Tomorrow We'll love again
«Andiamo.»
Siamo soli quando ci incamminiamo. Non
c’è una meta, soltanto passi scricchiolanti e il loro eco che
aleggia dietro di me.
Stringo la mano di Emmett, un intreccio
di dita sudate, gelide e incrostate di fuliggine. Il suo anello mi
preme una falange. Stringo più forte, fino a sentire la fascetta
d’argento premuta nell’osso, cercando il dolore, la realtà, la sua
vicinanza, la sua pelle e al tempo stesso ricordando di quando l’ho
avuta intorno a me, sotto, sopra, accanto, ruvida e calda come la
camicia che mi ha prestato quel giorno.
Le fiamme si levano dalla biblioteca di
Latworthy e nel fumo si disperdono le voci. Bisbigli di cenere,
risate felici, l’abbaiare di un cucciolo in lontananza e il mio nome
in bocca a una ragazza.
Mi volto cercando Alta, immaginando di
vederla dietro a una delle querce del giardino. Ma lei non c’è e la
voce cambia, si trasforma, è quella di un uomo, di un ragazzo, la
mia.
C’era una volta un codardo innamorato…
Per poco non inciampo sui miei passi
quando Emmett si ferma a guardarmi.
«Cosa c’è?» chiede.
«Niente.»
«Sei sicuro? Vuoi che ti porti in
spaletta?»
Per un attimo mi chiedo se sia serio, ma
c’è il principio di un sorriso che trema su labbra annerite.
Strattono la mano – il suo anello nella mia carne, il lato della
pietra tatuato sulla mia falange; lo abbasso al mio livello, alla
stessa altezza dei miei occhi, finché la sua bocca non sarà a
portata della mia. Lo bacio, lo mordo, lo mangio e lui mi lascia
fare. Ho lo stomaco vuoto, ma la mia è la fame dell’anima e ogni mio
morso è una spalata di ricordi gettata nelle fosse scavate dalla
rilegatura.
«E se ti dicessi di sì?» mi sento
chiedere, fermandomi forse per paura dell’indigestione. Ma andrebbe
bene lo stesso, no? Se ora mi abbuffassi fino a scoppiare, fino a
stramazzare a terra con la bava alla bocca, ma gli occhi finalmente
pieni della mia vita. Mia. Sua. Nostra.
Vacillo travolto da un’emozione che forse
è di prima, forse di ora. Non riesco a distinguere il
momento esatto in cui sia nata questa felicità che sento
gorgogliarmi nel petto come il principio di una risata spensierata,
credo sia sempre stata in me, o nascosta sotto le suole delle mie
scarpe, calpestata dai miei piedi in attesa che mi accorgessi di lei
e la raccogliessi da terra.
E invece c’ha dovuto pensare Emmett, che
ora mi stringe una spalla e mi sostiene.
Ride. «Forse dovresti.»
Faccio una smorfia, anche se non riesco a
farla sembrare davvero infastidita. «Stupido, so camminare.»
«A me non sembra.»
Sono io a guardarlo questa volta. Mai
troppo a lungo, ma quanto basta per essere sicuro che nessuno mi
porti di nuovo via il suo ricordo, quanto basta per ritrovare il suo
profumo appiccicato di sudore al mio, il calore del suo palmo
incastrato al mio a grattare gli orli di una ferita che brucia e che
lo macchia di rosso, come un patto di sangue, legati inevitabilmente
l’uno all’altro.
«Domani mi aspetto che tu me lo ridica»
pronuncio, perché non voglio che dimentichi – anche se nessuno dei
due lo farà più – e voglio sentire di nuovo quelle parole. Voglio
sentirle domani mattina, domani notte, questa notte, quando
respirerò il mio nome dalla sua bocca, quando reimparerò a memoria
le strade del suo corpo che portano al piacere, quando riesumerò
baci che mesi addietro ho seppellito tra le sue costole e ne
sotterrerò di nuovi.
Emmett scrolla le spalle, finge di
pensarci e si volta, perché io non scopra l’espressione del suo
volto. Il mio sguardo si scontra con i suoi capelli scuri. Sollevo
la mano libera a toccarli, mi imprimo tra le dita la forma della sua
nuca e con le unghie solletico la punta delle sue orecchie. Sono
rosse, come lo erano la prima volta in cui l’ho toccato e la prima
in cui ha scoperto di volermi.
Lo obbligo a voltarsi, a tornare a
guardarmi.
Pioggia sul legno. I suoi occhi nocciola.
Alla fine sono io ad abbassare la testa –
la punta delle nostre scarpe sporche di fango e neve e fuliggine si
tocca. Ma anche se mi concentro su quello, la sua voce arriva
limpida come non è riuscita a fare in tutto questo tempo.
È come se fossi rimasto bloccato sotto
una volta buia e temporalesca, ingabbiato da tuoni e lampi neri,
sporchi d’inchiostro che ha gocciolato sulle parole di Emmett ogni
volta che ha provato a chiamarmi e a tirarmi fuori. Ma adesso il
cielo è limpido e quando Emmett parla, la sua voce è serena come una
giornata di primavera.
«Domani» promette.
Alzo la testa.
Emmett sorride, solleva la mano
intrecciata alla mia, chiude le nostre dita nel pugno e le appoggia
alla mia bocca. Le bacio e le sue labbra premono dalla parte
opposta. «Domani ti dirò che ti amo; che non ho mai smesso e l’ho
fatto anche quando non sapevo.»
Allora sorrido anche io.
«Domani.»
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