AVVISO
Da questo capitolo in poi si
affronterà un argomento molto delicato, di cui non sono competente. Ho attinto
a tutta la documentazione disponibile, ma non è detto che sia riuscito ad
affrontarlo al meglio.
Non è mia intenzione offendere nessuno, né ferire la sensibilità di chi vive
personalmente certe situazioni. Però era un argomento che, a causa di fobie
personali, era giusto affrontassi e spero di farlo con la dovuta delicatezza. Tengo
però a precisare che le reazioni di Sasuke non sono universali, ma sono come mi
comporterei io nella sua stessa situazione, quindi l’interpretazione della
faccenda è molto personale. Per ulteriori note, ci rivediamo a fine capitolo.
Capitolo IV
The dice giveth and the dice taketh away
«Ehi, Sakura! Come stai? Hai
notizie di Sas…»
Sakura lanciò la cartella sul
bancone del Konoha Comics&Games. La borsa atterrò sul ripiano con un
tonfo sinistro e rovinò a terra, sparpagliando il contenuto sul pavimento. Kiba
riuscì a malapena a intercettare i suoi occhi furenti, prima che la voce
tagliente di Madara intervenisse.
«Se devi lanciare roba, fallo a
casa tua. Qua stiamo lavorando» la redarguì. Sembrava esserci quasi dolcezza
nel suo tono, ma Kiba lo conosceva troppo bene per non sapere che quella calma
preannunciava tempesta.
Era una settimana che il suo capo
arrivava di cattivo umore al lavoro. Be’, non fosse mai stato Mr. Simpatia, ma
negli ultimi giorni era davvero terribile, neanche fosse pronto a
evocare Rovagug in persona.
Con uno sbuffo, Sakura radunò le
proprie cose nella cartella. Non senza rivolgere uno sguardo sprezzante a
Madara. Kiba avvertì la tempesta farsi sempre più vicina e trovò più saggio
dimostrarsi estremamente interessato al riordino degli scaffali.
«Ora che il mio negozio è tornato
a essere un posto civile» lo sentì dire, mentre spostava una action figure
di Giorno Giovanna «Che cazzo vuoi?»
«Quando si gioca?»
Giorno cadde malamente sul
pavimento. Kiba si affrettò a raccoglierlo e a riporlo sul piedistallo. Pregò
che Madara non si accorgesse mai del graffio di ben due millimetri sui biondi
capelli del JoJo di turno, ma il suo capo sembrava abbastanza sorpreso da non
prestargli attenzione. Forse avrebbe potuto dare la colpa a un cliente
distratto.
«Tu vieni qui a devastare il mio
negozio…»
«Esagerato» sbuffò Sakura,
sedendosi sopra il bancone sotto lo sguardo furibondo di Madara e quello
disperato di Kiba.
«Scendi» ordinò Uchiha.
«Obbligami».
«Ok, ok… senti, io non so se ti
sei strafatta di canne…» s’intromise Kiba.
«Io non mi drogo!»
«…o se sei semplicemente stanca
di vivere. Ma quello lo devo pulire io dopo, quindi, prima che il capo si
trasformi in Cthulhu, scendi dal bancone e risparmiami ore di agonia, grazie».
Con un grugnito plateale, la
ragazza decise di lasciare in pace la scrivania. Kiba tirò un sospiro di
sollievo e si affrettò a togliere gli aloni rimasti sul legno, prima che Madara
raggiungesse il limite di sopportazione.
«Quindi…» azzardò «Vuoi sapere
quando si gioca?»
«Devastando il neg…»
«Abbiamo capito» Sakura tagliò il
brontolio del Master con un cenno della mano «Mi dispiace, ok? Però voglio
sapere a quando la prossima sessione».
«Perché, volete continuare a
giocare?» sghignazzò Madara «Pensavo che foste tutti lì per far compagnia a
quel fissato di mio nipote».
«All’inizio, forse. Ma ci siamo
visti e abbiamo deciso di continuare» serrò le labbra «Con o senza Sasuke».
La bacheca di Facebook era
diventata molto più interessante del solito in quei giorni, soprattutto per
sfuggire alle occhiate indagatrici della madre. Mikoto si era fatta sospettosa,
da quando Sasuke passava molto meno tempo nella fumetteria del cugino e Sakura
non era perennemente a casa loro. Così, per evitare domande scomode, aveva
preso l’abitudine di scrollare la home dei social network per tenere le dita
impegnate e farle credere di star messaggiando con l’amica. Era più facile
fingere, piuttosto che rispondere alle domande di un genitore apprensivo nei
riguardi della tua vita sociale.
«Come vanno gli esercizi,
Sasuke?»
Si costrinse ad alzare lo sguardo
dallo smartphone e incrociare, passivo, gli occhi castani della dottoressa. Un
grumo di bile si condensò in gola. Percepì addosso l’attenzione speranzosa dei
genitori e del medico. Cosa doveva dirgli? Forse che non gliene fregava un
cazzo di quegli esercizi? Che erano noiosi, dolorosi e che non servivano a
nulla? O forse doveva sorridere rassicurante, dir loro che andava tutto bene e
osservare le facce contratte di preoccupazione distendersi nel placebo
dell’assoluzione?
Così sarebbero stati bravi
genitori, loro. Stavano facendo il possibile e non era colpa loro, se le cose
sarebbero comunque andate come dovevano andare; se ogni sforzo era indirizzato
solo a rimandare l’inevitabile, a rendere la tragedia meno dolorosa.
«Bene» mentì. Riabbassò lo
sguardo sullo schermo. L’aria attorno a sé si fece meno pesante e il grumo più
denso.
«Credo che possiamo proseguire
con la terapia» continuò la dottoressa Tsunade «Certo, non è risolutiva, ma…»
Ma tanto non ci sarebbe stato
niente da fare. Tanto era solo una lotta contro il tempo. Tanto… Cercò di
deglutire il bolo che gli ostruiva la gola. Un ultimo spasmo disperato per non
vomitare fuori parole di cui si sarebbe pentito. Il pizzicore che precede il
pianto lo scosse da capo a piedi, raggrumandosi sugli occhi. Inspirò. Buttò
tutto dentro, di nuovo. Avrebbe voluto avere una bacchetta magica caricata con Guarigione, o un Chierico
in grado di sistemare le cose. Invece non aveva niente di tutto quello: né
nella realtà, né, ormai, nella fantasia.
Tsunade continuava a parlare. Si
rivolgeva a lui, ma Sasuke sapeva che le bastava l’attenzione dei suoi
genitori. Lui era l’oggetto della discussione, e la sua condizione lo
autorizzava ad alienarsi, a non ascoltare, a delegare decisioni che
riguardavano la sua vita. Non doveva essere partecipe, solo subire passivamente
quello che persone più competenti avevano deciso, camminare sulla strada già
segnata. Era, a tutti gli effetti, il PNG nelle mani di un master
particolarmente sadico all’interno del GdR della Vita e le persone attorno a
sé, i suoi genitori, i medici, gli specialisti… loro erano i protagonisti della
quest.
Il suo pensiero andò alla
campagna, al litigio con Sakura, al piangersi addosso tra i cassonetti e al
saluto di Kiba quando lo aveva lasciato sulla porta di casa. Una scompigliata
di capelli e un sorriso condiscendente che gli avevano fatto più male di una palla
di fuoco
potenziata
e massimizzata
in pieno petto.
Di che si stupiva se Kiba lo
trattava da bambino? Anzi, come un moccioso che rovina il gioco a tutto il
party, per dirla con le parole di Madara. Alla fin fine si era comportato
come tale e non riusciva neanche a trovare le forze di chiedere scusa. Aprì e
chiuse più volte la chat whatsapp di Sakura, lesse l’ultimo messaggio che si
erano scambiati.
Comunque ha un bel culo,
aveva scritto l’amica. Stavano parlando di Kiba, o forse di Madara… Sasuke non
ricordava più e non riusciva a leggere i messaggi precedenti. Lo sguardo si era
cristallizzato sulla data, il giorno dell’ultima giocata: due settimane prima.
«Sasuke?» la mano di sua madre lo
stava scuotendo. Alzò la testa e notò che l’attenzione dei presenti era
concentrata su di lui, in attesa di una risposta a una domanda che non aveva
sentito. Percepì distintamente un sospiro da parte di suo padre e lo osservò
mentre scostava lo sguardo pieno di disappunto e commiserazione.
«Scusate, mi sono distratto»
mormorò, poggiando il cellulare sulle gambe. Inghiottì di malavoglia il sorriso
gentile di Mikoto e quello condiscendente di Tsunade.
«Non preoccuparti, alla tua età
capita spesso di stare con la testa fra le nuvole» celiò la dottoressa. Sasuke
immaginò distintamente una pioggia di dardi incantati trafiggerle il petto
prosperoso e lasciarla esamine a terra. A lei, al suo team, a quella fottuta
clinica dove finiva ricoverato un mese sì e l’altro pure e dove un giorno i
suoi l’avrebbero scaricato vita natural durante. Non lo dicevano, ma era
evidente che sarebbe andata così. Chi avrebbe avuto voglia di prendersi cura di
una persona non autosufficiente? Avvertì il peso della mano materna sulla sua
spalla. Deglutì saliva e parole inopportune. Guardava Tsunade e non la vedeva; davanti
agli occhi scivolavano immagini di corse in moto, di risate attorno a un
tavolo, di strategie arrabattate e di dadi che rotolavano. E di tutto quello
che poteva essere e non sarebbe stato. Di serate in taverna, di avventure fantastiche,
di guerre, e magie, e gloria, e corse all’aria aperta. Boschi impervi, erte montagne,
oceani profondi…
«Voglio solo essere sicura che…»
«Quanto?» domandò, in un alito
di fiato. Di fronte all’espressione spaesata della dottoressa, sospirò e si
costrinse a puntualizzare «Quanto… tra quanto non potrò più camminare?»
Ecco. L’aveva detto. Come se
avesse lanciato Parola del Potere,
i lemmi acquisirono una forma, s’addensarono in una verità da cui non poteva più
scappare.
«Non lo so» ammise Tsunade «Potrebbe
succedere tra un anno, come tra dieci… non si sa quanto veloce degeneri la tua
mal…»
«Non mi dica stronzate» alzò la
voce. Avvertì distintamente i muscoli contrarsi nel tentativo di uno scatto, di
un movimento più brusco. La voglia di alzarsi in piedi e uscire dalla stanza,
un compito che il suo cervello aveva affidato alle sue gambe e che, maledette,
cominciavano a tradirlo. Le muoveva. Camminava, ancora, ma le contrazioni
muscolari erano sempre più frequenti, i movimenti sempre più rallentati e… e…
«Sono mesi che faccio analisi» si costrinse a restare fermo, i pugni serrati
sulle cosce «Non è possibile che non sappiate a che punto sta. Non ci credo!»
Tsunade tacque. Riordinò, in un
brusio assordante, alcuni fogli sulla scrivania. Le dita smaltate
tamburellarono per qualche secondo sulla superficie levigata.
«Il problema non sono le gambe.
Non solo…»
Un Raggio Polare avrebbe
riscaldato l’atmosfera più delle parole del medico.
«…con la fisioterapia possiamo
farti camminare bene ancora per un anno. Ma il cuore…»
Cardiomiopatia. La parola
gli rimbombò nel cervello, oscurando il resto. È troppo presto, pensò.
Di solito si manifestava verso i trent’anni, se lo faceva. Era troppo giovane,
ancora. Troppo sano.
«Morirò?» si stupì della calma
con cui pose la domanda. Indifferente, dissociato dalla situazione. Non sta
accadendo a me, si disse. È come una giocata. Tiri i dadi ed esce quel
che esce, e a me esce sempre 1. Sua madre singhiozzò al suo fianco; il
padre sembrò perdere il poco di colorito rimasto. Così è questa la vita, un
enorme gioco di ruolo.
«È prematura,» rispose Tsunade «ma
oggi è facile tenerla sotto controllo. Devi solo stare più attento e poi ci
sono i farmaci…»
Altre pasticche. Altra droga per
tenerlo vivo. Nel mondo reale gli incantesimi si chiamavano farmaci e i
chierici dottori. E i maghi? I maghi non esistevano nella realtà. Per questo ne
aveva voluto giocare uno, per fare l’impossibile, visto che il possibile gli
era negato.
«Ok» se aveva interrotto il
discorso della dottoressa, non se n’era accorto «Scusate, io esco» aggiunse. Salutò
la dottoressa.
«Sasuke…» mormorò Mikoto.
«Torno a casa da solo. Ho… voglio
stare da solo».
Uscì dall’ufficio. Aveva bisogno
di stare all’aria aperta, di respirare vero ossigeno e non l’atmosfera viziata
della stanza. Voleva camminare, finché ancora ce la faceva. Camminare e non
fermarsi finché le gambe lo avessero sostenuto. Non correre: camminare,
camminare e basta, senza meta. Superò il giardino della clinica, l’alto cancello.
Una macchina quasi lo investì, senza fermarsi sulle strisce pedonali. Fu
avvolto da una nuvola di gas di scarico. Tossì e riprese a camminare, un passo
dopo l’altro.
Dall’altra parte della città, al Konoha
Comics&Games, Sakura controllò un’ultima volta il cellulare, guadagnandosi
un’occhiata di rimprovero da Madara. Con un sospiro lo spense e tirò
iniziativa.
N/A: ma voi vi ricordate
il primo capitolo, quando questa doveva essere una fanfiction for fun,
perché avevo voglia di cazzeggiare su Pathfinder? Ecco, vi sia di lezione: non
credetemi quando dico di voler scrivere qualcosa di leggero.
Non voglio dire il nome della
sindrome da cui è affetto Sasuke, perché non è mia intenzione affrontarla a
livello medico. Non avrei le competenze per farlo in maniera adeguata, quindi
mi astengo, nonostante viva con le pagine mediche e una consulenza infermieristica
costante (grazie Alice, probabilmente manco te lo ricordi, ma ti ci ho rotto le
palle per un paio di settimane buone quando ho cominciato la storia). Mi interessa,
invece, esplorare la relazione che può esserci tra un gioco di ruolo, in cui
puoi fare cose che nella realtà ti sono negate, e una condizione fisica in cui
ti ritrovi a essere (quindi non di partenza) e che ti priva di una tua
abitudine.
Be’, spero di aver fatto qualcosa
di decente.