora Boone?
Calcò di proposito le ultime due parole: Daisy si presentava
sempre con il proprio cognome, mai con quello del marito. Era un
concetto che lei stessa condivideva ampiamente.
- Sei terribile – mormorò la bibliotecaria.
- Oh, sì. Non hai idea di quanto!
Senza preavviso, premette con veemenza le labbra contro quelle della
donna più vecchia, serrando una mano sul suo fianco sottile
e l’altra sulla sua coscia.
Daisy emise un gemito di sorpresa, abbandonandosi però
completamente a quel contatto poco casto, portando entrambe le mani sui
lati del volto della ragazza.
Anna la sollevò con poco sforzo, facendola sedere sul
bancone e portandola a intrecciare le gambe attorno alla propria vita.
Alcuni foglietti volarono sul pavimento.
Le labbra della diciassettenne si staccarono lentamente da quelle della
bibliotecaria, scivolando lungo la pelle liscia della mascella, fino a
raggiungere il collo sottile e profumato.
Non represse l’istinto di mordicchiare.
Daisy emise un gemito.
- Sono sicura che tuo marito non ti fa tutte queste cose carine che ti
faccio io – mormorò sadica la giovane, risalendo
con la punta della lingua fino al lobo dell’orecchio
dell’amante, decorato con un piccolo orecchino perlato.
- Mmmh, ma figurati – soffiò l’altra, a
occhi chiusi, la testa leggermente inclinata all’indietro.
– Anche se sai che… tutto questo è
sbagliato…
- Sbagliato – ripeté Anna, emettendo un suono
simile alle fuse della propria gatta.
- Sei così… giovane… - gemette Miss
Doppler, mentre le mani della ragazza cominciavano a sollevarle
lentamente gli orli della gonna. – Non hai nemmeno diciotto
anni…
- Li faccio a Novembre. Ma dentro sono una quarantenne.
– Potresti essere… mia figlia…
- Già. Che brutta cosa. Siamo due laide peccatrici. Sicura
di non provare alcun rimorso per il tuo caro maritino?
Daisy si scostò appena, rivolgendole uno sguardo volpino: -
Chi se ne frega di quell’idiota!
Anna si avventò nuovamente sulle sue labbra con un ghigno.
Le scoprì del tutto le gambe snelle, spostando le dita
sull’orlo delle mutandine bianche.
Cominciò a sfilarle con lentezza esasperante.
- Lo sai – mormorò contro la bocca della donna.
– Puoi sempre fermarmi, se vuoi.
Daisy non la fermò.
Otto rintocchi.
La pressione di quattro zampette famigliari che si spostavano qua e
là sulla sua schiena.
Anna sollevò pigramente il volto dal cuscino, strofinandosi
con una mano gli occhi solcati da profonde occhiaie scure.
Era tornata a casa alle quattro del mattino, ma il sonno era
sopraggiunto soltanto un’ora dopo.
Tysha balzò sul cuscino, cominciando a strusciarsi contro il
mento della ragazza. Era un grazioso felino dal manto nero, che viveva
con la famiglia Donovan da cinque anni e aveva stretto un legame quasi
simbiotico con la maggiore dei tre fratelli.
Non amava gli sconosciuti e tendeva a mostrarsi piuttosto schiva, ma
chiunque fosse riuscito a entrare nelle sue grazie avrebbe guadagnato
di certo un sacco di fusa e plateali manifestazioni
d’affetto.
Anna rispose alle effusioni della gatta con una serie di grattini sul
pelo folto, poi le diede un bacio sulla testa e si alzò dal
letto di malavoglia.
Si trascinò fino allo specchio, cercando di assumere una
parvenza vagamente umana, poi, spalancò le finestre, si
avvolse in una vestaglia leggera e uscì dalla stanza.
Tysha la seguì, strusciandosi contro le sue caviglie nude.
- Sei andata a caccia, stanotte? – domandò la
diciassettenne, prendendo in braccio il piccolo felino non appena
cominciò a scendere le scale. – Mi è
sembrato di notare delle macchie di sangue sul vialetto, quando sono
tornata. Mi auguro tu non abbia portato i resti delle tue vittime
dentro casa. Ci manca solo che alla mamma venga un’altra
delle sue crisi isteriche.
Il suo tono, solitamente duro e distaccato, assumeva tinte mielose ogni
volta che si rivolgeva all’adorata gatta.
Raggiunsero insieme il piano di sotto: David e sua madre stavano
chiacchierando in cucina, suo padre, invece, si aggirava per il salotto
con una tazza di caffè in mano e una calcolatrice
nell’altra.
Ogni tanto si fermava, mormorava qualcosa tra sé, poi
eseguiva un rapido calcolo e annuiva soddisfatto.
- Buongiorno, tesoro – disse, non appena la figlia maggiore
passò davanti alla soglia della sala. – Sei
riuscita a dormire, stanotte?
- Tre ore circa – rispose la ragazza, raggiungendo la porta
d’ingresso e cominciando a girare la chiave nella serratura.
– Faccio uscire Tysha, poi vado a mangiare qualcosa. Jaime
non è ancora tornata?
- No – rispose l’ingegnere, prendendo un sorso di
caffè e immergendosi nuovamente nei propri calcoli.
– Lei e Bess saranno andate a dormire tardi. Avremo
loro notizie forse tra un paio d’ore – aggiunse
infine, con un mezzo sorrisetto.
Anna posò la micia nera a terra, poi aprì la
porta, permettendole di sgusciare all’esterno.
Stava già per richiudere, quando qualcosa sullo zerbino, una
grossa accozzaglia di macchie bianche e bordeaux, intravista la coda
dell’occhio, attirò la sua attenzione.
Guardò in basso. Mise a fuoco. Batté le palpebre,
in un attimo di confusione iniziale.
E poi l’aria attorno a lei divenne gelida, densa e
opprimente.
Una morsa di ghiaccio le serrò la gola, mentre le sue gambe,
lunghe e forti, divennero all’improvviso fiacche, prive di
forza. Dovette aggrapparsi al portone, sostenersi con le braccia per
impedirsi di cadere.
Jamie era tornata a casa. O meglio, qualcuno l’aveva portata
lì. Lasciandola sullo zerbino, accasciata a terra in una
posa contorta e innaturale, bianca come un lenzuolo, gli occhi chiari
sbarrati e vitrei, la gola sudicia di sangue ormai rappreso.
Tysha si muoveva inquieta attorno al suo corpo, annusando, toccandole
di tanto in tanto la pelle fredda con una zampetta, confusa.
Anna si rese conto di aver smesso di respirare da un pezzo soltanto
quando avvertì un fastidioso capogiro.
Emise un sibilo strozzato, afferrando spasmodicamente la maniglia della
porta, quasi a cercare un qualsiasi appiglio che la tenesse ancorata
alla realtà.
Il mondo si fece ovattato e silenzioso, impedendole di udire la sua
stessa voce, mentre chiamava il padre, ripetutamente.
Non udì i passi di lui che si avvicinarono. Non
udì lo schianto della tazza sul pavimento. Non
udì le sue urla, mentre si accasciava sul corpo della
secondogenita.
Rimase immobile, congelata in un oblio di incredulità.
Nel giro di poco, anche sua madre era china su Jamie, urlando,
piangendo, graffiandosi il volto.
Era tutto assurdo. Tutto surreale.
- … qualcuno, Annie!
Ah… i suoni tornarono, confusi ma non abbastanza da
impedirle di decifrarli.
- Annie!
La voce di suo padre.
- Chiama qualcuno, Annie!
Chiamare qualcuno. Sì.
Anna si voltò, il viso paralizzato in
un’espressione di inquietante neutralità. Si
scontrò con David, che, chissà da quanto, aveva
osservato la scena appostato dietro di lei.
- Vai in camera tua, Davey – gli disse.
Si avviò verso il telefono con la sensazione di essere
immersa in una grossa bolla. Sollevò la cornetta. Compose un
numero automaticamente.
Una voce femminile rispose dopo pochi istanti, gracchiante, fastidiosa.
- Dipartimento di Polizia di Derry, qual è la Sua emergenza?
- Emergenza…
(Quale emergenza?)
- Signora? Signorina? È ancora lì?
- Sono Anna Donovan. Chiamo dal numero 15 di Jackson Street.
(Jamie è a
casa).
- Qualcuno ha ucciso mia sorella.
(Jamie è
tornata a casa dalla festa).
- Abbiamo appena trovato il suo corpo davanti alla porta di casa. Sullo
zerbino.
Non attese la risposta. Riagganciò, per poi sollevare di
nuovo la cornetta e chiamare l’ospedale, nonostante fosse
inutile.
Parlò in tono piatto, privo di emozioni. Era come se fosse
qualcun altro a parlare al posto suo.
Le sembrò quasi di osservare la scena
dall’esterno, vedere una ragazza allampanata con i capelli
neri e il volto di porcellana quasi pietrificato che metteva insieme
delle frasi in modo automatico.
Infine, fece una terza chiamata.
- Ninel? Ninel che succede?
La voce di Rose portò uno strano senso di tepore, che
cominciò a irradiarsi in tutto il suo corpo, sciogliendolo
dalla paralisi di ghiaccio.
E insieme alle membra intorpidite, anche le emozioni iniziarono a
sbloccarsi lentamente.
- Jamie… qualcuno ha ucciso Jamie…
- Cosa? Che stai dicendo? Cos’è successo?
- L’abbiamo trovata sullo zerbino appena adesso…
dissanguata…
Alcuni istanti di silenzio. Il respiro di Rose cominciò a
farsi affannoso.
- Ninel… oddio… oh cielo…
- Puoi chiamare tu Jackie?
- Sì… sì chiamo Jackie, poi vengo
lì. Vengo da te. Tra poco sono lì, Ninel.
Riagganciarono quasi in contemporanea. E fu allora che la paralisi
fisica ed emotiva si sbloccò completamente.
Anna cadde sulle ginocchia, il respiro mozzato, lacrime calde le
rigarono le guance.
Poi urlò. Urlò fino a quando non provò
la sensazione di avere una bolgia infernale all’interno della
gola.
***
Angolo
dell’autrice: Bene, ecco il nuovo capitolo.
Spero sia stato di vostro gradimento, è forse più
corto del precedente e molto centrato su un singolo personaggio, ma mi
auguro non sia stato noioso o brutto.
Entriamo nel vivo della storia con una specie di parallelismo tra Anna
e Bill, a distanza di ventisette anni. Georgie e Jamie erano due raggi
di sole ç_ç
Naturalmente, la mia protagonista ha un carattere completamente diverso
dal leader dei Perdenti, è un personaggio molto grigio, non
sempre piacevole (probabilmente a qualcuno starà pure
antipatica) che porta una maschera di ghiaccio per celare emozioni
molto forti.
Mi auguro che la storia tra lei e la bibliotecaria non abbia turbato
nessuno.
Dal prossimo capitolo cominceranno ad avere maggior peso anche gli
altri personaggi, alcuni li avete già conosciuti, altri
verranno introdotti.
Grazie per aver letto, alla prossima!
Tinkerbell92
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