L’urlo ha infranto una notte turbata dalla sventagliata di
proiettili – cariche tedesche svuotate sulle loro teste. Un suono
gutturale, rotto, un verso animale che gli è esploso tra i timpani.
Napoleon serra i denti, sulla lingua gocce di ferro rosso e in gola
boli di saliva e respiro che si mescolano e lo soffocano. L’ha
sentito quel suono, così sgraziato da essere irritante, e si rifiuta
di accettarlo come proprio, così come rifiuta di lasciare la presa
alla mano che stringe e che lentamente lo sta trascinando giù dal
tetto.
La pioggia annacqua i rigagnoli di sangue che tratteggiano i
contorni delle tegole. Sotto di sé qualcuna si è rotta, unghiate di
terracotta lo trafiggono al costato e giura – giura! – che se
gli hanno rovinato anche la camicia, tornerà indietro da quel branco
di nazi Kartoffelmampfer[1]
troppo pompati e la vendicherà con le proprie mani.
Il pensiero gli increspa le labbra. Il sorriso nasce storto, nasce
morto, ucciso da un gemito e da una sfiatata sibilante che sa
di polmoni perforati. No, coraggio, sono solo un paio di costole
rotte, ha visto di peggio.
Ha visto…
«Cowboy, lascia presa.»
Una risata si suicida tra le labbra di Napoleon; camuffa male il
colpo di tosse e gorgoglia sangue che cola dal labbro spaccato.
Frammenti di maschera rovinano a terra, si aprono spiragli, crepe in
cui si rivela il dolore sotto al volto del playboy incallito, la
paura dietro all’indifferenza di chi ha sempre un piano di riserva.
Non questa volta.
Il braccio in tensione trema e la pioggia non dà tregua, grasse
gocce incazzate e traditrici battono sulla loro testa, sulla
schiena, sulla pelle. Napoleon aveva capelli perfetti fino a dieci
minuti fa; ora l’accecano finendogli negli occhi.
E tutto scivola un po’ più giù. Lui, loro, la mano di Illya.
«E il tuo piano quale sarebbe, eh, Peril?» Non la lascerà.
Dovesse perdere il braccio, crepare o tornare a casa trascinandosi
sulle ginocchia nella polvere e nel fango come il verme che ha
giurato che non sarebbe mai più stato[2]…
Non la lascerà. «Sei di ferro, ma non sei immortale. Da
quest’altezza anche i supersoldati della Madre Russia si spezzano
l’osso del collo.»
Parla troppo e se
ne pente. Vorrebbe potersi rimangiare le parole, insieme
all’ossigeno che si son portate via.
Tossisce, impreca,
scivola.
E Illya penzola. Un
peso morto – un mastodontico peso morto – che
dondola sul vuoto delle strade di una Parigi in nero e rosso sangue,
braccio rotto e tutto il resto.
Se Napoleon avesse
ancora voce da sprecare – i polmoni bruciano e presto soffocherà nel
suo stesso sangue – gli direbbe che è colpa sua, perché va bene
essere superumani, va bene essere i pupilli del KGB, ma doveva per
forza essere così alto? Così grosso? Doveva pesare come i gargoyle
che, accovacciati su Notre-Dame, li sbeffeggiano per esser nati
senza ali?
È colpa sua, perché
essere il suo partner non gli dà il diritto di farsi rompere il
braccio pur di difenderlo. È una scelta idiotica, che li ha portati
dove, eh? Fuori da un maledetto bunker antiatomico, a sfracellarsi
al suolo a causa dell’architettura questionabile dei tetti della
città.
Un altro urlo gli
incrina i timpani.
Napoleon si chiede
come sia riuscito a gridare così forte quando ha la bocca e la gola
che traboccano sangue; ma guarda in basso e vede Illya, labbra
spalancata in un verso feroce, gli occhi che si incidono nei suoi
– resisti, resisti, resisti – e lo stridio di ossa frastagliate
che si sollevano.
Illya inghiotte
dolore e col braccio rotto si issa sul cornicione, dove sotto i
tacchi dei suoi stivali ritrova una superficie solida.
Napoleon ha ancora
la sua mano tra le proprie dita e i motivi per stringerla sono
appena cambiati.
«Vai a Parigi,»
gorgoglia «città dell’amore e del peccato… dicevano… nulla è più
adatto a te...»
Illya lo guarda di
scorcio, le dita sussultano. «Nessuno mai detto questo. Nostra
presenza qui è solo per missione, lo sai benissimo.»
Napoleon serra la
presa per lui; dev’essere quello il segnale che il dolore ha
finalmente trovato il modo di aggirare qualsiasi programma
d’insensibilità i russi abbiano ficcato nella testa di Kuryakin.
«Peril… per quanto
ami discutere con te… ti dispiace? Sto cercando… di processare…»
agita la mano libera, un cenno svogliato che doveva compiere un
cerchio in aria e che invece cede alla gravità a metà percorso.
Il resto della
frase gli resta incastrato tra le ciglia, insieme alla pioggia.
Nulla che il russo non possa immaginare: qualche battuta sul loro
status, sul microchip che avrebbe voluto consegnare direttamente tra
le mani di Waverly, per convincerlo a dargli un aumento – o
rimborsargli l’abito ormai da buttare.
E se Illya è furbo
quanto crede, sa anche che deve andare, perché quelli dietro di loro
sono cani in divisa che hanno odorato la traccia di sangue.
Lo sa anche
Napoleon, ma per qualche motivo, non riesce a lasciare la sua mano e
Illya non fa nulla per liberarsi della presa: si piega su di lui,
invece, e lo copre col proprio corpo, con la pioggia che gocciola
dagli abiti, dai capelli e s’infrange intorno al volto
dell’americano, senza più toccarlo.
- - -
L’urlo è un’eco
lontana, un puntino di luce nella notte che si spegne quando quella
argentata della luna cola come rugiada sulle palpebre di Napoleon e
l'uomo apre gli occhi.
La stretta di una
benda intorno al petto e la testa gonfia d’aria, ma vuota di
pensieri voglion dire una cosa sola: ospedale & morfina.
È vivo. Bene.
Napoleon settantacinque – Vecchia Signora zero. Sarà per la
prossima volta.
L’aria della stanza
è calda, profumata. Sul comodino c’è un vaso pieno di rose chiare;
non sono rosse, né bianche e con la poca luce che filtra dalla
finestra Napoleon azzarderebbe un giallo. È il colore che
sceglierebbe Gaby.
Quando fa per
muoversi, la stretta al petto lo riporta al punto di partenza. Oltre
le bende, c’è un braccio che lo stringe e, sdraiato dietro di sé, ci
sono occhi azzurri che puntano la sua nuca e Illya che si è
svegliato insieme a lui.
Dannazione,
pensa. Napoleon ventiquattro – Peril venticinque. E chissà
quanto ancora andranno avanti, prima che arrivi il giorno in cui uno
dei due fallisca nel salvare l’altro.
Sorride.
Ma oggi non è
quel giorno.
La mano risale
l’avambraccio di Illya, scorre per la manica del pigiama
ospedaliero, aggira l’ago canula collegato alla flebo e si assicura
di non incastrarvi il proprio. «Come hai fatto?» chiede e intreccia
le dita con le sue, stringendosele al petto.
Illya scrolla le
spalle e strofina il mento contro l'incavo del suo collo. Ha un
sorrisetto minuscolo, uno di quelli da tronfio comunista che ha
appena dimostrato l’eccellenza dei metodi russi.
«Io fatto niente.
Gaby è venuta a prenderci con elicottero, ci ha trovato in tempo.»
Napoleon lo osserva
meglio. Il buio gioca brutti scherzi: non è un sorriso tronfio
quello di Illya; è timido e contento, perché Napoleon lo crede
ancora in grado di fare miracoli e a questo si riferisce quando il
suo sospiro soffia sul collo e la sua voce gli attraversa la pelle,
raggiungendogli direttamente le vene e tuffandosi nel sangue per
farlo ribollire. «Ma mentre un certo cowboy svenuto, io ha fatto
tutto il lavoro: caricato sull’elicottero e consegnato microchip.
Americani è come loro giocattoli: non affidabili.»
Napoleon annuisce e
tasta sulla lingua una risata; si aspetta papille invase di metallo
e invece c’è solo aria e la nota sensuale della sua voce. «Intendi
dire che hai consegnato il microchip a Gaby e che ci ha pensato lei
a metterlo in salvo?»
Un attimo di
silenzio è quello che precede lo sbuffo di Illya: «…precisamente.»
«Ricordami di farle
un regalo, quando ci dimetteranno.»
«Puoi ricordare da
solo.»
Napoleon ride, il
costato non fa più tanto male – forse perché dal collo in giù non
sente quasi niente, solo macchie di calore là dove la mano sana di
Illya si posa con cautela. «Non c’è bisogno di essere geloso, ne
farò uno anche a te.»
«No, grazie.»
«Preferisci un cesto
di frutta?»
«Preferisco tuo
silenzio.» borbotta il russo, ma le labbra si posano a quelle di
Napoleon. Un bacio asciutto, che sa di morfina. «Preferisco tua
vita…»
Napoleon ricalca le
ossa della mano di Illya con la propria.
«Ce l’hai, Peril. Ce
l’hai…»
Ce l’hanno entrambi,
stretta l’una nelle mani dell’altro.
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