The words we never said
S’incrociano a Londra, in un giorno
d’estate.
Illya lo supera – la marcia di un
soldato di ferro, il volto di un lupo al guinzaglio.
Napoleon scorge in lui la Siberia:
occhi artici, cuore cianotico – il tempo lontano dalla U.N.C.L.E.
non è stato clemente. Né deve esserlo stato Oleg.
Lo ferma per un polso, lo sente
sussultare. Per un attimo, i mesi si riavvolgono.
“KGB vuole me indietro.”
“Temporaneamente, voglio sperare.
Gaby non la prenderà bene.”
“E tu?”
“Torna e lo scoprirai.”
«Nessun abbraccio per il tuo partner
preferito, Peril?» gli chiede, sfacciato.
Ma Illya è una tomba costruita nel
ghiaccio e Napoleon perde la presa.
*
Alla finestra della sala riunioni,
Illya è un cero rosso in procinto di squagliarsi.
Napoleon gli conta le pieghe sui
calzoni, dove le dita hanno stretto e stritolato.
Déjà-vu.
“Cowboy, devo dirti cosa
importante.”
“Anche io. Prima le signore?”
«Parlami, Peril» gli chiede, una mano
sulla sua guancia. Sente lo spasmo dei muscoli sotto la pelle, lo
scalpitio di parole trattenute a forza.
«Se sei a corto di argomenti, puoi
dirmi che ti sono mancato.» Napoleon non cede. Sorride, sfida, gioca
alla spia buona e a quella comunista.
Illya serra i pugni. «Mio tempo alla
U.N.C.L.E. è finito per sempre.»
Sotto il sole d’agosto, il sorriso di
Napoleon cola via.
*
“Era proprio necessario prendermi a
pugni, Peril?”
“Tu dici idiozie, quella è
punizione.”
“Spiegalo al mio povero naso.”
Illya lo aveva ignorato, aveva
stretto la sua mano e intrecciato le sue dita. Impacciato.
Imbarazzato. In equilibrio sul ghiaccio sottile.
Napoleon lo aveva salvato dalla
caduta: “Non dire nulla, Peril, lo so.”
È sotto i suoi piedi che il ghiaccio
si apre.
Illya indietreggia – lo lascia
cadere. «Devo andare.»
E Napoleon si pente di non averglielo
mai detto. «Illya?»
“Peril?”
«Sì?»
“Sì?”
«…nulla.»
Ti amo anch’io.
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