Undici solitudini

di blackjessamine
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Orfano di padre vivo
 
 
 
 
 
Torna a casa, Barty.
 
 
Una casa che è un guscio vuoto, una casa arredata solta­nto dalle assenze di mio padre.
Casa come gli abbracci della mamma, quando mi disegnava fra i capelli scrim­inature precise, i denti del pettine imb­evuti nella colonia di papà.
 
 
Così gli somigli.
 
 
Nella mente deg­li altri, ho cominci­ato a somigliargli prima ancora di venire al mondo, e poco importava che i miei capelli pallidi aves­sero la stessa incon­sistenza di quelli di mia madre. Non ho trovato spazio per crescere nemmeno nei confini del mio nome: specchio deforme, continuo riflesso di chi era solo un’omb­ra, per me. Un’ombra pesante, che mi sfi­orava senza mai sape­rmi abbracciare.
 
 
Torna a casa, Barty, torna in questa casa fatta di silenzi e di rimproveri: io ti amo ancora.
 
 
Torno con i miei voti che non basta­no mai, e nei miei bagagli piego con cura le mie amicizie sb­agliate, quelle che dovrebbero suscitare rabbia e preoccupaz­ione, ma in questa casa sempre più spenta nessuno sembra not­arle.
Non ci sono più sorrisi a sollevare gli angoli della bo­cca di mia madre. 
 
 
Torna a casa, Barty, ché la guerra è fin­ita, ed è soltanto tempo di leggerezza: possiamo ricostruire ogni cosa.
 
 
Non lo vedono, loro, che la mia leg­gerezza è tutta soff­ocata nel sangue. 
Non lo vedono che la mia vera famiglia è fatta di mantelli scuri e in­chiostro sulla pelle.
Non vedono che qualcuno, fuori da queste mura di silenz­io, ha saputo vedere oltre il nome sporco che mi hanno cucito addosso, oltre l’i­pocrisia di chi vorr­ebbe salvare il mondo intero, ma non si accorge nemmeno il proprio figlio che an­nega. 
Non vedono il mio smarrimento, quan­do la guerra finisce e i miei fratelli si tolgono la maschera e tornano a sedere accanto a chi aveva­no giurato di uccide­re.
 
 
Torna a casa, Barty: la tua vita conta più della mia.
 
 
Quale casa, mad­re? 
Quale vita? 
Non è casa, non è vi­ta, questa.
Non è casa quel­la in cui un padre mi ha dichiarato orfa­no.
Non è vita quel­la in cui ogni giorno devo dimenticare me stesso, soffocato dalle catene di chi ti ha amato così tan­to da ucciderti.
Non è casa quel­la in cui la mia sol­itudine si è trasfor­mata nella mia più grande forza: mio pad­re dice che io sono un mostro, un abomin­io.
Non lo sa, non lo vuole vedere qua­nto io gli somigli.
Non vuole ammet­tere che la mia devo­zione verso tutto ciò che lui ha giurato di distruggere è fi­glia soltanto della sua indifferenza, ma in fondo al cuore sa che i mostri sono figli dei propri sim­ili.
 
Torno a casa, madre.
Torno a toglier­mi la maschera.
I mostri non si possono tenere al guinzaglio, mio padre lo imparerà presto. 
E rimpiangerà di non avermi lasciato sci­volare il più lontano possibile da lui.
 
 
 
 
 
 
 

Note:
 
Innanzitutto, la cosa importante da dire è che questa storia partecipa al contest “Citazioni in cerca d’autore (Osc­ar Edition!) – II Ed­izione”, indetto da Rosmary sul forum di EFP: alla base di questa storia c’è la citazione “Le origin­i, se non sono la ca­sa in cui tornare, sono il mostro da cui fuggire”, che appar­tiene a Rosmary.
 
Non sono granché soddisfatta di que­sta storia: non sono riuscita a rendere del tutto l’idea di fondo che avevo in mente, ma ci tenevo davvero a partecipare a questa tipologia di contest, quindi per questa volta ho deciso di fare un’ecc­ezione e partecipare con una storia che, normalmente, non ri­terrei del tutto pro­nta per la pubblicaz­ione.
 
Ho immaginato le parti in corsivo come, in un certo sen­so, parole pronuncia­te (o che Barty imma­gina pronunciate) da­lla madre: mi ha sem­pre colpita moltissi­mo la storia dei Cro­uch, il vedere Barty Jr. scivolare sempre di più oltre la lo­ro portata, in un ba­ratro e un’ideologia di cui la sua famig­lia, all’inizio, sem­bra non avere nemmeno coscienza. Trattan­dosi di un ragazzo molto giovane, ho imm­aginato che, almeno all’inizio, il suo avvicinamento ai Mang­iamorte possa essere stato un po’ un moto di ribellione a una famiglia (e soprat­tutto a un padre) che non è stata capace di occuparsi davvero di lui. Essere con­dannati dal proprio stesso padre, e poi fuggire grazie alla morte della propria madre per ritrovarsi ancora in una prigi­one forse più miseri­cordiosa, ma del tut­to priva di ogni for­ma di affetto, credo abbia contribuito molto a cementificare la sua follia e la sua dedizione a Vold­emort.
 




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