CAPITOLO 3
- IL VIAGGIO -
Si
svegliò proprio nell'istante in cui i caldi raggi del sole
iniziavano ad affiorare dall'est, portando con sé la
promessa di un nuovo giorno.
Cercò di non indugiare troppo in quel luogo pieno di ricordi
e raccolse piuttosto in fretta le bisacce; non era del sentimentalismo
che aveva bisogno, in quel momento. Solo una volta giù
dall'albero si concesse un'ultima occhiata alla sua casa; anche se non
sapeva se mai ci sarebbe tornata aveva calato tutte le coperture
necessarie a celarne la presenza, tanto che se non avesse saputo dove
guardare mail'avrebbe potuta intravedere. Esitando più di
quanto avrebbe voluto,si voltò e prese a camminare in
direzione dell'accampamento dei soldati, lasciandosi alle spalle il
grande albero e tutto ciò che rappresentava.
Non ci volle molto per arrivare in vista del bivacco e quel poco tempo
le diede ancor più idea di quanto i soldati si fossero
avvicinati alla casa sull'albero; un brivido poco rassicurante le
scosse la spina dorsale. Era già tutto pronto,
constatò: le tende erano scomparse e al loro posto, legati
ai rami più bassi di un giovane albero, c'erano otto
cavalli. Sette di loro erano della stessa razza, tutti di un colore
rossiccio, evidentemente stalloni da guerra. L'ottavo lasciò
Freya a bocca aperta: era un animale enorme, dalle zampe grandi e
robuste ricoperte di folto pelo fulvo; gli zoccoli, larghi e ben
piantati, sembravano poter passare sopra qualunque ostacolo; il crine
era nero e il manto bianco, ricoperto da grandi e bellissime macchie
scure. Non appena avanzò di qualche passo, lo stallone la
notò e la guardò con i suoi grandi occhi scuri e
limpidi, grattando al suolo lo zoccolo della zampa anteriore destra. I
soldati la videro solo grazie al movimento dell'animale.
«Speravo che avreste accettato» le disse il
capitano, accompagnando le sue parole con una breve riverenza che la
mise a disagio tanto quanto il giorno prima.
«Sarò felice di sapere qualcosa in più
della mia storia» si limitò a rispondere la
ragazza, senza sbilanciarsi troppo. Non dovevano sospettare quanto poco
ancora si fidasse di loro, ma non gli avrebbe nemmeno lasciato credere
che fosse una sciocca ragazzina pronta a credere a qualunque cosa le
venisse propinata. Per quanto diffidente, non poté impedirsi
di sgranare gli occhi quando il capitano Craius le porse proprio le
redini del grande stallone, che le si avvicinò di buon
grado. Freya guardò l'uomo, senza capire.
«Questo stupendo stallone è discendente diretto di
quello che un tempo fu il cavallo di vostro padre» le
spiegò il comandante. «La Regina Mirea mi ha
incaricato di consegnarvelo come suo dono personale. Vorrebbe che foste
voi a dargli un nome.»
Freya lo guardò pensosa, poi decise che avrebbe capito quale
fosse il nome più adatto a lui solo dopo averlo cavalcato.
Agganciò tutte le bisacce alla sella dello stallone e poi vi
montò. La sensazione che mani invisibili la legassero a
doppio filo a quella meravigliosa creatura la lasciò quasi
senza fiato. Le era sempre successo di sentirsi in sintonia con tutto
ciò che l'intera natura comprendeva, tanto che mai le era
accaduto che qualche bestia selvatica la aggredisse. Poche volte le era
però accaduto così intensamente.
Lo spronò a muovere i primi passi e in quell'istante il
capitano si voltò verso di lei: «Il viaggio
sarà particolarmente lungo, Lady Freya. Avremo la
possibilità di fare sosta in più di un centro
abitato, ma spesso saremo costretti a dormire all'aperto. Rappresenta
un problema, per voi?»
Freya dovette trattenere una lieve risata in gola, sia per
l'assurdità di quel "Lady" apposto al suo nome che per la
domanda in sé; sembrava che la credesse fatta di vetro. Si
limitò a sorridere, asserendo: «No, capitano. Non
temete per me, sono più resiliente di quanto non
sembri.»
Craius le rivolse un brevissimo sorriso, prima di portare l'attenzione
sui suoi uomini. «Compagnia, in sella. Il percorso
è lungo e dobbiamo sfruttare ogni attimo per consumare
miglia» ordinò, perentorio. I soldati montarono a
cavallo senza una parola e in breve formarono un'ordinata colonna, per
quanto permettesse lo stretto sentiero.
Freya non aveva mai cavalcato prima, ma il da farsi le venne istintivo:
invitò con un leggero colpo di talloni il suo stallone a
muoversi e aggiustò la presa sulle redini. Ebbe solo un
brevissimo istante per riflettere un'ultima volta su quello che stava
per fare: lo spese voltandosi all'indietro e guardando la parte a lei
conosciuta della foresta che si allontanava sempre di più
alle sue spalle.
Cavalcarono ininterrottamente per tutta la giornata. Nonostante le
grandi zampe, notò la giovane, lo stallone si districava
bene nella foresta, tra le fronde basse e le radici nodose dei grandi
alberi. Era una dote piuttosto utile, contando il fatto che in quel
punto la foresta era particolarmente estesa e intricata.
Arrivata la notte, si accamparono in una radura grande abbastanza da
ospitare le tende dei soldati. Quando il comandante Craius ne
offrì una a Freya, la ragazza rispose che preferiva dormire
sotto le stelle; preparò un giaciglio con le coperte che si
era portata e, dopo aver tolto il fastidioso morso al cavallo, si
recò al rigagnolo che scorreva lì accanto per
darsi una rinfrescata. Consumata poi la propria cena, si sedette con la
schiena appoggiata al grande tronco alle sue spalle.
Lo stallone pascolava placidamente l'erba che cresceva attorno
all'albero. Era da tutta la giornata, rilassata dalla regolare andatura
del suo passo, che pensava a un nome da dargli, ma solo in quel
momento, ferma a guardare il cielo che risplendeva di stelle sopra la
radura, le venne spontaneo un nome. Si alzò e il cavallo le
venne incontro, come se avesse percepito che dovesse dirgli qualcosa;
la ragazza gli posò una mano sul muso e gli disse
dolcemente: «Stellato. Questo sarà il tuo nome, se
vorrai portarlo.»
Il cavallo emise un nitrito di soddisfazione che fece voltare
brevemente i soldati nella sua direzione.
La ragazza sorrise lievemente. «Allora è
deciso.» Poi, tornò a coricarsi accanto
all'albero, chiudendo gli occhi. Non appena fu sola nel buio della
propria mente, fu assalita dall'enormità di tutte le
decisioni che aveva preso.
Davvero sua sua madre sarebbe stata fiera di lei, se avesse saputo a
che cosa aveva scelto di andare incontro? Sì,
capì infine, lo sarebbe stata. In fondo, era stata lei a
insegnarle che in un mondo governato dalla prepotenza qual'era il loro
perseguire la verità e la giustizia fosse una
virtù fondamentale per accendere una luce nel buio. Con
quella consapevolezza si addormentò e, in qualche modo,
riuscì a coltivarla dentro di sé anche nei molti
giorni di viaggio successivi.
La prima sorpresa arrivò già appena superata la
parte più profonda della foresta, quando improvvisamente
Freya si ritrovò a cavalcare sulla strada più
grande che avesse mai visto. Doveva essere relativamente recente,
perché non ve n'era traccia sulle cartine che aveva avuto
fra le mani lei, probabilmente antecedenti alla conquista di Mirea. Da
quel momento in poi, iniziarono a incrociare viandanti, sia solitari
che in gruppo, carri di tutte le dimensioni e altri drappelli di
soldati a cavallo diretti chissà dove. Man mano che si
avvicinavano al cuore di Riagàn, la loro meta, il viavai si
faceva sempre più frenetico e caotico. Passarono quello che
una volta era stato il confine senza che Freya nemmeno se ne
accorgesse, troppo impegnata a cercare di abituarsi a tutte quelle
novità.
Il vero e proprio Regno di Riagàn, così come lo
era stato fino a cent'anni prima, era molto più piccolo del
territorio controllato ora dalla sovrana. Quando aveva preso il potere
Mirea aveva iniziato lentamente a espandere i domini di
Riagàn e adesso villaggi e piccoli centri urbani erano sorti
dove prima c'erano solo boschi e luoghi completamente disabitati. Pochi
erano gli angoli di Finian che gli esseri umani non fossero riusciti a
raggiungere e uno di questi era la piccola porzione di foresta in cui
viveva Freya. Gli altri erano i cuori delle Antiche Terre: la ragazza
aveva passato tutta la propria infanzia a domandarsi se prima o poi
qualcuno sarebbe riuscito a raggiungere di nuovo gli altri popoli nei
loro territori remoti. In fondo, era da uno di quei luoghi che sua
madre proveniva, anche se aveva sempre continuato a ripeterle che non
sarebbe mai potuta tornare fra la sua gente. In ogni caso, erano
pensieri che forse, nel posto in cui stava andando, avrebbe fatto
meglio a tenere per sé.
Mano a mano che il viaggio proseguiva, la giovane si rendeva sempre
più conto che probabilmente a Errania non avrebbe avuto
nemmeno la stessa libertà di espressione a cui era abituata.
Eleana le aveva sempre permesso di dar voce alla propria opinione, se
lo voleva, ricordandole semplicemente di farlo nei giusti modi; il suo
pensiero era sempre stato libero di articolarsi in parole, fin tanto
che lo faceva educatamente. Le persone che le passavano davanti,
villaggio dopo villaggio, sembravano in qualche modo frenate dal farlo.
Freya imparò come spesso la gente preferisse il silenzio,
soprattutto sotto lo sguardo di chi, in qualche modo, era considerato
loro superiore. In quel mondo che lei ancora non capiva, nessuno pareva
dire mai del tutto ciò che avrebbe voluto, nemmeno con
gentilezza.
Mentre gli zoccoli di Stellato la portavano lontano da casa,
così come nelle notti trascorse in tenda o nella camera di
qualche locanda, Freya cercava di ripetersi che quelle donne e quegli
uomini non erano poi tanto diversi da lei. Nonostante questo, loro non
sembravano pensarla esattamente alla stessa maniera: la ragazza sentiva
i loro sguardi su di sé, vedeva il timore nelle loro
espressioni quando notavano le sue orecchie a punta. Iniziò
a sentirsi una specie di creatura leggendaria ricomparsa dai recessi
delle loro memorie, qualcosa che fino al giorno prima non pensavano
potesse ancora esistere. Aveva provato a fare finta di niente, ma non
era abituata a tutta quella attenzione, né a tutta quella
presenza umana.
Anche mia madre si
sentiva così?, iniziò a chiedersi
costantemente. Tutti
quegli sguardi le hanno mai fatto pesare il suo essere elfa?
La sera, quando riuscivano a pernottare al cado di qualche struttura,
Freya mangiava velocemente e si rintanava nella stanza che avevano
tenuto per lei, beandosi della solitudine. A lungo quella
restò una sua abitudine, seppur accompagnata dalla
consapevolezza che, oramai, nulla nella sua vita sarebbe potuto restare
uguale per molto.
Il suo carattere, in ogni caso, sopportò imperterrito tutte
le prove a cui venne sottoposto. La sua curiosità la
portò comunque a trarre immensa gioia da tutto
ciò che aveva occasione di scoprire per la prima volta. Per
quanto la giovane non riuscisse ancora a capire come funzionasse la
società in cui gli esseri umani si muovevano, rimase fin da
subito affascinata dalla loro capacità di costruire
pressoché qualunque cosa. Dapprima, nei piccoli centri
urbani in cui sostavano, imparò ad apprezzare ciò
che scaturiva dal lavoro degli artigiani; non importava quale materiale
trattassero o cosa ne facessero: vedere le loro mani usare con perizia
gli strumenti del mestiere e creare tutto quello di cui le persone
potevano aver bisogno aveva il potere di incantarla. Anche lei aveva
spesso dovuto trovare il modo di mettere insieme quello che le serviva,
ma c'era un'enorme differenza tra farlo per mera necessità e
farlo anche per passione; la si vedeva nell'amore e nella cura per i
dettagli, oltre che nel risultato finale.
Quando giunsero poi nella prima delle due grandi città che
li separavano dalla capitale, per la prima volta Freya vide fin dove
l'inventiva e l'abilità degli abitanti di Riagàn
era capace di arrivare. Non aveva mai visto nulla di simile a quegli
edifici di pietra, pesanti, imponenti, tanto solidi. La sua casa
sull'albero sembrava prossima a crollare al primo alito di vento, se
paragonata agli enormi palazzi di Concivis. Mentre vi cavalcava
attraverso, la giovane non ne perse nemmeno il più piccolo
scorcio. Era un luogo molto curioso: alle case più semplici
si alternavano strutture dalla pianta rotonda, simili a basse e larghe
torri, spesso arricchite da pitture che fregiavano il contorno di porte
e finestre; a fare da sfondo a quelle opere d'arte, il colore giallo
declinato in centinaia delle sue tonalità. Sembrava una
caratteristica comune a tutti gli esterni dei palazzi, dalla periferia
al centro. Nel vedere la sua curiosità, il capitano Craius
le spiegò che quello ero lo stile architettonico peculiare
di Concivis e che in nessun'altra città avrebbe trovato
qualcosa di simile.
Vi sostarono per un paio di giorni, il tempo necessario a fare un
pò di rifornimento, prima di proseguire in direzione di
Plametia. Come le aveva detto il capitano, la città, che
sorgeva al centro di una vasta pianura, non condivideva nessuna
caratteristica con la precedente: gli edifici di Plametia erano
costruiti in pietra scura, grezza, su cui ogni tanto faceva capolino
qualche bassorilievo. La pianta dell'intero centro urbano era un
perfetto incrociarsi di strade, che scorrevano parallele o
perpendicolari le une alle altre, in assoluta simmetria. Perfino per
Freya, che in mezzo a tutte quelle vie si sentiva un pò
disorientata, sarebbe stato difficile perdersi.
Solo una cosa accomunava quei due luoghi: il misto di stupore e timore
che suscitavano nell'animo della giovane. C'era una parte di lei che
bramava di sapere, che spingeva per poter assorbire quante
più nuove nozioni e immagini potesse; l'altra, invece, era
quella che percepiva la sostanziale differenza fra sé e ogni
altro elemento che la circondava. Dimenticare gli sguardi era
più facile, quando la sua attenzione era catturata da altro,
ma nulla avrebbe mai potuto cancellarli del tutto.
Presto, lasciarono anche Plametia e fu mentre la grande porta della
città si allontava alle sue spalle che Freya
iniziò davvero a realizzare: la capitale si faceva sempre
più vicina e con essa anche l'ora della verità.
Era il tardo pomeriggio dell'ennesimo giorno trascorso in sella
quando,in lontananza, videro finalmente il castello e la
città che gli si espandeva al fianco. Proseguirono ancora
per diverse ore e infine, quando la sera stava iniziando ad allungarsi
sulla terra, vi giunsero. La capitale, Errania, era immensa e in un
certo qual modo terrificante, molto più di quanto non lo
fossero Concivis e Plametia, gli unici metri di paragone che Freya
avesse: era una distesa di case e palazzi, circondata da una spessa
cinta muraria che impediva qualunque sguardo esterno sulla sua vita;
oltre solo il castello, arroccato su un'altura che la dominava. Era
lì che si stavano dirigendo, tenendo i cavalli a un trotto
sostenuto.
Il pesante cancello era stato lasciato spalancato in vista del loro
arrivo e a Freya non restò altro da fare che seguire i
soldati nell'ultimo tratto di quell'improbabile viaggio.
Sentì i propri muscoli irrigidirsi progressivamente, come
pronti per scattare a un imminente pericolo, ma comunque, quando fu il
momento, entrò nel cortile del castello. Guardie e servitori
andavano avanti e indietro, svolgendo le loro mansioni quotidiane. Alla
loro comparsa si fecero tutti da parte. Il sole, alla fine del suo
tracciato nel cielo, tingeva ogni cosa di un colore aranciato che le
riempiva gli occhi, abbagliandola, tanto che inizialmente non si rese
conto che tutti si erano fermati. Credeva di essersi quasi abituata a
essere circondata da tante persone, ma ci volle poco perché
capisse che non era così; il suo disagio non fece altro che
crescere quando si accorse che le sue orecchie leggermente appuntite e
i tratti inusuali del suo viso avevano sortito il solito effetto.
Per un attimo, una strana paura la colse e fu tentata di far voltare
Stellato e fuggire da tutta quell'attenzione indesiderata; sentiva di
essere arrivata al limite ancor prima che la sua avventura cominciasse
davvero. Fu dalla sua anima che giunse l'incoraggiamento necessario: il
ricordo di ciò che le aveva detto il suo Spirito Guida la
notte prima che partisse. Le sue parole la invasero, riempiendola di
forza. Raddrizzò la schiena e proseguì verso il
fondo del cortile principale, su cui si affacciava l'entrata del
palazzo. Lì, un gruppetto di cinque persone allineate
sembrava attenderli: senza dubbio servitori del castello, tutti vestiti
in abiti semplici e dai colori poco vistosi. Non sembrava esserci
nessun altro. Fu solo avanzando ancora di qualche passo che
notò due ragazzi, in piedi sulla scalinata di pietra che
conduceva al portone intarsiato di ferro nero.
Non appena si concesse uno sguardo d'insieme, Freya rimase meravigliata
dalla grandezza di quel cortile, dall'altezza delle guglie di quel
palazzo color antracite e dall'effetto che la luce solare produceva
sull'ambiente circostante. Era talmente assorta nella contemplazione di
quell'ennesimo nuovo paesaggio da rendersi conto solo in un secondo
momento che tutte quelle persone erano lì per accogliere
lei. Con tutta la propria forza di volontà,
riuscì a ricacciare indietro il turbamento, almeno
finché non incontrò lo sguardo di uno dei due
giovani.
Solo allora sentì un'ondata di emozioni per lei non
identificabili afferrarle il cuore, rovesciandolo esattamente come
quando, da piccola, si lanciava da rami fin troppo alti per lei e
quello di colpo sembrava precipitarle fino ai piedi, per poi ritornare
bruscamente al proprio posto. Fra tutte quelle sensazioni, a stagliarsi
nitida su tutte le altre, seppur inspiegabile, era quella di aver
ritrovato qualcosa di perduto da tempo.
Era giunta in un luogo completamente estraneo, mai visto prima se non
in una minuscola veduta dipinta sulle Saghe di Finian. Eppure, lui ebbe
la sensazione di conoscerlo da una vita intera.