Attraversò la
Seireitei in silenzio, senza mai voltarsi indietro, col suo solito
passo deciso e la schiena ben dritta, restituendo con risoluta
freddezza le lunghe occhiate che i rari passanti gli dedicavano.
La maschera demoniaca dai lineamenti sogghignanti non bastava a
nascondere il folle, istintivo furore che baluginava, a tratti, nelle
iridi dorate. Le pallide braccia coperte di cicatrici stringevano,
quasi a volerla nascondere al resto del mondo, l’esanime e
sanguinante figura dai tratti così familiari...
Entrò nei laboratori della Sezione Scientifica, in perfetto
silenzio, lanciando gelide occhiate distanti all’immobile
realtà che adesso lo circondava. Vedeva più
oscura ogni cosa, nella fulgida luce del giorno beffardo che,
crudelmente, le aveva strappato in un attimo l’unica persona
a cui tenesse davvero.
Oltrepassò in pochi e rapidi passi il cantuccio nascosto in
cui stavo accucciata, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi
per paura di scorgere, ancor prima del ghigno infernale che nascondeva
il reale dolore del suo volto, la piccola mano insanguinata che
spuntava, priva di vita, tra le pieghe dello shihakusho a brandelli che
lui sorreggeva.
Un unico movimento, un ampio e nervoso gesto della mano nella mia
direzione: mi caddero in grembo, un po’ sporchi e strappati,
la fascia del vice-Capitano e il drappo di stoffa scarlatta che lei era
solita portare legato ai capelli, dietro all’orecchio destro.
Fu in questo modo che divenni luogotenente della dodicesima Divisione:
senza una cerimonia, nè festeggiamenti, nè lodi.
Col cuore pesante ed oppresso dal pianto e dalla disperazione, con la
certezza di avere perduto per sempre la mia alleata, la mia amica, mia
madre.
Stringendo tra le dita la stoffa leggera col simbolo del cardo inciso
sulla piastra di legno, serrai le labbra fino quasi a farle sanguinare,
per impedirmi di scoppiare in lacrime di fronte al mio Capitano.
Non avrebbe tollerato una simile debolezza. Aveva sempre detestato la
mia sola esistenza, e per ogni giorno trascorso nel mondo da quando ero
nata fino a quell’evento era soltanto lei che dovevo
ringraziare. E adesso, ne ero certa, colui che per la scienza e la
tecnica era stato mio padre, mi aveva lasciato in vita solo per
rispetto del ricordo che conservava in sè di quella persona.
Ero io, ad esserle stata più vicina negli ultimi tempi. Io
avevo assorbito i suoi insegnamenti, avevo imparato il suo modo di
combattere, avevo ascoltato le sue storie. Io ero il salice che lei
aveva piantato, e nonostante la tempesta non mi sarei mai spezzata,
perchè sapevo piegarmi sotto il peso del dolore e portare in
silenzio il mio fardello, fino quasi a farlo sembrare più
leggero.
Lui era la quercia, e nonostante i suoi modi prepotenti e determinati
potessero a volte farmi del male, era il suo animo stavolta ad essere
stato davvero colpito dall’accaduto. Io non potevo far niente
per lui, eravamo due mondi distanti. Rimasi in silenzio, come sempre,
in attesa, sapendo che se mai mi fosse successo di deludere ancora
qualcuno, stavolta non ci sarebbe stata una ragazza dai capelli
argentei e il sorriso gentile a risollevarmi e prendermi per la mano.
Seppellimmo Rin Hisegawa con una semplice cerimonia silenziosa, io e
gli altri ragazzi della dodicesima Divisione, senza che nessuno, o
quasi, giungesse dalle altre Squadre del Gotei a portare le sue
condoglianze.
Soltanto un giovane dai capelli corvini, uno shinigami della terza
Divisione di nome Felio Sanada, mi raggiunse un giorno nei pressi della
tomba per esprimere il proprio dispiacere. Brevemente,
raccontò la sua storia.
Aveva conosciuto Rin all’Accademia per shinigami, molti anni
prima, quando erano poco più che bambini. Erano diventati
subito grandi amici, e lui ricordava quei giorni col sorriso, come se
parlandone li stesse rivivendo, nella mente, uno ad uno.
Si era innamorato di lei, credo, anche se non me lo disse chiaramente.
Era triste, nel guardare la misera croce di pallido legno leggero, e
forse anche lui come me si chiedeva se Rin fosse davvero andata, come
dicevano, in un luogo migliore.
E io, intanto, avevo preso la mia decisione.
- Vorrei che questa la tenessi tu, - gli dissi semplicemente, al
momento del congedo, porgendogli la fascia di stoffa scarlatta che
avevo accuratamente conservato dal giorno in cui il Capitano me
l’aveva affidata.
Lui mi lanciò un’occhiata stupita, esitante: non
capiva.
- Sono sicura che lei avrebbe voluto parlarti un’ultima
volta, e salutarti come si deve. - spiegai, in uno dei miei rari
momenti di loquacità.
Quel ragazzo dagli occhi color smeraldo, un po’ imbarazzato
nell’accettare l’oggetto che gli porgevo,
risvegliava in me una sensazione che sulle prime mi fu impossibile
decifrare. Il suo modo di manifestare il dolore, con controllata ma
disarmante spontaneità, era così diverso dalla
fredda collera cieca che Kutotsuchi-sama si ostinava a mostrare!
Sanada-sama, senza timore di apparire “troppo
umano”, esprimeva il cordoglio con i gesti e le parole di chi
ha perso una persona a lui cara. Mio padre, pur avendo provato per Rin
un sentimento che era il più simile all’amore, non
riusciva a far altro che mostrare il proprio dolore attraverso
l’ira, l’odio, la rabbia.
Da giorni, ormai, nessuno lo vedeva più aggirarsi per la
Sezione Scientifica come un tempo era solito fare. Se ne stava
rinchiuso da solo, nel suo silenzioso laboratorio sotterraneo, senza
uscire neppure per consumare i pasti o dormire nella propria stanza.
Non voleva incontrare nessuno, e nessuno avrebbe voluto vederlo:
sebbene non riuscissero a condividere la sua visione delle cose, tutti
avevano capito che sarebbe stato meglio lasciare che il Capitano
elaborasse il proprio lutto nella maniera che riteneva più
opportuna.
Trascorsero le settimane, e finalmente Kurotsuchi-san riemerse
dall’oscurità del suo laboratorio. Era magro, e
ancora più pallido di quanto già non fosse; molto
più silenzioso, i suoi occhi da dietro la maschera fissavano
il mondo con una freddezza che nessuno aveva mai visto.
Una spessa sciarpa di stoffa pesante copriva interamente il suo collo,
nascondendo alla vista la pelle che la scollatura dello shihakusho
avrebbe altrimenti lasciato scoperta. Era strano, più strano
del solito, e compiva i propri esperimenti con uno zelo ed un
accanimento che avevano qualcosa di insano e febbrile.
Quando mi resi conto di ciò che aveva fatto, fu quel giorno
che mio padre iniziò a farmi davvero paura.
Credeva che non lo vedessi, forse, o forse aveva deciso che non gli
importava. Se qualcuno delle altre Divisioni avesse anche solo
immaginato ciò che io con questi occhi ho visto, adesso
Kurotsuchi certamente non sarebbe più Capitano.
Sulla pelle cinerea del torace e della schiena si aprivano una serie di
lunghe e profonde incisioni, ricucite piuttosto maldestramente per
mezzo di spessi punti da sutura. Non c’era bisogno di
chiedere spiegazioni per comprendere il motivo di simili ferite:
Kurotsuchi Mayuri era tornato ad essere la cavia di se stesso.
In cerca di un motivo per poter dimenticare, gettandosi nel lavoro
nella speranza di sfuggire dal resto del mondo, una volta esaurito il
materiale su cui compiere i propri esperimenti il Capitano non si era
fermato. Aveva sperimentato sul proprio corpo, considerandosi alla
stregua di un cadavere: infondo cos’è, una
creatura priva di una ragione e uno scopo, se non un cadavere che
ancora cammina?
Mi avvicinai, desolata, a quell’uomo che nonostante tutto
consideravo mio padre. Non avrei saputo cosa dirgli, nè che
fare, e se lui si fosse voltato forse sarei semplicemente scoppiata a
piangere.
Ma lui non lo fece, non mi guardò neppure.
Rimase immobile, ignorandomi, il volto coperto dalla maschera che
fissava un punto lontano fuori dalla finestra, in direzione della
piccola croce di legno, sulla collina. Non gli importava di me, non
gliene sarebbe mai importato.
Lo sapevo, lo avevo sempre saputo, era semplicemente il nostro modo di
esistere l’uno per l’altro, il nostro equilibrio
particolare. Eppure quel giorno, per la prima volta, mi posi la domanda
che ancora oggi continua a tormentare le mie ore: con quale diritto, o
con che orgoglio, posso vantare il privilegio di essere tuttora al suo
fianco...?
Per quale motivo sono io, Nemu Kurotsuchi, ad essere rimasta ancora in
vita...?
|