Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
giallo per presenza di tematiche delicate
Personaggi
capitolo:
Brent, Isaac, sergente Gamble, Sam
Capitolo
5
Nonostante
la confessione implicita
che Sam mi aveva fatto, tra di noi non era cambiato nulla.
Continuavamo ad ignorarci in pubblico, per poi finire ad esplorare la
nostra sessualità in completo silenzio e lontano da occhi
indiscreti. Sapevo che tutto questo era sbagliato. Era sbagliato che
lei non volesse fare coming
out
dichiarando il proprio orientamento sessuale; era sbagliato che io me
ne stessi zitto in silenzio, lasciandola fare e quasi approfittando
della situazione; era sbagliato che la nostra fosse solo una messa in
scena, una finta relazione segreta; era sbagliato che nessuno dei due
volesse parlarne con l'altro; ed era soprattutto sbagliato il
pensiero secondo cui, oggigiorno, una giovane ragazza non potesse
esprimere la propria sessualità senza il timore di venire
additata
dalla gente come un'eretica.
Era
nato tutto come un gioco, per me lei era un diversivo allo studio,
mentre io per lei non ero nient'altro che un escamotage per fingersi
etero, quando in realtà non lo era. Perché,
nonostante noi
cercassimo di staccarci dal gruppo la sera e di nascondere la nostra
tresca, le voci giravano veloci a scuola e tutti già
sapevano che
tra di noi vi era un rapporto piuttosto carnale.
Una
sera, però, esplosi e decisi di parlarne faccia a faccia con
lei.
-Sam,
forza, seguimi- dissi afferrandola per il braccio e trascinandola sul
retro del bungalow.
-Quanta
fretta che hai, Brent- mi disse masticando rumorosamente la gomma che
aveva in bocca -hai tutta questa voglia stasera?-.
Le
lanciai uno sguardo piuttosto truce, tanto da riuscire a zittirla in
un istante.
-Non
ce la faccio più ad andare avanti così- le dissi
facendola finire
spalle al muro e parandomi davanti a lei con le braccia conserte
-cosa sono esattamente per te?-.
Sam
dapprima spalancò gli occhi - sicuramente presa contropiede
- per
poi trattenere una risata alquanto divertita.
-Cielo,
Brent! Non ti facevo così sentimentale- disse sghignazzando
-non so
quale sia stato il tuo trauma infantile, ma, cavolo, se ti ha segnato
la cosa-.
Feci
per ribattere sciogliendo le braccia e aprendo la bocca, quando lei
si scaraventò sulle mie labbra iniziando a divorarle. La
allontanai
da me quasi con disprezzo, confuso dalla sua risposta -Sam,
è
proprio questo che non va-.
Questa
volta fu lei a tentennare nell'udire le mie parole.
-Perché
fai così? Perché tenti sempre di... eccitarmi,
quando sappiamo
benissimo che non è me che vuoi!- avevo finalmente trovato
il
coraggio di ribellarmi a quella malsana relazione -non sono scemo,
cosa credi. Ho visto benissimo come guardi Cassandra Blake-.
A
quel nome, Sam si inalberò e si fiondò su di me
coprendomi la bocca
e azzittendomi -ti prego, non così ad alta voce-.
Distolsi
la mano di Sam dalla mia bocca, fino ad osservarla e capire che avevo
perfettamente centrato il punto.
-Se
qualcuno dovesse scoprirlo...- i suoi occhi si annebbiarono e per un
istante non la riconobbi.
Sam
era sfrontata, disinvolta e disinibita. Il suo carattere forte non si
piegava neanche sotto lo sguardo più severo e non si faceva
mai
mettere i piedi in testa da nessuno. Ma era evidente che quel
discorso l'aveva scossa nel più profondo. La sua voce
tremava e con
essa anche le sue braccia.
Mi
avvicinai meglio a lei fino a racchiudere le sue piccole mani nelle
mie -ti hanno fatto del male?-.
Lei
mi guardò con i suoi occhi profondi -chi?-.
Alzai
le spalle -non lo so, qualcuno, magari!-.
-No,
non ha niente a che fare con questa scuola, non così
direttamente
per lo meno- mi disse scostando lo sguardo e riprendendo fiato -mio
padre è un predicatore di Dio. Credo di non dover aggiungere
altro-.
Alzò
gli occhi al cielo, facendoli roteare in maniera piuttosto scocciata.
In
quel momento mi sentì uno stronzo, ma non riuscì
a trattenere una
risata malvagia -lesbica figlia di un reverendo?-.
Lei
mi tirò un pugno piuttosto potente al petto, facendomi per
un
istante mancare il fiato. Mi piegai in due per il dolore. Con la coda
dell'occhio notai che Sam stava cercando di divincolarsi dalla mia
presa, perciò l'allentai senza però concederle la
libertà.
-Frena,
frena- dissi riprendendo il controllo del mio corpo, per poi
fronteggiarla ancora una volta -mi dispiace, non era mia intenzione
essere così stronzo-.
Lei
scostò il capo di lato e cercò di nascondere una
piccola lacrima
che, gelida e solitaria, cercava di scendere sul suo volto. Fu allora
che mi sentì scosso nell'anima e capì che lei non
era fatta di
ferro, non era immune alle mie parole. Avevo trovato il suo punto
debole e non era certo da me approfittarne in quel modo.
-Sam-
sussurrai cercando di attirare la sua attenzione -ti prego,
guardami-.
Le
poggiai una mano sotto il mento, costringendola a voltarsi verso di
me e guardarmi dritto negli occhi.
-Il
tuo segreto è al sicuro con me- le dissi facendomi una croce
sul
cuore -ti prometto che non dirò nulla a nessuno-.
Lei
rimase per un attimo a fissarmi. Il suo sguardo magnetico
trapassò
le mie pupille, come a volere entrare dentro di me fino a leggermi
nell'anima. Trattenni il fiato, come se stessi attendendo la mia ora.
Lei
aprì la bocca e finalmente mi confidò tutto -a me
piacciono le
ragazze e non i ragazzi. Ma mio padre è un uomo di fede e di
vecchia
veduta, non accetterebbe mai una figlia lesbica in casa. Sarebbe come
tradire la sua fiducia-.
-Così,
però, tradisci te stessa ed i tuoi sentimenti- dissi di
getto.
-Come
se già non lo sapessi- sbuffò divertita -non
dovrei mentire al mio
cuore e dovrei essere più sincera con i miei genitori,
meglio?-.
Scoppiai
a ridere e feci spallucce -non lo so, meglio?-.
Lei
si unì alle mie risate ritrovando il buonumore -ecco,
è proprio per
questo che ho scelto te, Brent. Sei l'unico ragazzo della scuola che
non mi ha mai trattata diversamente dalle altre. Non sei uno sporco
maschilista e, se non fosse stato per me, non ti saresti mai infilato
sotto i miei vestiti-.
-E'
un onore essere scelto da una lesbica per assecondare i suoi istinti
sessuali, mentre, scopandomi, pensa ad un'altra donna. Questo
è
esattamente ciò a cui ho sempre aspirato!- non era da me
uscirmene
con frasi tanto sarcastiche, ma non riuscì a trattenermi e,
per una
volta dopo tanto tempo, mi sentì finalmente me stesso.
Lei
mi diede una spallata amichevole e disse -che sfortuna venir sbattuto
da una delle ragazze più sexy dell'accademia, eh?-.
Istigatrice,
fu tutto ciò che mi venne in mente in quel momento.
Però non aveva
certo tutti i torti, il sesso con lei era perfetto e non potevo certo
lamentarmene.
Non
potevo non notare, però, che ogni volta che lo facevamo, lei
teneva
regolarmente lo sguardo fisso al soffitto.
D'altra
parte era solo sesso. Lo sapevo io e lo sapeva benissimo anche lei.
I
mesi a seguire furono tra i migliori della mia vita.
Io
e Sam avevamo instaurato una relazione veramente unica. Certo, era
tutto basato su una menzogna e ne ero consapevole però, in
un certo
senso, vi era un legame vero e proprio che ci univa. Io ero diventato
il suo confidente e cavaliere dall'armatura scintillante, e lei era
il famoso diversivo di cui avevo tanto bisogno.
Le
lezioni private con il sergente Gamble stavano portando i loro frutti
e, per la prima volta da quando avevo abbracciato l'adolescenza,
stavo rigando dritto. Insomma, avevo una finta fidanzata etero, che
in realtà era lesbica, che mi regalava indimenticabili
nottate di
fuoco, un professore che buttava anima e corpo sul mio apprendimento
ed un padre amorevole su cui contare, che si faceva sentire con una
certa costanza.
Eppure,
sentivo che mi mancava ancora qualcosa. Per quanto Sam si fosse
rivelata fantastica con me, per me non era abbastanza. Mi mancava
l'amore e, perché no, mi mancava il romanticismo.
Sono
un uomo, non dovrei dedicarmi a tutte queste smancerie - Sam mi aveva
rimproverato già abbastanza su questo - ma fa parte del mio
essere e
non riesco a farne a meno.
Lo
stare insieme a Sam aveva portato i suoi frutti. Prima di tutto, gli
altri ragazzi della scuola avevano smesso di additarmi come uno
sfigato. Perché, siamo sinceri, a scuola non ero certo il
più
popolare. Mi avevano allontano dai corsi, venivo seguito privatamente
dal sergente in persona, neanche fossi figlio suo, e, fino ad allora,
nessuno mi aveva mai visto in gentil compagnia. Almeno
finché non
era comparsa Sam nella mia vita.
Consapevole
che la mia fama era solo l'ombra di ciò che in
realtà ero,
trascorsi gli ultimi mesi nella popolarità. Finalmente tutti
mi
salutavano per i corridoi. Molti ragazzi mi davano il cinque anche
senza conoscermi. Più tardi scoprì che Sam aveva
alimentato la mia
fama, facendo circolare certe voci piccanti sul mio conto, su quanto
fossi ben messo e sulle mie capacità sotto le lenzuola. In
quel
momento, tutto di me urlava sesso. La mia nuova pettinatura, tipica
alla militare, rasata ai lati con una bella cresta di pochi
centimetri che si reggeva fiera sul mio capo; il mio nuovo fisico,
scolpito dai duri allenamenti programmati con il sergente; la mia
pelle, finalmente non più color latte, ma fortemente
abbronzata; la
mia altezza, che nell'arco di un anno aveva raggiunto il metro e
novanta. Insomma, mesi intensi dedicati al mio corpo, alla mia mente
e alla mia carriera.
Conclusi
l'ultimo semestre ottenendo i punteggi più alti del mio
corso.
Gamble era molto orgoglioso di me. Un anno ancora e sarei potuto
entrare nell'esercito. E lui non era il solo. Mio padre non aveva
potuto assistere alla consegna dei diplomi, ma mi aveva chiamato la
sera stessa piangendo al telefono dalla gioia. Un atteggiamento che
mi aveva colpito parecchio, poiché non tipico di lui.
E
con il concludersi dell'anno accademico, finalmente si aprì
l'estate
e la possibilità di tornare a casa per ben due mesi e mezzo.
Avrei
potuto rivedere mio padre, svagarmi un po', andare al mare e magari
mangiare un po' di quel fish
and chips
cucinato dalla bancarella ambulante presente in fondo alla nostra
strada, che tanto mi piaceva.
Feci
i bagagli, salutai Sam in maniera plateale con tanto di bacio davanti
a tutti, genitori compresi, e presi il primo treno per tornare a
casa.
Ci
vollero circa cinque ore di viaggio ed uno scalo a Birmingham, prima
di poter rincasare. Alla stazione non venne a prendermi nessuno, ma
già ne ero al corrente. Perciò, raccolsi il mio
borsone, me lo
caricai in spalla e mi incamminai verso casa. Per fortuna dovetti
camminare solo per una quindicina di minuti e, visto le ore trascorse
seduto in treno, non mi diede poi così noia potermi
sgranchire le
gambe.
Avevo
già in mente il programma della serata: cena con mio padre,
probabilmente meno imbarazzante del solito, visione di un bel film
d'azione, trasmesso rigorosamente in seconda serata, ed una bella
dormita nel mio letto, il tutto non prima delle due di notte.
Nel
passeggiare verso casa, dopo aver attraversato tutta Western Way,
presi un paio di svincoli fino a raggiungere il Quay. Le mie gambe si
fecero d'un tratto molli e con la mente iniziai a divagare nei
lontani ricordi che avevo di quel posto. Ed ecco che, come per magia,
mi si parò davanti una figura alta e snella, dai lunghi
capelli neri
e lisci. La guardai meglio, mi dava le spalle. I miei occhi si
riempirono di speranza e le mie gambe iniziarono a camminare da sole.
Quando mi avvicinai a lei, misi una mano sulla sua spalla,
costringendola a voltarsi verso di me. Seguì la delusione di
aver
solo incontrato una ragazza che le assomigliava tanto, ma che,
purtroppo, non era Yoshiko. Lei mi guardò stranita, mi
scusai e
tirai dritto imbarazzato come non mai.
Mi
diedi un colpetto alla tempia e feci retromarcia verso casa
maledicendomi.
Com'era
possibile che, a distanza di tutti quegli anni, la mia mente ancora
mi giocasse quegli scherzi? Mi venne istintivo specchiarmi nella
vetrina di un negozio a lato della strada, per domandarmi cosa
avrebbe pensato lei di me. Poi scossi il capo e procedetti dritto
lungo la via. Stavo con Sam, o almeno così facevamo credere.
Ero un
ragazzo diverso rispetto a quello di pochi anni prima. Non ero sicuro
che sarei ugualmente piaciuto a Yoshiko in queste vesti.
Mi
diedi del patetico, perché, per quanto mi sforzassi di
apparire
risoluto e forte, in realtà ero solo un debole ancorato ad
un
vecchio ricordo amoroso. Anzi, con il tempo mi accorsi che stavo
idealizzando la figura di Yoshiko più del previsto. Non
l'amavo
veramente, ma amavo l'idea che mi ero fatto di lei. Ed era
impossibile non pensare a lei come un metro di paragone.
Sarà stato
per quel motivo che mi ritrovavo ad avere una finta relazione con una
ragazza omosessuale.
Mentre
il flusso dei miei pensieri non mi dava tregua, tanto da provocarmi
un simpatico mal di testa, raggiunsi casa. Non ebbi neanche modo di
cercare le chiavi, perché, stranamente, la porta d'ingresso
era già
aperta.
Entrai
guardando subito l'orologio: erano solo le due del pomeriggio. Eppure
mio padre sarebbe dovuto essere a lavoro.
Un
signore dalla salute cagionevole si avvicinò all'ingresso,
pregandomi di chiudere subito la porta per evitare correnti d'aria.
Il
mio sguardo rimase fisso su quella figura che mi si parava davanti.
Non avevo mai visto mio padre così stanco, così
spossato e
insofferente. Non è mai stato un uomo dalla folta chioma, ma
la sua
testa ora era coperta solamente da una fine peluria ramata. Gli
occhiali mascheravano il suo sguardo affaticato, ma lasciavano
ugualmente intravedere due occhiaie marcate che gli contrassegnavano
il volto. Alto, giusto qualche centimetro in meno a me, ma smunto e
sciupato nell'aspetto, avvolto in un pigiama di almeno due taglie
più
grandi. A completare il suo aspetto vi era il colore della sua pelle,
bianco, pallido e a tratti violaceo. Sembrava un fantasma.
Avevo
già avuto qualche sospetto l'anno prima, durante l'estate
trascorsa
insieme al mare, ma non avevo mai avuto il coraggio di approfondire
l'argomento con lui. Tutto andava per il meglio finalmente,
perciò
la mia mente in quell'anno scolastico si era rifiutata di voler
pensare al peggio. Purtroppo però, la tua situazione era
più
critica del previsto e un dolore lancinante stava per imbattersi
nella mia vita.
-Papà...-
sussurrai con un filo di voce.
-Figliolo,
ben tornato a casa- mi disse avvicinandosi a me e abbracciandomi
calorosamente.
Lo
scostai forse con troppa irruenza, notando subito che il suo mancato
equilibrio lo stava facendo cadere a terra. Allungai un braccio e
afferrai la sua maglia, aiutandolo a rimanere in piedi.
-Scusa-
dissi di getto spaventandomi per l'accaduto -io non volevo-.
Mi
sorrise e non disse nulla.
Mi
accompagnò in cucina ma, prima di raggiungere la stanza, mi
soffermai in salone dove avvistai una scena dell'orrore. La sala era
stata adibita a camera ospedaliera. Vi era un grande lettino di
quelli elettrici che hanno la funzione di alzare ed abbassare sia lo
schienale che il poggiapiedi. Insieme ad esso vi erano tanti altri
strani macchinari, uno più rumoroso dell'altro. Potevo
distinguere
il trespolo della flebo, il respiratore artificiale, siringhe
sigillate e sterilizzate in apposite confezioni sul tavolo, insieme
ad una combinazione di farmaci e ad un apparecchio in grado di
registrare il battito cardiaco. Nonostante mio padre fosse un medico,
non mi ero mai interessato a nulla di tutto ciò.
La
domanda più spontanea sarebbe stata
“papà, cos'hai?” ed invece
riuscì solo a chiedergli -quanto ti resta?-.
I
suoi occhi si fecero lucidi, ma trattenne comunque le lacrime -un
mese, forse due-.
Avrei
potuto abbracciarlo, baciarlo, fargli sentire il mio calore ed il mio
affetto. Ed invece strinsi il pugno talmente forte da farmi male ed
uscì rapido dalla stanza fino ad oltrepassare la porticina
sul
retro. La mia testa si mosse veloce a destra e sinistra, lo sguardo
impazzì e gli occhi rotearono furiosi alla ricerca di un
qualsiasi
oggetto da distruggere.
Quel
pomeriggio sfasciai gran parte dell'arredo esterno che avevamo.
Quando rincasai, circa mezz'ora più tardi, mio padre non
osò
chiedermi nulla.
Mi
aspettavo una cena di rientro silenziosa, ma mai come quella.
Più il
tintinnio delle posate si faceva assordante, più la mia
rabbia
ribolliva dentro di me.
-Perché?-
domandai furioso guardandolo dritto negli occhi.
Vidi
il suo sguardo triste e sconfortato, e capì che si sentiva
in colpa.
-Vedi,
Brent. Avrei voluto dirtelo prima, ma ho sempre sperato di riuscire
ad uscire da questo tunnel da solo- mi disse appoggiando le posate
sul piatto -circa tre anni fa ho scoperto di soffrire di una forma
piuttosto comune di leucemia. Ho fatto della radioterapia e della
chemioterapia. Ma le mie difese immunitarie sono calate drasticamente
e il mio lavoro in ospedale non è stato d'aiuto-.
Con
l'avanzare del suo racconto, mi accorsi di star piangendo come un
bambino. Mi guardai le mani tremanti, per poi concentrarmi di nuovo
su di lui che, in silenzio, tentennava sul da farsi.
-Perché?-
domandai nuovamente -perché non me lo hai voluto dire! Non
sono più
un bambino. Io... avrei potuto esserti vicino, piuttosto che sprecare
il mio tempo a scuola-.
-Non
sarebbe cambiato nulla, figliolo- mi disse portandosi una mano sulla
fronte -avresti solo perso tempo prezioso, badando a me-.
-Tu
non sei e non sarai mai tempo perso per me- dissi esternando forse
per la prima i miei sentimenti per lui.
Entrambi
ci ritrovammo nel silenzio più totale.
-Ed
ora?- domandai verso di lui senza alcuna speranza.
-Ed
ora godiamoci la splendida estate che ci aspetta, figliolo- mi
rispose sorridendo.
***
Non
so dirvi quanto quel mese significò per me. Vorrei
raccontarvi che
tutto andò per il meglio, che i medici trovarono una cura
miracolosa
e che guarì come d'incanto. Purtroppo non andò
così. Nulla di
tutto ciò andò per il verso giusto.
Morì esattamente 37 giorni
dopo.
Ma
di lui conservo ancora un ricordo estremamente bello, perché
in quel
mese, consci della precarietà della situazione, ci godemmo
ogni
istante della reciproca compagnia.
Purtroppo
mio padre in quel mese ebbe alti e bassi. La cosa migliore da fare,
probabilmente, sarebbe stata quella di farlo ricoverare in ospedale,
magari sedarlo con un po' di morfina, giusto per attenuare il dolore
cronico. Lui, però, non volle ed io non contestai la sua
scelta.
Sapete
quando si dice che i medici sono i peggiori pazienti al mondo?
Santissime parole! Non era stato molto diligente in quel periodo, lo
devo ammettere, ma per lo meno aveva conservato la lucidità
fino
all'ultimo, il che mi permise di averlo per me e di poter godere
della sua presenza fino all'ultimo. Impossibile dire che in un mese
recuperammo il rapporto degli ultimi anni, ma - lo ammetto –
scoprì
in lui non tanto un padre amorevole - quello già lo sapevo -
ma un
amico con cui aprirmi.
***
-E
così, figliolo, sei cresciuto- disse una sera allungando gli
occhi
maliziosi e ridacchiando tra un colpo di tosse e l'altro.
-Papà,
che schifo, no!- gli dissi sicuro di non voler affrontare
quell'argomento con lui.
-Beh,
hai sedici anni, non ci trovo nulla di male- mi disse appoggiando il
capo sul cuscino vaporoso del suo letto.
Lo
guardai con la coda nell'occhio, in parte tentato all'idea di poter
parlare con qualcuno di Samantha, in parte restio a farlo. Era pur
sempre mio padre!
Fu
lui allora a cogliermi completamente impreparato -io ho perso la
verginità a 14 anni-.
La
birra che stavo sorseggiando mi andò di traverso. Mi tirai
un paio
di colpi al petto cercando di riprendere il controllo sul mio corpo.
Gli occhi balzarono fuori dalle orbite e non riuscì a non
trattenere
una risata divertita -papà!- dissi ancora una volta.
-Figliolo,
è fisiologico, che vuoi che ti dica!- rispose lui
riprendendo fiato.
Ogni
parola per lui era una fitta incredibile. Annaspava come poteva,
l'aria pareva non essere mai abbastanza.
Ero
seriamente intenzionato a dirottare l'argomento, magari parlando del
tempo o di sport, ma poi mi voltai incuriosito verso di lui e mi
venne spontaneo chiedergli -seriamente 14 anni?-.
Mio
padre scoppiò nuovamente a ridere, probabilmente
perché era già
convinto che avrei abbassato l'ascia di guerra, o forse solo colto
alla sprovvista -cosa vuoi che ti dica, Brent, ero un ragazzino
precoce- mi rispose ilare.
***
Ricordo
benissimo che in quel momento la mia mente divagò ancora una
volta,
fino a ripercorrere i miei tormentati quattordici anni. Tormentati,
si fa per dire. In realtà, fu un periodo grandioso per me,
perché
conobbi Yoshiko. Mi capita spesso di ritornare indietro a quel giorno
e ritrovarmi a pensare che forse, se non l'avessi mai conosciuta, non
mi sentirei così bloccato con le altre ragazze. È
come se il mio
cuore fosse stato rapito da lei e non riuscissi ad andare oltre.
***
-E
di questa Sam, che cosa mi dici?- mi domandò mio padre
riportandomi
al presente.
-Samantha?-
domandai posizionandomi meglio sulla sedia posta accanto al letto di
mio padre.
La
mia reazione fece intendere a mio padre che ero sì disposto
ad
intraprendere questo arduo argomento con lui ma che, allo stesso
tempo, non mi sentivo molto a mio agio in quei panni.
-Samantha
è lesbica, papà- fu tutto ciò che
riuscì a dire.
Lui
mi guardò confuso per poi abbozzare un sorriso -hai perso la
verginità con una ragazza lesbica?-.
Girai
subito il capo verso di lui per poi lanciargli un cuscino in faccia
-ma smettila!-.
Lui
ridacchiò divertito ancora una volta, lanciando a sua volta
il
cuscino sul fondo del letto -suvvia, Brent, non te la prendere con il
tuo vecchio e malatticio padre. Piuttosto racconta, sono davvero
curioso-.
Lo
osservai di sbieco intuendo il suo forte sarcasmo. Per una volta lo
guardai dritto nei suoi occhi scuri, per poi riflettermi in lui
trovando grandi somiglianze.
-Non
sapevo fosse...- non ero mai stato molto bravo con le parole e anche
in quell'occasione andai nel panico. Non volevo risultare omofobo,
non lo ero affatto. Ma al contempo ero poco informato su quale fosse
il termine più corretto per indicare la sua scelta sessuale,
senza
risultare un fanatico religioso che inforcava un'arma contro gli
omosessuali. Insomma, mi soffermai per un istante ed esitai nella
scelta del termine.
Per
fortuna, mio padre mi venne incontro -... lesbica?-.
Lo
guardai confuso -sì, ecco, io non so bene come chiamarla-.
Mio
padre appoggiò una mano sulla mia spalla e mi sorrise
-chiamala
semplicemente Samantha-.
Mi
misi una mano sul volto e imprecai contro me stesso sottovoce.
-Che
altro mi sai dire su di lei?- mi domandò.
-Beh,
Samantha è di Oxford e ha esattamente tre giorni
più di me- risposi
sorridendo al suo ricordo -è una delle migliori allieve a
scuola,
una patita delle armi e ha una mira eccezionale-.
-Straordinario.
Una ragazza brava a sparare!- rispose mio padre quasi sarcastico.
Finsi
di non notare il suo tono ilare e proseguì a parlare di lei
-è
molto bella, nonostante non voglia che glielo si dica. Le piace il
rugby, il canottaggio e la granita all'arancia-.
Mio
padre annuì con il volto -e a letto?-.
Questa
volta, la birra, al posto di andarmi di traverso, schizzò
fuori
dalla mia bocca fino ad inondare il suo viso.
-Papà,
cazzo!- urlai rivolto tra un misto di risate e imprecazioni.
-Che
diavolo di farmaci ti stanno dando per renderti così...- non
mi
venne subito il termine.
-Disinibito?-
rispose lui alzando una scatoletta azzurrina dal suo comodino -in
ogni caso ti conviene approfittarne ora del tuo vecchio, mio caro
Brent, perché un domani non potrai più godere di
queste mie perle
di saggezza-.
Alzai
lo sguardo e lo fissai inebetito per un istante.
***
Seppur
io non abbia mai avuto modo di aprirmi molto con mio padre, dovete
sapere che quei rari e trascorsi momenti di trasparenza tra di noi,
erano comunque tenuti a bada da un comportamento molto riservato da
parte sua.
Perciò
non ero abituato a sentirlo parlare così liberamente, senza
alcun
filtro.
In
quel mese e mezzo trascorso a stretto contatto con lui, conobbi mio
padre nel più profondo dell'anima. Fu un rapporto esclusivo
il
nostro.
Purtroppo
non durò molto e, come mi abituai alla sua costante
presenza,
dovetti abituarmi anche alla sua improvvisa scomparsa.
E
lo devo ammettere, da allora niente fu più lo stesso.
Dovetti
imparare a vivere senza di lui.
Vi
assicuro che sopravvivere ad un genitore alla sola età di 17
anni è
dura, perché non si hanno ancora le basi per poter
affrontare di
petto la vita come viene nonostante, al contrario, agli occhi dello
stato tu sia già un uomo completo, quasi maggiorenne ed
indipendente.
Perciò
venni colto da una solitudine incolmabile e venni lasciato solo da
tutti e da tutto, ad affrontare una vita che agli occhi di un
adolescente appare insormontabile.
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