02
-
Un sorriso incrinato
Stipati
i suoi uomini per l’ennesima volta nel cellulare, l’Ispettore
lancia un grido di avvertimento al conducente, il quale sprona i
cavalli facendo ripartire il veicolo di gran carriera. I cittadini,
quella sera, non saranno granché soddisfatti della trovata
dell’ultimo minuto dei tutori della legge di Parigi; tutto il
fracasso del cellulare sul lastricato sveglierebbe anche i loro
antenati. Ma Ganimard ha deciso di non lasciare nulla di intentato e
di ripresentarsi l’indomani a testa alta di fronte al prefetto,
che intenda come sempre ingiuriarlo per gli insuccessi degli agenti
sul campo oppure congratularsi con lui.
Il
cellulare corre veloce e oltrepassa Batignolles, dirigendosi con
decisione verso le rive della prima ansa della Senna. L’Ispettore,
la testa fuori dal finestrino e gli occhi lacrimanti per l’aria
fredda che lo investe, si ostina a fissare la strada che percorrono e
i dintorni nella speranza di intravvedere ombre sospette. Incredibile
a dirsi, ormai a poche lunghezze dal primo ponte, quello di
Saint-Ouen, riesce davvero a scorgere qualcosa e lo indica con
fatica, dato il gran fracasso, al conducente, il quale,
sorprendentemente, ottiene un ulteriore aumento della velocità
proprio mentre la carrozza che Ganimard ha scorto svolta oltre il
ponte prendendo la strada a sinistra in direzione, pare, di Nanterre.
Quando
anche loro si ritrovano sul ponte e l’Ispettore si sporge
ancora finendo quasi per metà fuori dal cellulare, un secondo
veicolo, che somiglia piuttosto a un piccolo cocchio biposto scoperto
trainato da due corsieri, compare sul suo orizzonte, già ben
lontano ma sembrando intenzionato a riportarsi verso il primo, una
carrozza a sei posti. Ganimard aggrotta le sopracciglia e cerca di
immaginare le intenzioni del conducente; tuttavia non ne trova
neppure il tempo perché ben presto le intenzioni si rendono
palesi e il suo, di conducente, è costretto a frenare
bruscamente e trattenere i cavalli, spaventati dal rapido passaggio
dei due corsieri che per un soffio non si sono scontrati con il
cellulare e tutta la squadra ivi contenuta.
Ganimard
ringhia e bestemmia, affacciandosi pericolosamente al finestrino e
scuotendo il pugno in direzione del pazzo conducente, il quale poi
altri non può essere se non l’uomo che cercano da mesi
senza mai riuscire a mettergli le mani addosso.
«Dannato,
fermatevi! Siete in arresto! Mi avete sentito?» sbraita
l’Ispettore, sporgendosi fin che osa dal finestrino e fissando
truce il piccolo veicolo che sta facendo ammattire i loro cavalli.
«Prima
dovreste acchiapparmi, amico Ganimard!» ribatte in tono allegro
il ladro, ridendo della furia impressa sul viso dell’Ispettore.
«Vedrete!
Vedrete se non lo faccio» minaccia Ganimard, insultando al
contempo il proprio conducente e intimandogli di riprendere il
controllo delle loro cavalcature e tornare all’inseguimento del
ricercato.
Ha
anche estratto la sua pistola, ma senza osare servirsene poiché
quello sfrontato si muove con troppa velocità e senza una
logica; se provasse a prendere la mira in quelle condizioni, con la
fortuna che si ritrova finirebbe per farlo secco. Invece, esasperato
dalla situazione, alla fine decide di rimettersi in tasca l’arma
e si trascina verso lo sportello, intenzionato a scendere, nonostante
il veicolo abbia ripreso la marcia, seppur a fatica. I suoi uomini
cercano come possono di trattenerlo all’interno, giudicando la
sua idea una completa pazzia e non a torto, ma l’Ispettore
appare irremovibile e quando ritiene che il momento sia propizio
spalanca lo sportello e, per fortuna o abilità nessuno mai
potrà stabilirlo, il suo slancio lo porta ad atterrare sulla
parte frontale del cocchio.
«Accipicchia,
bel salto, Ganimard!» esclama Lupin, ammirato e divertito dalle
prodezze del suo poliziotto preferito. «Che caro, siete venuto
a trovarmi? Sono lusingato. Per ringraziarvi vi regalo un bel giro
panoramico del quartiere sul mio mezzo, vi va?» propone
allegro.
Senza
attendere replica, che forse neppure giungerebbe data la situazione
precaria dell’Ispettore, sprona i suoi corsieri e li dirige di
nuovo verso la riva della Senna più vicina, ovvero il centro
della prima ansa e con essa l’Île Saint Denis, e nel
farlo taglia di nuovo la strada del cellulare con il risultato di
spaventarne ulteriormente i cavalli e rallentare la squadra di agenti
al completo.
«Fermatevi!»
gracchia Ganimard, appollaiato in modo instabile nello stesso punto
in cui è atterrato. «Vi ordino di fermarvi
immediatamente».
Lupin
ride, sembrando felice come un bambino. «Ma, amico mio, non
vorrete perdervi le bellezze della notte parigina. Guardate»
indica, costeggiando il lungofiume a velocità proibitiva, «le
stelle riflesse sull’acqua scura brillano doppiamente. Non è
una meraviglia?».
Justin
Ganimard grugnisce e, piano piano, tenta di guadagnare una posizione
più sicura e magari che gli permetta di avere accesso a quel
furfante proprio lì accanto. Ma con gli scossoni del veicolo e
la rapidità con la quale procedono l’operazione non si
rivela affatto semplice. E le dita, già piuttosto intirizzite,
gli si stanno ora congelando per bene e perdono sensibilità e
aderenza. Di quel passo finirà con il ritrovarsi a scivolare
sotto le ruote del cocchio; una conclusione per nulla attraente. Con
un poco di fatica si guarda attorno scoprendo, senza neppure
eccessiva sorpresa, che il ladro ha ormai facilmente distanziato il
cellulare. Si augura che, se non altro, i suoi uomini abbiano preso
in considerazione l’idea di tornare all’inseguimento
della prima carrozza, più lenta e quindi più facile da
inseguire. Per lo meno in quel modo qualcuno potrebbe forse avere
l’opportunità di portare a casa un qualunque risultato
che non siano altre ossa rotte e la solita, perenne umiliazione.
«Per
Dio, fermate questo aggeggio infernale» rantola, oramai
stremato e pronto all’imminente resa.
Curiosamente
questa volta avverte il veicolo rallentare in modo progressivo ma ben
percepibile e si sorprende nel constatare che, per motivi che ignora
del tutto, Lupin deve aver deciso di venire incontro alle sue
preghiere. Chissà, forse ha avuto pietà di lui. Sospira
dentro di sé e si rassegna perché, sia come sia, almeno
la pelle per questa volta la riporterà a casa. È anche
quello un risultato, seppur non fra i più brillanti.
Ora
il piccolo veicolo è fermo a bordo strada e può
distintamente udire lo sciabordio dell’acqua accanto a loro;
devono quindi essersi fermati sul fianco del fiume e, quando solleva
gli occhi con prudenza, nota che si trovano proprio accanto alle
radici del Pont d’Argenteuil, in un piccolo Quai a pochi passi
dall’Avenue d’Argenteuil. Con un po’ di fatica si
lascia scivolare giù dal cocchio e, messi i piedi sul solido
lastricato, le ginocchia non lo sostengono e finisce con il
fondoschiena a terra. Il suo grugnito di contrarietà e stizza
viene in parte coperto dalla risata argentina del giovane uomo che si
trova in sua compagnia.
«Dovrei
mettervi sotto chiave solo per questo» borbotta.
«Per
che cosa, Ganimard?».
«Per
questa vostra cattiva abitudine a ridere di me e delle mie
disgrazie».
«Potreste
farlo anche voi, amico mio, ma non sembrate il genere di persona che
può divertirsi per così poco, dico bene?».
L’Ispettore
solleva lo sguardo e ritrova di fronte a sé quello divertito
del ladro. Scuote la testa. Ha ancora con sé la sua pistola;
potrebbe usarla, almeno per tentare di obbligare quel furbastro a
seguirlo alla centrale del Quai des Orfèvres. Chissà se
prenderebbe sul serio la sua intimazione, si domanda perplesso.
«Tiro
a indovinare, signor Ispettore: volete arrestarmi» si burla di
lui Lupin.
«Potrei»
tentenna Ganimard.
«Errore.
Potreste provarci» lo corregge, senza tuttavia rinunciare al
suo sorriso.
Sì,
è vero: potrebbe provarci. Dunque, perché non farlo?
Decide. Estrae di tasca la pistola e gliela punta contro. Le labbra
di Lupin si socchiudono di stupore e i suoi occhi si sgranano appena.
Non accenna a muovere un passo, ma sulla sua bocca il sorriso ha
assunto una sfumatura un poco amara. Scosta le braccia dal corpo e le
allarga davanti al poliziotto, come ad afferrare l’aria attorno
a sé.
«Vorreste
spararmi, Justin Ganimard?» chiede con sarcasmo, scuotendo la
testa. «A che scopo? Che utilità ne trarreste? E poi…
io non ho armi con me, Ispettore. Come credete di potervi
giustificare?».
Ganimard
è confuso. Forse ha davvero voglia di sparargli e farla finita
una volta per tutte con quell’uomo, con le sue irritanti prese
in giro, con tutti i guai che crea alla loro Francia. Sì, ma
dopo? Lui ha ragione: in che modo passare sopra al fatto di aver
ucciso a sangue freddo un uomo disarmato? Fingendo che non sia
accaduto? Rinserra le labbra con disappunto e, lentamente, abbassa le
braccia e l’arma che ancora trattiene fra le mani.
«È
vero: non sono un assassino» ammette, incerto se sentirsi
sconfitto oppure soddisfatto.
«Neppure
io lo sono, amico Ganimard» commenta, allungando una mano per
offrirgli un aiuto a rimettersi in piedi. «Comunque, i miei
complimenti: è stato davvero un tuffo spettacolare»
rimarca, non riuscendo a fare a meno di prendersi gioco di lui.
L’Ispettore
sbuffa. «Molto divertente» bercia stizzito, facendo leva
sulle ginocchia e aiutandosi con l’appoggio della mano
dell’altro per alzarsi da terra.
Proprio
nel momento in cui ci è quasi riuscito, Ganimard nota che il
solito sorrisetto sfrontato del ladro si è incrinato e negli
occhi l’allegria ha lasciato il posto, in modo repentino quanto
inatteso, alla costernazione, mentre all’apparenza fissa un
punto lontano oltre il ponte accanto al quale sono fermi.
«Cosa…?»
tenta di chiedere, impensierito dal drastico cambio d’umore del
giovane uomo in sua compagnia.
Non
ne trova però il tempo perché, giusto mentre la sua
schiena e le sue spalle si stanno definitivamente raddrizzando, Lupin
torna con lo sguardo su di lui e ciò che può vedere è
paura e sgomento. Prima ancora di udire la sua voce concitata e
allarmata, avverte le sue mani su di sé che lo afferrano con
forza per il bavero e lo sospingono di nuovo a terra.
«Attenzione!
Giù!» grida, trascinando di nuovo sul lastricato
l’Ispettore e con lui sé stesso.
Nel
tempo che impiegano ad atterrare malamente al suolo, l’Ispettore
ode tre detonazioni, quasi in contemporanea, giungere da una certa
distanza, forse l’altra sponda del fiume. Un singulto sfiatato
fuoriesce dalle sue labbra, poi digrigna i denti mentre tenta di
recuperare l’arma finita a terra poco distante da sé. La
ricaduta al suolo non è stata fra le più piacevoli e
avverte il dolore pulsare un po’ ovunque tranne alla testa, il
che probabilmente è un bene, almeno se la caverà senza
bernoccoli, ma certo l’indomani dovrà contarsi i lividi
di quell’avventura all’apparenza infinita.
Intanto
la prima domanda che gli salta per la mente è: chi ha sparato?
E la seconda, di conseguenza: a chi era diretto? Prova a
risollevarsi, qualche istante dopo aver sbattuto il fondoschiena per
la seconda volta, ma le mani che ce lo hanno spinto lo trattengono
con forza e decisione.
«State
giù, sciocco poliziotto. Volete proprio farvi ammazzare?»
soffia accanto a lui la voce alterata di Lupin, seguita da un lieve
gemito.
«Amici
vostri?» si informa l’Ispettore.
Uno
sbuffo. «Secondo voi sono tanto fesso da circondarmi di amici
che mi sparano alle spalle alla prima occasione?» ribatte
contrariato.
«Non
si sa mai. Miei non sono di certo» borbotta Ganimard. Un
secondo gemito gli giunge alle orecchie. Il corpo sopra il suo ha un
fremito. Ganimard aggrotta la fronte e curva il collo per tentare di
vedere con più chiarezza e capire in che situazione si
ritrovano. «Ragazzo, tutto a posto?» chiede a quel punto,
benché abbia qualche dubbio che lo sia veramente.
«Stavo
meglio prima. E non mi chiamate ragazzo» borbotta Lupin.
«È
quello che siete, dopo tutto. Che succede? Vi hanno ferito?».
«Pare
di sì» soffia, rabbrividendo.
Quella
risposta ha come infausta conseguenza di metterlo ancora più
di cattivo umore di quanto non fosse stato fino a quel momento. Dato
che ha intenzione di fare un poco di luce sul problema che
attualmente li affligge, lascia perdere per il momento la sua
pistola, ancora dispersa da qualche parte lì accanto e, con
incerta cautela, afferra in una presa ben salda gli abiti del ladro e
se lo scosta appena di dosso voltandosi e rigirandolo di schiena. La
prima cosa che nota è il repentino e insano pallore che spicca
sul viso dell’altro; la seconda, dopo averlo scandagliato con
gli occhi, è l’ampia macchia rossa che si va allargando
con preoccupante rapidità sulla sua coscia sinistra.
«Santiddio»
esclama, scosso dalla scoperta e dalla vista.
Esaurita
la brutta sorpresa iniziale, lascia perdere ulteriori parole e,
sempre rimanendo accucciato dietro il parapetto del ponte per evitare
di far da bersaglio a chiunque ci sia sull’altra sponda, si
slega la cravatta e se la sfila dal collo.
«Ispettore»
mugola Lupin, cercando di muoversi per capire cosa accade.
«Fermo.
Restate fermo lì, ragazzo».
Il
ladro si lascia sfuggire una smorfia infastidita, ma per una volta
(probabilmente la prima e forse l’ultima) nella sua vita decide
di dar retta alle richieste di quell’uomo. Ganimard solleva di
poco la gamba ferita di Lupin, ottenendo un sussulto e un gemito, e
vi avvolge la propria cravatta attorno, poco sopra il punto colpito,
e lì la lega stretta augurandosi che sia sufficiente a
rallentare la perdita di sangue abbastanza a lungo perché
possa trasportarlo all’ospedale. Rimane il problema di quella
gente che gli è ancora sconosciuta ma che non dubita sia in
agguato pronta a impallinare anche lui com’è accaduto al
suo attuale compagno di sventure. Forse sono abbastanza fortunati da
poter ricondurre a loro la squadra che era al seguito dell’Ispettore,
sempre che non sia dispersa in qualche angolo non accessibile di
Parigi, ancora sulle tracce del primo veicolo. Ma deve tentare; se
non risponderanno i suoi uomini, magari lo farà un qualche
agente di pattuglia. Il risultato finale sarà comunque l’aver
attirato l’attenzione di qualcuno che possa venire in loro
soccorso.
Si
china un poco sul giovane uomo al suo fianco. «Ora provo a
richiamare indietro i miei ragazzi, d’accordo? Voi, per l’amor
del cielo, non vi agitate».
Ganimard
non è affatto sicuro che Lupin lo abbia compreso, o anche solo
udito se è per questo; ha un’aria un po’ spaesata
e vacua, di quelle che non ha mai avuto l’opportunità di
vedergli in faccia fino a quel momento. Ma deve sbrigarsi; la sua
indecisione non può certo giovare alle pessime condizioni
dell’altro. Fruga con una mano sotto il colletto della camicia
e ne estrae un fischietto che raccoglie fra le labbra. Sta per dar
fiato ai polmoni, quando un dubbio lo assale. Allora si riaccosta al
ladro e poggia saldamente i palmi delle mani contro le sue orecchie,
quindi solleva il viso al cielo, chiude gli occhi e un fischio acuto
e lacerante trapassa l’aria altrimenti immota e fredda della
città. Lo fa a più riprese, non avendo idea di dove
possa trovarsi in quel momento la sua squadra, né se abbia la
possibilità di sentirlo.
Poco
meno di due minuti dopo, a corto di fiato e di pazienza, scruta la
notte con ansia e premura, fino a che non ode dei passi affrettati
diretti verso di loro. Un mugolio, accanto, lo avvisa che il suo
compagno è ancora vivo, ma per nulla felice di ritrovarsi in
quel posto assieme a lui. I proprietari dei passi si rivelano essere
una guardia piuttosto anziana e un segaligno piantone notturno che li
stanno raggiungendo, ma quando sono a pochi passi dal lasciare la
piccola via dalla quale provengono la voce dell’Ispettore
intima seccamente loro di fermarsi dove sono.
«Siamo
caduti in un’imboscata, credo. Dall’altra parte del fiume
ci sono persone armate di fucili che ci hanno sparato addosso e hanno
colpito il mio compagno» spiega, temendo che avvicinandosi,
impreparati come sono, finirebbero solo con il complicare una
situazione già di per sé difficile.
«Che
si fa, allora?» chiede giustamente il più giovane,
evidentemente poco disposto a starsene con le mani in mano dopo
essere arrivato fin lì.
Ganimard
riflette sulle loro possibilità. Il piccolo veicolo di Lupin è
ancora nei paraggi; i due corsieri si sono allontanati di poco,
giusto per mettersi al riparo dalla gente intenzionata a sparare loro
addosso, ma a quanto pare abbastanza addestrati da non darsela a
gambe levate alla prima difficoltà. Un’idea fa capolino
nella sua testa, ma dipende soprattutto da ciò che sono
disposti a fare i loro due soccorritori.
«Siete
armati?» si informa prima d’ogni altra cosa.
Entrambi,
con sua somma soddisfazione, rispondono in modo affermativo. In più
sono abbastanza svegli da averlo identificato in quanto ufficiale di
grado superiore, e questa fortuna gli permetterà di certo di
risparmiare tempo e fastidi inutili.
«Ottima
notizia» decreta. Si volta un momento a controllare le
condizioni del ladro, notando che il suo respiro si è fatto
più affrettato, a tratti erratico. «Qui le cose vanno
male: hanno sparato a questo ragazzo e lo devo portare al più
presto a farlo medicare, o finisce che mi ritrovo con un morto
ammazzato sulla coscienza. Sareste in grado, voi due, di fornirmi una
copertura, mentre recupero quel cocchio e corro in ospedale?»
spiega, indicando il veicolo fermo a poca distanza.
I
due si consultano per breve tempo, gettando ulteriore angoscia
sull’Ispettore, costretto immobile al riparto del parapetto.
Infine, con suo enorme sollievo, annuiscono e si predispongono a
tenere impegnate le canaglie che non aspettano altro che una mossa
falsa da parte sua. Dopo averli opportunamente istruiti,
assicurandosi che una volta fuori tiro si mettano anche loro al
riparo, magari avvertendo le autorità del quartiere, si
appresta a ripartire. Prima, però, decide di capire a che
punto si ritrovano; così in fretta scioglie il fazzoletto
bianco che Lupin porta legato al collo e lo getta in aria sopra le
loro teste. Con suo profondo sgomento questo viene immediatamente
fatto a brandelli da una raffica di proiettili di fucile. A quanto
sembra, chiunque ci sia laggiù è ben deciso a non
farseli scappare; non tutti interi né sulle proprie gambe, per
lo meno.
Con
un poco di impaccio, vista la scomoda posizione che deve tenere,
Ganimard si carica sulla spalla sinistra Lupin, recupera nella mano
destra la propria pistola e dà un rapido segnale con la testa
ai due uomini appostati dietro l’angolo, i quali si sporgono
quel tanto che basta da poter mirare e aprono il fuoco, tenendo
impegnati quelli con i fucili. Nello stesso momento l’Ispettore
si slancia oltre il parapetto, tenendo gli occhi e l’attenzione
ben fissi sul loro unico mezzo di trasporto nonché possibilità
di salvezza, e nel momento in cui lo raggiunge sente di essere a buon
punto, molto prossimo a portare a compimento la propria missione.
Strana idea, considerando che in teoria la sua missione era, da
principio, quella di acciuffare il ladro e portarlo al fresco. Come
cambiano in modo repentino certe prospettive, si riscopre a pensare.
Carica
con prudenza il ladro sul veicolo, accertandosi che sia al sicuro e
che non possa farsi ulteriormente del male durante il viaggio,
dopodiché prende posto a cassetta e sprona i due corsieri, i
quali partono con uno scatto deciso che fa impallidire il povero
Ispettore, avvezzo a certe bestie di poco più veloci di lui.
«Buon Dio, se non ci ammazziamo questa volta giuro che, finita
questa giornata, entro nella prima chiesa e accendo un cero di
sentiti ringraziamenti a chi di dovere» promette solennemente a
sé stesso.
Diretto
all’Hôtel-Dieu a una velocità cui non è
affatto abituato, di tanto in tanto si volta all’indietro per
controllare che il passeggero sia ancora a bordo o che non sia invece
stato sbalzato fuori dagli scossoni, soprattutto che non abbia subito
ulteriori danni, considerando che le strade percorse fino a quel
momento non sono delle migliori per preservare le ossa integre.
L’ultima di queste osservazioni lo fa fremere d’ansia; se
fino a quel momento il ragazzo era sembrato deciso a tenersi
aggrappato al sedile sul quale viaggia nonché alla sua pelle,
ora è fuor di dubbio privo di sensi e il braccio posizionato
all’esterno pende fino a toccare il pianale del veicolo.
Digrigna i denti e, in barba al terrore cieco che prova nel vedere il
paesaggio scorrere troppo rapidamente sotto il suo sguardo, sprona
ulteriormente le cavalcature, deciso a giungere il prima possibile a
destinazione.
Quando
infine vi approdano, le ginocchia di Ganimard tremano in modo vistoso
mentre scende da cassetta e, con passo malfermo, raggiunge la parte
posteriore del veicolo per recuperare il suo passeggero. Prima di
fare ciò prende alcune, profonde boccate di aria nel tentativo
di calmarsi, così da evitare di farselo sfuggire di mano a
causa della fifa. Nel momento in cui si decide ha però una
brutta sorpresa: non solo è svenuto, ma respira a malapena ed
è di un pallore spettrale.
«Non
fare scherzi, dannato ragazzino» sbotta, issandolo fra le
braccia senza troppi complimenti e salendo ad ampie falcate la
scalinata dell’edificio.
Un
momento dopo aver guadagnato l’atrio manda un urlo di
avvertimento, senza peraltro rallentare la propria marcia, e viene
presto affiancato da un paio di uomini ben piazzati e corredati da un
cipiglio severo che sembrano prendere in consegna i due ospiti appena
sopraggiunti. Ganimard, con poche parole, rammenta loro chi è
e spiega cosa gli è accaduto, ma la sua deve apparire a quelli
del personale più come una minaccia che come una spiegazione,
perché lo scrutano con risentimento e gli fanno presente poco
garbatamente che il loro è un ospedale dove la gente viene
curata.
Di
contro Ganimard, per nulla intimidito, li fissa di rimando. «Se
ben ricordo lo diceste anche quella volta in cui il sottotenente
Dubois fu ricoverato con un braccio e due costole rotte. Qualcuno,
per caso, rammenta che fine abbia fatto quel poveretto?». Con
un ghigno, ancora diretto di filato ai reparti giusti, si gode
l’imbarazzo palese impresso sulle brutte facce che lo
affiancano. «Deduco di sì. Ebbene, aprite le orecchie,
perché intendo dirlo una volta per tutte: questo ragazzo deve
sopravvivere. Se lui muore, verrò personalmente a trovare il
responsabile e lo sbatterò nella cella più umida e
puzzolente di Parigi. Tutto chiaro? Sì? Ottimo».
«Ma
chi è?» vogliono sapere i due.
«Che
ve ne importa? Fate pure conto che sia il figlio del presidente, se
questo può aiutarvi a tenere in testa il semplice concetto che
vi ho appena spiegato».
Un
istante più tardi sono di fronte a uno dei chirurghi
dell’ospedale, il quale occhieggia sorpreso il nuovo venuto,
evidentemente non riconoscendolo. «Ispettore Ganimard» si
presenta con tono asciutto, appoggiando con garbo il ragazzo sul
tavolo davanti a loro. «Vi affido questo mio amico. Lo rivoglio
indietro tutto intero e respirante, intesi?». Non resta ad
attendere una risposta, ma se ne esce invece, sapendo che le
spiegazioni di cui abbisogna il medico le riceverà di certo,
condite di fronzoli vari, dai due impiccioni del personale di
servizio.
Venti
minuti dopo, ovvero alla bellezza delle tre di notte, l’Ispettore
Capo Justin Ganimard della Sûreté di Parigi si infila
attraverso il pesante portone della cattedrale di Notre-Dame de Paris
e si dirige con passo lento ma deciso lungo la navata di sinistra
verso l’abside, intenzionato a concludere in bellezza quella
disgraziata missione che a nulla ha portato salvo a togliersi
d’impiccio senza un graffio (ma con una sproporzionata quantità
di lividi, localizzati in modo particolare sul fondoschiena). Mentre
fruga con indolenza nelle tasche del cappotto per ripescarvi qualche
monetina, i suoi pensieri vagano, tornando all’ansa della Senna
e al parapetto del ponte. Qualche dettaglio gli sfugge, ma intende
fare chiarezza sugli ultimi avvenimenti, e magari trovarvi un senso,
una parvenza di logica. Recupera un cero dal cassetto pieno e lo
inclina verso una delle fiamme accese, dando fuoco allo stoppino, poi
posa la candela nell’alloggio cui è destinata e rimane a
fissare la fiamma gialla, assorto. Quando sono iniziati gli spari?
Prima o dopo che si è rialzato da terra? Cruccia la fronte,
cercando di rammentare. Ricorda invece gli occhi grigi del ladro di
fronte a lui; ricorda il momento esatto in cui la loro espressione è
cambiata, passando da divertita a smarrita. Era già in piedi,
allora? Sgrana gli occhi, rammentando: lo era, sì; si era
appena rimesso diritto, la sua mano ancora stretta in quella di
Lupin. Ma, allora…
«Allora
ero io. Quello che dovevano ammazzare, quello, ero io» soffia
con appena un filo di voce.
A
tentoni raggiunge una panca e vi si lascia scivolare malamente,
ancora frastornato dall’ultima notizia, lo sguardo perso nei
vetri decorati dietro l’altare.
«Ma
chi diamine si prenderebbe la briga di seguirmi per farmi la pelle?»
si chiede in un borbottio incredulo. È quella, tuttavia, una
domanda abbastanza sciocca; gli è sufficiente farsi due conti
per trovare almeno una decina di cattivi soggetti che trarrebbero
grande sollievo e giovamento dalla vista del suo cadavere che va
raffreddandosi. Non è che possa contare su di una folta
schiera di sostenitori all’interno della criminalità
parigina, ben inteso.
Una
mezza risata agghiacciata scivola fra le sue labbra, causandogli un
piccolo attacco di tosse nel momento in cui rammenta che, in effetti,
l’unico suo sostenitore di quella risma al momento si trova
all’Hôtel-Dieu, forse già bello che stecchito e
pronto per l’obitorio, dopo aver avuto la sfortuna di essere
nei diretti paraggi mentre attentavano alla sua vita.
«No,
questo no; li ho praticamente minacciati. Si staranno dando da fare
per trattenerlo da questa parte» ricorda, facendo una smorfia
poiché spera di essere stato incisivo a sufficienza.
Sarebbe
oltremodo seccante scoprire in ritardo di non esserlo stato
abbastanza, e di dover tornare lì solo per prenderne atto. No,
non seccante, sarebbe orribilmente disonorevole. Quanti anni può
avere quel ragazzo? Ventidue? Forse venticinque? E, d’accordo,
quella è il tipo di persona cui diverte enormemente mettersi
nei guai un giorno sì e l’altro pure; ma lo fa per
decisione personale. È differente. Sì, lo è; e,
dannazione, quella gente non cercava Lupin, ci si è ritrovato
in mezzo per puro caso. Si afferra la testa fra le mani. Viene colto
da un istante di panico; trema, il respiro affrettato e la confusione
nei suoi pensieri.
«E
perché se ne va in giro disarmato? Non lo sa che c’è
gente pericolosa in questa città?» sbotta allucinato.
Già:
perché? La risposta è semplice e lo fa boccheggiare di
smarrimento: perché Arsène Lupin non uccide.
«Certo,
però in compenso può morire» ragiona con tetra
amarezza. E chi è al corrente del fatto che a quest’ora
quello sciocco ladro potrebbe essere già morto? Nessuno,
perché la sua banda si sarà di certo dileguata nel
nulla come al solito e gli uomini della Sûreté, poco ma
sicuro, se la saranno lasciata sfuggire sotto il naso come perfetti
imbecilli quali sono. E il personale dell’Hôtel-Dieu
neppure sa chi sia il ragazzo che è stato portato da loro più
morto che vivo direttamente dall’Ispettore Ganimard in piena
notte. E allora chi lo sa? «Io. Lo so io» mormora,
sollevando lo sguardo di nuovo alle fiammelle lì accanto. La
luce che emanano è fioca e basta a malapena a rischiarare una
minima parte dell’abside in cui sono poste, eppure in mezzo a
quelle fiammelle ritrova una parvenza di speranza. Forse non ci ha
impiegato troppo tempo per raggiungere il cocchio prima e l’ospedale
dopo; forse non è troppa la quantità di sangue che ha
perduto accanto al parapetto e poi lungo la strada; forse, dopo
tutto, è stato abbastanza categorico e minaccioso da spronare
a sufficienza quei fanfaroni dell’Hôtel-Dieu; forse il
ragazzo è abbastanza sano e robusto da passare sopra al resto
delle magagne e fregarsene di una fucilata; e forse… forse…
Forse Ganimard dovrebbe semplicemente smetterla di accampare scuse
insensate e offrire un piccolo contributo personale. Non è mai
stato un granché come cristiano, scarsamente devoto e per lo
più scettico, ma di certo l’occasione merita un poco del
suo riguardo e impegno, pertanto, con qualche scricchiolio
preoccupante delle sue povere e maltrattate giunture, si mette in
ginocchio e, borbottando per almeno la metà del tempo, prega.
«Ehm…
Salve, Signore. Non sono certo vi ricordiate di me; mi scuso, ché
non abbiamo molte occasioni di sentirci. Ma siccome non sono io
quello in ballo al momento, mi risparmio di ricordarvi certi
particolari del sottoscritto per sollecitare invece la vostra
attenzione su una faccenda grave accaduta proprio questa notte. Voi,
forse, già conoscete i retroscena. Ecco, io al contrario li ho
appena scoperti, e mi ci sento veramente da schifo, e… Voi,
Signore, non è che potreste, diciamo, metterci una buona
parola? Sì, lo so che è un ragazzaccio e anche uno
scavezzacollo ma, vedete, non fa mica del male a nessuno e… e…
Questa notte mi ha salvato, sapete? E non era per niente obbligato a
farlo. Così… pensavo, se potete… Vorreste…
Oh, magari, non so, metterci del vostro per tirarlo fuori dai guai,
ecco».
Quando
si rialza, con la schiena e le ginocchia a pezzi e il volto
accaldato, è certo di non essersi mai sentito più in
imbarazzo di così, neppure quando anni prima è finito a
mollo nella Senna davanti a mezzo reggimento (lasciamo perdere). Ciò
nonostante sente di aver fatto un passo nella direzione giusta. Il
prossimo sarà quello di tornare all’Hôtel-Dieu e
aspettare che lo avvertano di un qualunque cambiamento, sperando che
non si tratti dell’annuncio di un decesso.
|