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I.16
Duo
e Relena, in comune, non hanno quasi niente – tranne una certa
tendenza a non
lasciarsi ammazzare (nonostante se la vadano a cercare) e a
mandare i piani di
Heero a farsi benedire; poi, forse, tutt'e due gli vogliono
bene.
Per
questo, sei mesi e mezzo dopo la Battaglia di Natale e tanto
dormire, Heero di
punto in bianco decide di partire, prendendo solamente il tempo
per prenotare
un posto a sedere sul primo volo diretto, oggi stesso, usando
quello che oramai
è il suo nome. Il tempo che non prende, è quello per
interrogarsi ed esitare;
nel dubbio, non prende neppure il tempo per salutare, né prende
altro – ma non
c'è niente che gli possa servire.
Relena,
che lo conosce e non avrebbe avuto bisogno di sorvegliarlo per
intuire la sua
destinazione, lo aspetta già al porto spaziale, davanti al
tornello
dell'imbarco, con un abbraccio, parole criptiche
d'incoraggiamento ed uno zaino
col cambio d'un giorno, tre paia di calzini, una pila eccessiva
di boxer e –
nell'incertezza – di mutande, ed un maglione pesante, perché "il
controllo
climatico su tutta L2 è obsoleto, volatile, incostante". Come
quel
deficiente.
In
cima c'è un biglietto, che Heero vede solo quando è ormai
intrappolato nella
poltrona al centro, tra un uomo obeso–
che russa da mezz'ora prima di romper l’atmosfera – ed una donna
che piange,
discretamente, nascosta tra le rughe e un fazzoletto.
Coraggio. Avanti tutta. Niente
prigionieri. Non guardati indietro.
Heero
l'ha letto quasi sorridendo, pensando a Relena ed al suo
pacifismo, che non le
ha mai impedito di sparare ad una rosa all'occhiello, né
d'ordinare a lui
d'ucciderle il fratello; e ancora le permette di parlargli in
una lingua che
possa capire, per ficcargli in testa che la felicità è l'ultima
missione, e che
fallire non gli è consentito.
Per
tutto il viaggio, stringe le carta in pugno, senza pensare,
senza prendere
sonno: non c’è mai riuscito, a meno che non fosse Duo a pilotare
–neppure in Wing,
con davanti troppe ore di
navigazione ed alle spalle, dietro agli occhi chiusi, troppe
battaglie che
avrebbe soltanto voluto poter non rivedere.
Sbircia
dall'oblò il nero clericale tra le stelle fisse, piantate come
chiodi a reggere
niente. Di tanto in tanto, un frammento di relitto gli fluttua a
un paio di
metri dalla faccia; bussa contro al vetro, memento minaccioso,
di passaggio:
per l'universo, è appena spazzatura, un avanzo, un rifiuto che
non val lo
sforzo del riciclo; per Heero, è quel che resta dei giorni più
bui – le spoglie
di qualcuno che, verosimilmente, ha ucciso lui.
Passato
il lato oscuro della Luna, scruta il sedile di fronte con
rancore; sa che dalla
cabina di comando si scorge in lontananza la destinazione: è la
seconda a
destra nell'ammasso, stando alla cartolina che riporta soltanto
una falce (o
forse un sorriso?) e un indirizzo, nella grafia minuta e
stravagante,
decifrabile a stento, che gl'ha scritto sul cuore.
La
discesa è lenta, quasi impercettibile, inesorabile come una
marea; l’attracco è
uno schianto che gli esplode in petto, con un misto di terrore e
eccitazione,
che non credeva di poter sentire, non senza rischiare di morire.
E forse lo
rischia: la depressurizzazione gli spezza le ossa, gli stritola
i pensieri, gli
schiaccia pure il sangue nelle vene – come un tuffo in picchiata
verso la
termosfera, per fermare un grave che non avrebbe dovuto poter
rallentare, non
con quella massa, quell’accelerazione.
Duo
è da sempre così: una caduta libera; finché si precipita, non
c’è da temere. E
Heero, che si è già buttato a capofitto – o c’è inciampato; è
scivolato, senza
rendersene conto –, si getterà ai suoi piedi a supplicarlo di
rimaner per lui
la gravità ed il vuoto, di non lasciarlo atterrare; e gli
rimetterà le cose
splendenti, spaventose, che si è scovato in petto, come nuove,
ma non sa
maneggiare. Duo è un ottimo ingegnere, un pilota brillante; ha
un intuito
selvatico e geniale – un puro istinto per la matematica; per la
natura umana,
profonda comprensione –; ha un senso morale: saprà quello che è
giusto fare,
saprà come.
Heero,
dal canto suo, sa solo come vincere una guerra: a denti stretti,
pugni chiusi,
e a testa alta;sputando
l’anima,
pulendola da terra con quattro stracci e un po’ di segatura, per
non perderla
tutta; squartando e ripartendo la speranza – in Relena, l’amica
in cui si
sarebbe rispecchiato, se fosse stato un uomo migliore; negli
altri, che avevano
qualcosa da sacrificare, pronti più di lui a perder tutto; in
Zero-Due, l’ombra
e il guardiano, giullare e giustiziere, il compagno fidato che
non ha potuto
abbandonare, quello che ha sempre creduto nel futuro, donandogli
qualcosa da
agognare, di soppiatto; l’ultimo quarto, quello personale,
riposto in Wing, tra
il Sistema Zero ed il motore, o nel pulsante di autodistruzione.
Della pace,
però, non sa un bel niente; dunque ha bisogno di farsi guidare,
e di qualcuno
che non sia da proteggere bensì da custodire, da cui ritornare,
che possa
capire.
Sospeso
sulla rampa, un attimo, tentenna, si sente esitare; somiglia a
uno svenire. Gli
altri passeggeri, che hanno ancora fretta di sbarcare, lo
urtano, lo fanno
sobbalzare; per poco, il ciccione non lo scaraventa oltre il
parapetto, con
un’occhiataccia e borbottando un insulto. La punta di una scarpa
sfiora il
secondo scalino, appena appena, in bilico tra i piedi per terra
e la mezz’aria,
su un precipizio il cui fondo non s’osa neppure immaginare: è un
pendolo
impossibile, una carezza oscena; traccia la linea d’un confine
che lo
paralizza, col più puro terrore sia di discendere sia di
risalire. Allora Heero
stringe il corrimano così forte da imprimere al metallo la forma
delle dita,
probabilmente pure quella delle nocche: se lo lasciasse,
annegherebbe – senza
mare, senza sole né sale –; sarebbe alla deriva a consumarsi,come un’impurità
nell’aria rifiltrata,
artificiale.
La
donna triste che era alla sua destra, è l’ultima ad uscire,
fermandoglisi
accanto a sfiorargli un braccio con l’indice ed il medio in un
guanto da lutto;
con quella simpatia egoista, sussiegosa, di chi ci crede affetti
dalla stessa
lebbra, gli dice in uno sguardo di scernere il suo male, per
davvero, d’averlo
patito, d’averci creduto, finché non è passato, come tutto il
resto, assieme
alla pena che, in fondo, non è valso.
“Si
viene su L2 per essere dimenticati, o per dimenticare”,
aggiunge, in una chiosa
all’essenziale. “L’una o l’altra cosa. O entrambe, normalmente”.
Poi gira su
tacchi troppo alti per non far rumore, e se ne va, verso una
casa vuota come un
mausoleo, a raccontarsi che l’Universo è una tomba e che non c’è
più niente da
aspettare.
No!, Heero
vorrebbe richiamarla; no!, vorrebbe risponderle, no
e che ha
torto marcio: che nulla al mondo è più vivo o più
indimenticabile di Duo; che
con lei da spartire ha avuto soltanto il bracciolo tra i posti C
e D della fila
undici, sul rapido ESA-268, da New Port City a L2-V08744, delquattordici
luglio centonovantasette, alle
diciannove e venticinque (tempo di percorrenza: trentasei ore);
che anche il
dolore – anche il sangue sparso, quello sotto le unghie, quello
che non si
secca e non si lava – deve avere un senso, o almeno un valore;
che non è venuto
qui a morire, né per scomparire, ma per azzardo, per quella
scommessa
spaventosa e sconsiderata, che ci spinge a puntare una libbra di
carne – sempre
la stessa, la libbra che si strugge a stare sola nel suo guscio
di costole e
polmoni –, sperando di scambiarla con un’altra, nel giro d’una
mano fortunata;
che, sotto le armi, Heero non s’è mai tirato indietro e, in
tempo di pace, non
ha alcuna intenzione d’iniziare. Gli mancano però la voce e le
parole.
Non
sarebbe mai dovuto partire: sarebbe dovuto restarsene a dormire,
perché dormire
concede il lusso di sognare; e se da un incubo ci si può
risvegliare (sovente
con un bagno di sudore e, alla bisogna, tre dita di liquore), un
sogno infranto
non concede scampo, ce lo si porta indosso, finché non ci si
scordi del
fantasma che c’infestava i giorni e rischiarava le notti, di
come si chiamasse,
e di che cosa sia desiderare.
Chi
l’ha detto, poi, che Relena ha sempre ragione? Da un paio
d’anni, quasi tutti i
giornali, i vecchi amici e i soliti nemici, i politicanti
reticenti, e quella
vocina che Heero sospetta sia la sua coscienza; lo diranno anche
i libri di
storia, in una manciata di decenni.
“Guardati,
Yuy: da terrorista a naufrago in porto… Sei solo un vigliacco”,
gli
mormora la vocina nella testa; nel tono, l’inflessione e la
cadenza, ha
qualcosa di Duo, o dei richiami che echeggiano dal molo – nelle
vocali ampie,
le i pungenti, in quelle o profonde. Forse sono
loro a farlo rinsavire.
Dalla
stiva rimbomba un cazzo, Peppi’, fotti a muovere il culo!,
in direzione
dello scaricatore che – all’ombra d’una pila di bagagli, tra due
carrelli e una
colonna portante – ha appena messo in bocca una mezza sigaretta
e già sta
inspirando sulla fiamma. Peppi’, dunque, risponde con un Porco
Dio, un Santa
Madonna ed un Cristo Signore!, costruiti assieme
in quella che Heero
non capisce se sia una devozione o una bestemmia – del resto,
non è affatto
convinto che qui faccia alcuna differenza: su L2 smadonnano
anche gli angeli ed
i santi, per non parlar dei preti; le imprecazioni sono litanie,
sacramenti; le
ingiurie, preghiere cantate come salmi, struggenti, trionfanti
come inni; e
forse, in fondo, son tutti chierichetti, diaconi, celebranti, i
facchini, i
piloti, i meccanici, i piccoli mercanti e le passeggiatrici, i
figli della
guerra, tutti gli altri infelici, che dicono una messa e un
vaffanculo al
Padreterno, per ciò che non ha fatto e non avrebbe scuse manco
se fosse morto.
Quassù,
il cattolicesimo è un dato di costume, di folclore; è uno
stendardo, un piatto
nazionale, coi Sauerkraut e colla pastasciutta, o
quella birra scura,
densa come crema (che sa di erbe amare e cioccolata), che nelle
sere livide,
senz’altro da fare se non aspettare ed ignorare il dolore, prima
di
ripartire,Duo si
coccolava tra le mani,
con tenerezza, con una devozione ch’è quasi fede e somiglia
all’amore, bevendo
lentamente per non lasciarla finire – porgendogli il bicchiere
per fargliela
assaggiare, sempre con un sorriso ed il sorso migliore.
Quassù,
finanche la miseria ha il proprio splendore, la propria dignità,
ed un
buonsenso che è pragmatismo commisto al disincanto: niente è per
niente; la
pace è una conquista; e la libertà è fragile ed è cara, non è un
regalo e neppure
un favore.La
felicità, quassù, è un
lusso che si ruba e che si spezza, un pane della messa, da
afferrare e spartire
quando nessun altro sta a guardare, contorno ai sacrifici ed
all’agnello
pasquale, ai debiti eagli
oltraggi che
non si potrà mai restituire.
Quassù,
si ricostruisce al risparmio, badando all’essenziale: gli astri
sono luci
fulminate, contro un firmamento di metallo, rattoppato alla
meglio coi resti
della guerra e dell’assedio mischiati a qualche altro rimasuglio
(il tutto è
quasi bello); ed i lampioni accesi per le strade vanno a
intermittenza,
funzionano abbastanza per lasciare vedere a sufficienza.
Heero,
dunque, s’incammina puntando in una sola direzione. Peppino lo
indirizza dopo
neanche una mezza domanda: c’è un chiostro di caffè all’angolo
del corso
principale ed è assolutamente da evitare; e un autobus che passa
sì e no ogni
altra ora, se la giornata è buona o se Marte e Plutone sono in
congiunzione (ma
uno dei due autisti stabilisce a caso il tragitto che gli pare);
si prende un taxi
nei porti di L2 soltanto per scoprire che, sorprendentemente, si
ha qualcosa da
perdere o da farsi rubare; a passo spedito, di qui a
quell’indirizzo sono
cinquanta minuti, contando pure il tempo per fumare.
Heero
non cammina: Heero marcia. E passa strade ampie che si fanno più
strette, tra
fila di edifici in pura architettura coloniale – spartana,
inelegante,
funzionale – rallegrati però da sprazzi di ferraglia e di
colore; e chiazze
sparse d’erba finta, scolorita, che nessuno s’è dato premura né
di rimuovere né
di rimpiazzare; poi, crocchi di marmocchi che si rincorrono e
giocano alla
buona, con quello che capita e il poco che si trova, regine,
gran dottori,
cavalieri, in calzoncini e gilet rattoppati ma puliti e stirati;
ed agli
incroci, cartelli bianchi e neri, che annunciavano un tempo nomialtisonanti (di
nobiluomini, politici,
personaggi importanti) adesso cancellati con un tratto di sbieco
a penna rossa,
corretti dunque in segni di speranza o ideologia (Via Gandhi,
Via
dell’Armistizio, Piazzale della Pace, Slargo Socialismo; Vicolo
Yuy; Viale
Libertà; Corso degli Innocenti…),a mano
libera e con pennarelli variopinti. Le turbine invecchiate
ronfano un
concertoin
sottofondo; e il rombo del
motore che fa girare questo piccolo mondo in senso inverso a
tutto l’universo,
riverbera nel ferro dalle profondità della colonia, fino a far
tremare il
pavimento, vibrarele
pareti, su fino ai
soffitti, per perdersi in un brivido lungo la curva del cielo;
gli fa compagnia
e gli scandisce il passo.
In
meno di mezz’ora è ad una porta chiusa; neanche una finestra è
illuminata. Per
trenta secondi, Heero è persuaso di essersi perso, d’essersi
sbagliato,
svoltando a destra invece che a sinistra tra Viale Speranza e
Corso dei Defunti
– o forse sarebbe dovuto andare fino in fondo. Ma il posto
giusto è senza
dubbio questo; Heero l’avrebbe saputo anche s’avesse ignorato
l’indirizzo: la
ferraglia, in pile, ammonticchiata intorno, è effimera ed è
vuota,
mostruosamente fragile e consunta; ma all’occhio esperto del
saldatore e
dell’ingegnere, al genio dell’artista, è un’intuizione ovvia il
come ripararla,
il puro potenziale di quello che potrebbe diventare.
Heero
è a sua volta un avanzo di gundanium, un’arma dismessa che
nessun altro
saprebbe convertire in qualcosa di più o meno nuovo e
funzionale, che possa
servire – un amico; un amante; un bambino vero, di anima e di
carne, in grado
un giorno d’essere felice, di diventare grande. Sarebbe, invero,
dunque qui il
suo posto: ad aspettare, cogli altri pezzi d’acciaio e di
titanio, tra i fili
di zinco aggrovigliati con quelli di rame, che Duo ritorni, tra
cinque minuti,
forse venti, oppure tra trent’anni.
Invece,
sfila dallo zaino il maglione ed il biglietto che gl’ha lasciato
Relena –
l’uno lo mette addosso, l’altro in tasca, accanto alla cartolina
–, e
s’incammina ad esplorare le viuzze anguste ma diritte del
quartiere, seguendo
le orme dei randagi che, tra tutte le colonie, soltanto su L2,
inquasi
duecent’anni, sono riusciti a proliferare.
Passeggia assieme a loro, pigramente; osserva l’ondeggiare delle
code dei gatti
sull’unico scalino di Santa Sofia, di fronte alla facciata
principale; e non
bada alla gente, finché non lo scorge, come un miraggio, od
un’epifania in una
luce al neon che non perdona: incorniciato dalla vetrina del
droghiere locale –
che, a detta dell’insegna, è anche l’osteria, il barbiere, e
l’ufficio postale
– chino sul bancone, parla con vecchio baffuto, animatamente,
sventolando un
boccale.
Il
nero, addosso a Duo, è il colore più allegro, più brillante – ma
mai splendente
quanto il suo sorriso un momento dopo, quando, voltatosi, anche
lui lo vede.