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Autore: Roiben    09/05/2020    0 recensioni
[Arsène Lupin] L'Ispettore Capo della Sûreté di Parigi Justin Ganimard ha un fastidioso problema per le mani, uno che non sembra intenzionato a essere risolto.
Quello che invece non sa, Ganimard, è che il suo fastidioso problema non è neppure il peggiore. E forse, dopo tutto, non è nemmeno un problema, quanto piuttosto una soluzione.
Genere: Angst, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Arsène Lupin, Justin Ganimard, Nuovo personaggio, Victoire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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02 - Un sorriso incrinato



Stipati i suoi uomini per l’ennesima volta nel cellulare, l’Ispettore lancia un grido di avvertimento al conducente, il quale sprona i cavalli facendo ripartire il veicolo di gran carriera. I cittadini, quella sera, non saranno granché soddisfatti della trovata dell’ultimo minuto dei tutori della legge di Parigi; tutto il fracasso del cellulare sul lastricato sveglierebbe anche i loro antenati. Ma Ganimard ha deciso di non lasciare nulla di intentato e di ripresentarsi l’indomani a testa alta di fronte al prefetto, che intenda come sempre ingiuriarlo per gli insuccessi degli agenti sul campo oppure congratularsi con lui.



Il cellulare corre veloce e oltrepassa Batignolles, dirigendosi con decisione verso le rive della prima ansa della Senna. L’Ispettore, la testa fuori dal finestrino e gli occhi lacrimanti per l’aria fredda che lo investe, si ostina a fissare la strada che percorrono e i dintorni nella speranza di intravvedere ombre sospette. Incredibile a dirsi, ormai a poche lunghezze dal primo ponte, quello di Saint-Ouen, riesce davvero a scorgere qualcosa e lo indica con fatica, dato il gran fracasso, al conducente, il quale, sorprendentemente, ottiene un ulteriore aumento della velocità proprio mentre la carrozza che Ganimard ha scorto svolta oltre il ponte prendendo la strada a sinistra in direzione, pare, di Nanterre.



Quando anche loro si ritrovano sul ponte e l’Ispettore si sporge ancora finendo quasi per metà fuori dal cellulare, un secondo veicolo, che somiglia piuttosto a un piccolo cocchio biposto scoperto trainato da due corsieri, compare sul suo orizzonte, già ben lontano ma sembrando intenzionato a riportarsi verso il primo, una carrozza a sei posti. Ganimard aggrotta le sopracciglia e cerca di immaginare le intenzioni del conducente; tuttavia non ne trova neppure il tempo perché ben presto le intenzioni si rendono palesi e il suo, di conducente, è costretto a frenare bruscamente e trattenere i cavalli, spaventati dal rapido passaggio dei due corsieri che per un soffio non si sono scontrati con il cellulare e tutta la squadra ivi contenuta.



Ganimard ringhia e bestemmia, affacciandosi pericolosamente al finestrino e scuotendo il pugno in direzione del pazzo conducente, il quale poi altri non può essere se non l’uomo che cercano da mesi senza mai riuscire a mettergli le mani addosso.



«Dannato, fermatevi! Siete in arresto! Mi avete sentito?» sbraita l’Ispettore, sporgendosi fin che osa dal finestrino e fissando truce il piccolo veicolo che sta facendo ammattire i loro cavalli.



«Prima dovreste acchiapparmi, amico Ganimard!» ribatte in tono allegro il ladro, ridendo della furia impressa sul viso dell’Ispettore.



«Vedrete! Vedrete se non lo faccio» minaccia Ganimard, insultando al contempo il proprio conducente e intimandogli di riprendere il controllo delle loro cavalcature e tornare all’inseguimento del ricercato.



Ha anche estratto la sua pistola, ma senza osare servirsene poiché quello sfrontato si muove con troppa velocità e senza una logica; se provasse a prendere la mira in quelle condizioni, con la fortuna che si ritrova finirebbe per farlo secco. Invece, esasperato dalla situazione, alla fine decide di rimettersi in tasca l’arma e si trascina verso lo sportello, intenzionato a scendere, nonostante il veicolo abbia ripreso la marcia, seppur a fatica. I suoi uomini cercano come possono di trattenerlo all’interno, giudicando la sua idea una completa pazzia e non a torto, ma l’Ispettore appare irremovibile e quando ritiene che il momento sia propizio spalanca lo sportello e, per fortuna o abilità nessuno mai potrà stabilirlo, il suo slancio lo porta ad atterrare sulla parte frontale del cocchio.



«Accipicchia, bel salto, Ganimard!» esclama Lupin, ammirato e divertito dalle prodezze del suo poliziotto preferito. «Che caro, siete venuto a trovarmi? Sono lusingato. Per ringraziarvi vi regalo un bel giro panoramico del quartiere sul mio mezzo, vi va?» propone allegro.



Senza attendere replica, che forse neppure giungerebbe data la situazione precaria dell’Ispettore, sprona i suoi corsieri e li dirige di nuovo verso la riva della Senna più vicina, ovvero il centro della prima ansa e con essa l’Île Saint Denis, e nel farlo taglia di nuovo la strada del cellulare con il risultato di spaventarne ulteriormente i cavalli e rallentare la squadra di agenti al completo.



«Fermatevi!» gracchia Ganimard, appollaiato in modo instabile nello stesso punto in cui è atterrato. «Vi ordino di fermarvi immediatamente».



Lupin ride, sembrando felice come un bambino. «Ma, amico mio, non vorrete perdervi le bellezze della notte parigina. Guardate» indica, costeggiando il lungofiume a velocità proibitiva, «le stelle riflesse sull’acqua scura brillano doppiamente. Non è una meraviglia?».



Justin Ganimard grugnisce e, piano piano, tenta di guadagnare una posizione più sicura e magari che gli permetta di avere accesso a quel furfante proprio lì accanto. Ma con gli scossoni del veicolo e la rapidità con la quale procedono l’operazione non si rivela affatto semplice. E le dita, già piuttosto intirizzite, gli si stanno ora congelando per bene e perdono sensibilità e aderenza. Di quel passo finirà con il ritrovarsi a scivolare sotto le ruote del cocchio; una conclusione per nulla attraente. Con un poco di fatica si guarda attorno scoprendo, senza neppure eccessiva sorpresa, che il ladro ha ormai facilmente distanziato il cellulare. Si augura che, se non altro, i suoi uomini abbiano preso in considerazione l’idea di tornare all’inseguimento della prima carrozza, più lenta e quindi più facile da inseguire. Per lo meno in quel modo qualcuno potrebbe forse avere l’opportunità di portare a casa un qualunque risultato che non siano altre ossa rotte e la solita, perenne umiliazione.



«Per Dio, fermate questo aggeggio infernale» rantola, oramai stremato e pronto all’imminente resa.



Curiosamente questa volta avverte il veicolo rallentare in modo progressivo ma ben percepibile e si sorprende nel constatare che, per motivi che ignora del tutto, Lupin deve aver deciso di venire incontro alle sue preghiere. Chissà, forse ha avuto pietà di lui. Sospira dentro di sé e si rassegna perché, sia come sia, almeno la pelle per questa volta la riporterà a casa. È anche quello un risultato, seppur non fra i più brillanti.



Ora il piccolo veicolo è fermo a bordo strada e può distintamente udire lo sciabordio dell’acqua accanto a loro; devono quindi essersi fermati sul fianco del fiume e, quando solleva gli occhi con prudenza, nota che si trovano proprio accanto alle radici del Pont d’Argenteuil, in un piccolo Quai a pochi passi dall’Avenue d’Argenteuil. Con un po’ di fatica si lascia scivolare giù dal cocchio e, messi i piedi sul solido lastricato, le ginocchia non lo sostengono e finisce con il fondoschiena a terra. Il suo grugnito di contrarietà e stizza viene in parte coperto dalla risata argentina del giovane uomo che si trova in sua compagnia.



«Dovrei mettervi sotto chiave solo per questo» borbotta.



«Per che cosa, Ganimard?».



«Per questa vostra cattiva abitudine a ridere di me e delle mie disgrazie».



«Potreste farlo anche voi, amico mio, ma non sembrate il genere di persona che può divertirsi per così poco, dico bene?».



L’Ispettore solleva lo sguardo e ritrova di fronte a sé quello divertito del ladro. Scuote la testa. Ha ancora con sé la sua pistola; potrebbe usarla, almeno per tentare di obbligare quel furbastro a seguirlo alla centrale del Quai des Orfèvres. Chissà se prenderebbe sul serio la sua intimazione, si domanda perplesso.



«Tiro a indovinare, signor Ispettore: volete arrestarmi» si burla di lui Lupin.



«Potrei» tentenna Ganimard.



«Errore. Potreste provarci» lo corregge, senza tuttavia rinunciare al suo sorriso.



Sì, è vero: potrebbe provarci. Dunque, perché non farlo? Decide. Estrae di tasca la pistola e gliela punta contro. Le labbra di Lupin si socchiudono di stupore e i suoi occhi si sgranano appena. Non accenna a muovere un passo, ma sulla sua bocca il sorriso ha assunto una sfumatura un poco amara. Scosta le braccia dal corpo e le allarga davanti al poliziotto, come ad afferrare l’aria attorno a sé.



«Vorreste spararmi, Justin Ganimard?» chiede con sarcasmo, scuotendo la testa. «A che scopo? Che utilità ne trarreste? E poi… io non ho armi con me, Ispettore. Come credete di potervi giustificare?».



Ganimard è confuso. Forse ha davvero voglia di sparargli e farla finita una volta per tutte con quell’uomo, con le sue irritanti prese in giro, con tutti i guai che crea alla loro Francia. Sì, ma dopo? Lui ha ragione: in che modo passare sopra al fatto di aver ucciso a sangue freddo un uomo disarmato? Fingendo che non sia accaduto? Rinserra le labbra con disappunto e, lentamente, abbassa le braccia e l’arma che ancora trattiene fra le mani.



«È vero: non sono un assassino» ammette, incerto se sentirsi sconfitto oppure soddisfatto.



«Neppure io lo sono, amico Ganimard» commenta, allungando una mano per offrirgli un aiuto a rimettersi in piedi. «Comunque, i miei complimenti: è stato davvero un tuffo spettacolare» rimarca, non riuscendo a fare a meno di prendersi gioco di lui.



L’Ispettore sbuffa. «Molto divertente» bercia stizzito, facendo leva sulle ginocchia e aiutandosi con l’appoggio della mano dell’altro per alzarsi da terra.



Proprio nel momento in cui ci è quasi riuscito, Ganimard nota che il solito sorrisetto sfrontato del ladro si è incrinato e negli occhi l’allegria ha lasciato il posto, in modo repentino quanto inatteso, alla costernazione, mentre all’apparenza fissa un punto lontano oltre il ponte accanto al quale sono fermi.



«Cosa…?» tenta di chiedere, impensierito dal drastico cambio d’umore del giovane uomo in sua compagnia.



Non ne trova però il tempo perché, giusto mentre la sua schiena e le sue spalle si stanno definitivamente raddrizzando, Lupin torna con lo sguardo su di lui e ciò che può vedere è paura e sgomento. Prima ancora di udire la sua voce concitata e allarmata, avverte le sue mani su di sé che lo afferrano con forza per il bavero e lo sospingono di nuovo a terra.



«Attenzione! Giù!» grida, trascinando di nuovo sul lastricato l’Ispettore e con lui sé stesso.



Nel tempo che impiegano ad atterrare malamente al suolo, l’Ispettore ode tre detonazioni, quasi in contemporanea, giungere da una certa distanza, forse l’altra sponda del fiume. Un singulto sfiatato fuoriesce dalle sue labbra, poi digrigna i denti mentre tenta di recuperare l’arma finita a terra poco distante da sé. La ricaduta al suolo non è stata fra le più piacevoli e avverte il dolore pulsare un po’ ovunque tranne alla testa, il che probabilmente è un bene, almeno se la caverà senza bernoccoli, ma certo l’indomani dovrà contarsi i lividi di quell’avventura all’apparenza infinita.



Intanto la prima domanda che gli salta per la mente è: chi ha sparato? E la seconda, di conseguenza: a chi era diretto? Prova a risollevarsi, qualche istante dopo aver sbattuto il fondoschiena per la seconda volta, ma le mani che ce lo hanno spinto lo trattengono con forza e decisione.



«State giù, sciocco poliziotto. Volete proprio farvi ammazzare?» soffia accanto a lui la voce alterata di Lupin, seguita da un lieve gemito.



«Amici vostri?» si informa l’Ispettore.



Uno sbuffo. «Secondo voi sono tanto fesso da circondarmi di amici che mi sparano alle spalle alla prima occasione?» ribatte contrariato.



«Non si sa mai. Miei non sono di certo» borbotta Ganimard. Un secondo gemito gli giunge alle orecchie. Il corpo sopra il suo ha un fremito. Ganimard aggrotta la fronte e curva il collo per tentare di vedere con più chiarezza e capire in che situazione si ritrovano. «Ragazzo, tutto a posto?» chiede a quel punto, benché abbia qualche dubbio che lo sia veramente.



«Stavo meglio prima. E non mi chiamate ragazzo» borbotta Lupin.



«È quello che siete, dopo tutto. Che succede? Vi hanno ferito?».



«Pare di sì» soffia, rabbrividendo.



Quella risposta ha come infausta conseguenza di metterlo ancora più di cattivo umore di quanto non fosse stato fino a quel momento. Dato che ha intenzione di fare un poco di luce sul problema che attualmente li affligge, lascia perdere per il momento la sua pistola, ancora dispersa da qualche parte lì accanto e, con incerta cautela, afferra in una presa ben salda gli abiti del ladro e se lo scosta appena di dosso voltandosi e rigirandolo di schiena. La prima cosa che nota è il repentino e insano pallore che spicca sul viso dell’altro; la seconda, dopo averlo scandagliato con gli occhi, è l’ampia macchia rossa che si va allargando con preoccupante rapidità sulla sua coscia sinistra.



«Santiddio» esclama, scosso dalla scoperta e dalla vista.



Esaurita la brutta sorpresa iniziale, lascia perdere ulteriori parole e, sempre rimanendo accucciato dietro il parapetto del ponte per evitare di far da bersaglio a chiunque ci sia sull’altra sponda, si slega la cravatta e se la sfila dal collo.



«Ispettore» mugola Lupin, cercando di muoversi per capire cosa accade.



«Fermo. Restate fermo lì, ragazzo».



Il ladro si lascia sfuggire una smorfia infastidita, ma per una volta (probabilmente la prima e forse l’ultima) nella sua vita decide di dar retta alle richieste di quell’uomo. Ganimard solleva di poco la gamba ferita di Lupin, ottenendo un sussulto e un gemito, e vi avvolge la propria cravatta attorno, poco sopra il punto colpito, e lì la lega stretta augurandosi che sia sufficiente a rallentare la perdita di sangue abbastanza a lungo perché possa trasportarlo all’ospedale. Rimane il problema di quella gente che gli è ancora sconosciuta ma che non dubita sia in agguato pronta a impallinare anche lui com’è accaduto al suo attuale compagno di sventure. Forse sono abbastanza fortunati da poter ricondurre a loro la squadra che era al seguito dell’Ispettore, sempre che non sia dispersa in qualche angolo non accessibile di Parigi, ancora sulle tracce del primo veicolo. Ma deve tentare; se non risponderanno i suoi uomini, magari lo farà un qualche agente di pattuglia. Il risultato finale sarà comunque l’aver attirato l’attenzione di qualcuno che possa venire in loro soccorso.



Si china un poco sul giovane uomo al suo fianco. «Ora provo a richiamare indietro i miei ragazzi, d’accordo? Voi, per l’amor del cielo, non vi agitate».



Ganimard non è affatto sicuro che Lupin lo abbia compreso, o anche solo udito se è per questo; ha un’aria un po’ spaesata e vacua, di quelle che non ha mai avuto l’opportunità di vedergli in faccia fino a quel momento. Ma deve sbrigarsi; la sua indecisione non può certo giovare alle pessime condizioni dell’altro. Fruga con una mano sotto il colletto della camicia e ne estrae un fischietto che raccoglie fra le labbra. Sta per dar fiato ai polmoni, quando un dubbio lo assale. Allora si riaccosta al ladro e poggia saldamente i palmi delle mani contro le sue orecchie, quindi solleva il viso al cielo, chiude gli occhi e un fischio acuto e lacerante trapassa l’aria altrimenti immota e fredda della città. Lo fa a più riprese, non avendo idea di dove possa trovarsi in quel momento la sua squadra, né se abbia la possibilità di sentirlo.



Poco meno di due minuti dopo, a corto di fiato e di pazienza, scruta la notte con ansia e premura, fino a che non ode dei passi affrettati diretti verso di loro. Un mugolio, accanto, lo avvisa che il suo compagno è ancora vivo, ma per nulla felice di ritrovarsi in quel posto assieme a lui. I proprietari dei passi si rivelano essere una guardia piuttosto anziana e un segaligno piantone notturno che li stanno raggiungendo, ma quando sono a pochi passi dal lasciare la piccola via dalla quale provengono la voce dell’Ispettore intima seccamente loro di fermarsi dove sono.



«Siamo caduti in un’imboscata, credo. Dall’altra parte del fiume ci sono persone armate di fucili che ci hanno sparato addosso e hanno colpito il mio compagno» spiega, temendo che avvicinandosi, impreparati come sono, finirebbero solo con il complicare una situazione già di per sé difficile.



«Che si fa, allora?» chiede giustamente il più giovane, evidentemente poco disposto a starsene con le mani in mano dopo essere arrivato fin lì.



Ganimard riflette sulle loro possibilità. Il piccolo veicolo di Lupin è ancora nei paraggi; i due corsieri si sono allontanati di poco, giusto per mettersi al riparo dalla gente intenzionata a sparare loro addosso, ma a quanto pare abbastanza addestrati da non darsela a gambe levate alla prima difficoltà. Un’idea fa capolino nella sua testa, ma dipende soprattutto da ciò che sono disposti a fare i loro due soccorritori.



«Siete armati?» si informa prima d’ogni altra cosa.



Entrambi, con sua somma soddisfazione, rispondono in modo affermativo. In più sono abbastanza svegli da averlo identificato in quanto ufficiale di grado superiore, e questa fortuna gli permetterà di certo di risparmiare tempo e fastidi inutili.



«Ottima notizia» decreta. Si volta un momento a controllare le condizioni del ladro, notando che il suo respiro si è fatto più affrettato, a tratti erratico. «Qui le cose vanno male: hanno sparato a questo ragazzo e lo devo portare al più presto a farlo medicare, o finisce che mi ritrovo con un morto ammazzato sulla coscienza. Sareste in grado, voi due, di fornirmi una copertura, mentre recupero quel cocchio e corro in ospedale?» spiega, indicando il veicolo fermo a poca distanza.



I due si consultano per breve tempo, gettando ulteriore angoscia sull’Ispettore, costretto immobile al riparto del parapetto. Infine, con suo enorme sollievo, annuiscono e si predispongono a tenere impegnate le canaglie che non aspettano altro che una mossa falsa da parte sua. Dopo averli opportunamente istruiti, assicurandosi che una volta fuori tiro si mettano anche loro al riparo, magari avvertendo le autorità del quartiere, si appresta a ripartire. Prima, però, decide di capire a che punto si ritrovano; così in fretta scioglie il fazzoletto bianco che Lupin porta legato al collo e lo getta in aria sopra le loro teste. Con suo profondo sgomento questo viene immediatamente fatto a brandelli da una raffica di proiettili di fucile. A quanto sembra, chiunque ci sia laggiù è ben deciso a non farseli scappare; non tutti interi né sulle proprie gambe, per lo meno.



Con un poco di impaccio, vista la scomoda posizione che deve tenere, Ganimard si carica sulla spalla sinistra Lupin, recupera nella mano destra la propria pistola e dà un rapido segnale con la testa ai due uomini appostati dietro l’angolo, i quali si sporgono quel tanto che basta da poter mirare e aprono il fuoco, tenendo impegnati quelli con i fucili. Nello stesso momento l’Ispettore si slancia oltre il parapetto, tenendo gli occhi e l’attenzione ben fissi sul loro unico mezzo di trasporto nonché possibilità di salvezza, e nel momento in cui lo raggiunge sente di essere a buon punto, molto prossimo a portare a compimento la propria missione. Strana idea, considerando che in teoria la sua missione era, da principio, quella di acciuffare il ladro e portarlo al fresco. Come cambiano in modo repentino certe prospettive, si riscopre a pensare.



Carica con prudenza il ladro sul veicolo, accertandosi che sia al sicuro e che non possa farsi ulteriormente del male durante il viaggio, dopodiché prende posto a cassetta e sprona i due corsieri, i quali partono con uno scatto deciso che fa impallidire il povero Ispettore, avvezzo a certe bestie di poco più veloci di lui. «Buon Dio, se non ci ammazziamo questa volta giuro che, finita questa giornata, entro nella prima chiesa e accendo un cero di sentiti ringraziamenti a chi di dovere» promette solennemente a sé stesso.



Diretto all’Hôtel-Dieu a una velocità cui non è affatto abituato, di tanto in tanto si volta all’indietro per controllare che il passeggero sia ancora a bordo o che non sia invece stato sbalzato fuori dagli scossoni, soprattutto che non abbia subito ulteriori danni, considerando che le strade percorse fino a quel momento non sono delle migliori per preservare le ossa integre. L’ultima di queste osservazioni lo fa fremere d’ansia; se fino a quel momento il ragazzo era sembrato deciso a tenersi aggrappato al sedile sul quale viaggia nonché alla sua pelle, ora è fuor di dubbio privo di sensi e il braccio posizionato all’esterno pende fino a toccare il pianale del veicolo. Digrigna i denti e, in barba al terrore cieco che prova nel vedere il paesaggio scorrere troppo rapidamente sotto il suo sguardo, sprona ulteriormente le cavalcature, deciso a giungere il prima possibile a destinazione.



Quando infine vi approdano, le ginocchia di Ganimard tremano in modo vistoso mentre scende da cassetta e, con passo malfermo, raggiunge la parte posteriore del veicolo per recuperare il suo passeggero. Prima di fare ciò prende alcune, profonde boccate di aria nel tentativo di calmarsi, così da evitare di farselo sfuggire di mano a causa della fifa. Nel momento in cui si decide ha però una brutta sorpresa: non solo è svenuto, ma respira a malapena ed è di un pallore spettrale.



«Non fare scherzi, dannato ragazzino» sbotta, issandolo fra le braccia senza troppi complimenti e salendo ad ampie falcate la scalinata dell’edificio.



Un momento dopo aver guadagnato l’atrio manda un urlo di avvertimento, senza peraltro rallentare la propria marcia, e viene presto affiancato da un paio di uomini ben piazzati e corredati da un cipiglio severo che sembrano prendere in consegna i due ospiti appena sopraggiunti. Ganimard, con poche parole, rammenta loro chi è e spiega cosa gli è accaduto, ma la sua deve apparire a quelli del personale più come una minaccia che come una spiegazione, perché lo scrutano con risentimento e gli fanno presente poco garbatamente che il loro è un ospedale dove la gente viene curata.



Di contro Ganimard, per nulla intimidito, li fissa di rimando. «Se ben ricordo lo diceste anche quella volta in cui il sottotenente Dubois fu ricoverato con un braccio e due costole rotte. Qualcuno, per caso, rammenta che fine abbia fatto quel poveretto?». Con un ghigno, ancora diretto di filato ai reparti giusti, si gode l’imbarazzo palese impresso sulle brutte facce che lo affiancano. «Deduco di sì. Ebbene, aprite le orecchie, perché intendo dirlo una volta per tutte: questo ragazzo deve sopravvivere. Se lui muore, verrò personalmente a trovare il responsabile e lo sbatterò nella cella più umida e puzzolente di Parigi. Tutto chiaro? Sì? Ottimo».



«Ma chi è?» vogliono sapere i due.



«Che ve ne importa? Fate pure conto che sia il figlio del presidente, se questo può aiutarvi a tenere in testa il semplice concetto che vi ho appena spiegato».



Un istante più tardi sono di fronte a uno dei chirurghi dell’ospedale, il quale occhieggia sorpreso il nuovo venuto, evidentemente non riconoscendolo. «Ispettore Ganimard» si presenta con tono asciutto, appoggiando con garbo il ragazzo sul tavolo davanti a loro. «Vi affido questo mio amico. Lo rivoglio indietro tutto intero e respirante, intesi?». Non resta ad attendere una risposta, ma se ne esce invece, sapendo che le spiegazioni di cui abbisogna il medico le riceverà di certo, condite di fronzoli vari, dai due impiccioni del personale di servizio.



Venti minuti dopo, ovvero alla bellezza delle tre di notte, l’Ispettore Capo Justin Ganimard della Sûreté di Parigi si infila attraverso il pesante portone della cattedrale di Notre-Dame de Paris e si dirige con passo lento ma deciso lungo la navata di sinistra verso l’abside, intenzionato a concludere in bellezza quella disgraziata missione che a nulla ha portato salvo a togliersi d’impiccio senza un graffio (ma con una sproporzionata quantità di lividi, localizzati in modo particolare sul fondoschiena). Mentre fruga con indolenza nelle tasche del cappotto per ripescarvi qualche monetina, i suoi pensieri vagano, tornando all’ansa della Senna e al parapetto del ponte. Qualche dettaglio gli sfugge, ma intende fare chiarezza sugli ultimi avvenimenti, e magari trovarvi un senso, una parvenza di logica. Recupera un cero dal cassetto pieno e lo inclina verso una delle fiamme accese, dando fuoco allo stoppino, poi posa la candela nell’alloggio cui è destinata e rimane a fissare la fiamma gialla, assorto. Quando sono iniziati gli spari? Prima o dopo che si è rialzato da terra? Cruccia la fronte, cercando di rammentare. Ricorda invece gli occhi grigi del ladro di fronte a lui; ricorda il momento esatto in cui la loro espressione è cambiata, passando da divertita a smarrita. Era già in piedi, allora? Sgrana gli occhi, rammentando: lo era, sì; si era appena rimesso diritto, la sua mano ancora stretta in quella di Lupin. Ma, allora…



«Allora ero io. Quello che dovevano ammazzare, quello, ero io» soffia con appena un filo di voce.



A tentoni raggiunge una panca e vi si lascia scivolare malamente, ancora frastornato dall’ultima notizia, lo sguardo perso nei vetri decorati dietro l’altare.



«Ma chi diamine si prenderebbe la briga di seguirmi per farmi la pelle?» si chiede in un borbottio incredulo. È quella, tuttavia, una domanda abbastanza sciocca; gli è sufficiente farsi due conti per trovare almeno una decina di cattivi soggetti che trarrebbero grande sollievo e giovamento dalla vista del suo cadavere che va raffreddandosi. Non è che possa contare su di una folta schiera di sostenitori all’interno della criminalità parigina, ben inteso.



Una mezza risata agghiacciata scivola fra le sue labbra, causandogli un piccolo attacco di tosse nel momento in cui rammenta che, in effetti, l’unico suo sostenitore di quella risma al momento si trova all’Hôtel-Dieu, forse già bello che stecchito e pronto per l’obitorio, dopo aver avuto la sfortuna di essere nei diretti paraggi mentre attentavano alla sua vita.



«No, questo no; li ho praticamente minacciati. Si staranno dando da fare per trattenerlo da questa parte» ricorda, facendo una smorfia poiché spera di essere stato incisivo a sufficienza.



Sarebbe oltremodo seccante scoprire in ritardo di non esserlo stato abbastanza, e di dover tornare lì solo per prenderne atto. No, non seccante, sarebbe orribilmente disonorevole. Quanti anni può avere quel ragazzo? Ventidue? Forse venticinque? E, d’accordo, quella è il tipo di persona cui diverte enormemente mettersi nei guai un giorno sì e l’altro pure; ma lo fa per decisione personale. È differente. Sì, lo è; e, dannazione, quella gente non cercava Lupin, ci si è ritrovato in mezzo per puro caso. Si afferra la testa fra le mani. Viene colto da un istante di panico; trema, il respiro affrettato e la confusione nei suoi pensieri.



«E perché se ne va in giro disarmato? Non lo sa che c’è gente pericolosa in questa città?» sbotta allucinato.



Già: perché? La risposta è semplice e lo fa boccheggiare di smarrimento: perché Arsène Lupin non uccide.



«Certo, però in compenso può morire» ragiona con tetra amarezza. E chi è al corrente del fatto che a quest’ora quello sciocco ladro potrebbe essere già morto? Nessuno, perché la sua banda si sarà di certo dileguata nel nulla come al solito e gli uomini della Sûreté, poco ma sicuro, se la saranno lasciata sfuggire sotto il naso come perfetti imbecilli quali sono. E il personale dell’Hôtel-Dieu neppure sa chi sia il ragazzo che è stato portato da loro più morto che vivo direttamente dall’Ispettore Ganimard in piena notte. E allora chi lo sa? «Io. Lo so io» mormora, sollevando lo sguardo di nuovo alle fiammelle lì accanto. La luce che emanano è fioca e basta a malapena a rischiarare una minima parte dell’abside in cui sono poste, eppure in mezzo a quelle fiammelle ritrova una parvenza di speranza. Forse non ci ha impiegato troppo tempo per raggiungere il cocchio prima e l’ospedale dopo; forse non è troppa la quantità di sangue che ha perduto accanto al parapetto e poi lungo la strada; forse, dopo tutto, è stato abbastanza categorico e minaccioso da spronare a sufficienza quei fanfaroni dell’Hôtel-Dieu; forse il ragazzo è abbastanza sano e robusto da passare sopra al resto delle magagne e fregarsene di una fucilata; e forse… forse… Forse Ganimard dovrebbe semplicemente smetterla di accampare scuse insensate e offrire un piccolo contributo personale. Non è mai stato un granché come cristiano, scarsamente devoto e per lo più scettico, ma di certo l’occasione merita un poco del suo riguardo e impegno, pertanto, con qualche scricchiolio preoccupante delle sue povere e maltrattate giunture, si mette in ginocchio e, borbottando per almeno la metà del tempo, prega.



«Ehm… Salve, Signore. Non sono certo vi ricordiate di me; mi scuso, ché non abbiamo molte occasioni di sentirci. Ma siccome non sono io quello in ballo al momento, mi risparmio di ricordarvi certi particolari del sottoscritto per sollecitare invece la vostra attenzione su una faccenda grave accaduta proprio questa notte. Voi, forse, già conoscete i retroscena. Ecco, io al contrario li ho appena scoperti, e mi ci sento veramente da schifo, e… Voi, Signore, non è che potreste, diciamo, metterci una buona parola? Sì, lo so che è un ragazzaccio e anche uno scavezzacollo ma, vedete, non fa mica del male a nessuno e… e… Questa notte mi ha salvato, sapete? E non era per niente obbligato a farlo. Così… pensavo, se potete… Vorreste… Oh, magari, non so, metterci del vostro per tirarlo fuori dai guai, ecco».



Quando si rialza, con la schiena e le ginocchia a pezzi e il volto accaldato, è certo di non essersi mai sentito più in imbarazzo di così, neppure quando anni prima è finito a mollo nella Senna davanti a mezzo reggimento (lasciamo perdere). Ciò nonostante sente di aver fatto un passo nella direzione giusta. Il prossimo sarà quello di tornare all’Hôtel-Dieu e aspettare che lo avvertano di un qualunque cambiamento, sperando che non si tratti dell’annuncio di un decesso.

  
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