La
tigre bianca peluche non entrava sull'elicottero fermo sul tetto
della Luthor Corp, e l'uomo, con il logo dell'azienda sul taschino
della giacca, dovette chiedere aiuto a un collega per piegarla e
farla distendere sui sedili. Indigo era rimasta indietro: mentre Lena
non guardava, Lex la prese per mano per fermarla.
«Chiamami»,
le sorrise e le passò il suo biglietto da visita, rimettendo
le mani
nelle tasche dei pantaloni. «Per qualsiasi cosa.
Verrò a prenderti.
Sai, lo pensavo davvero quando ho detto che avrei odiato quando te ne
saresti andata».
Davanti
all'elicottero, Lena la chiamò e Indigo strinse il
biglietto,
nascondendolo in tasca e sorridendo anche lei. Non gli disse nulla e
raggiunse la ragazza, così il velivolo prese quota.
Kara
se n'era andata prima per accompagnare la sua amica Megan al funerale
della nonna di quest'ultima e loro due decisero di tornare a National
City e lasciare a Lex la decisione sull'andare a processo. Lena aveva
salvato i dati rubati alla Lord Technologies che Indigo aveva
raccolto dai server personali del fratello, ma non era sicura che
avrebbe dovuto ma, soprattutto, voluto usarli. Se Lex non voleva
andare a processo, in che modo lo avrebbe costretto a farlo
denunciandolo di furto e ricatto? L'idea iniziale prevedeva la
minaccia ma non aveva sortito grande effetto; ogni volta che doveva
scontrarsi con lui non trovava modo per attaccarlo. Era testardo e, a
quel punto, l'unica cosa da fare era confidare che quella Lane lo
convincesse. Se ci fosse stato un altro modo per fermare Maxwell Lord
senza violare o raggirare la legge, Lena ci avrebbe provato.
Lanciò
un'occhiata a Indigo intenta ad accarezzare quella tigre, vicino al
lemure che le aveva regalato Kara, cercando di distrarsi dal balzo
che l'elicottero aveva appena fatto, reggendosi e irrigidendo il suo
corpo dalla paura. Era stato un gesto carino da parte di Kara
lasciarle quel peluche: forse aveva sperato di colpirla nel punto
giusto riguardo al loro piano nei suoi confronti, e rimediare di
certo alla sfuriata avuta per la storia delle pillole. Le
fissò il
volto serio incredibilmente sereno, date le circostanze: aveva
confessato di lavorare ancora per il garante, ma non era certa che le
avesse detto tutto ciò che sapeva sul suo conto. L'aveva
lasciata
andare, le aveva dato le sue foto per costringerla a lavorare, o
così
le aveva detto, e poi? Che altro? Il magazzino o garage dove diceva
di essere stata prigioniera le prime volte non esisteva, aveva
cambiato versione, diceva di essere stata in una casa. Una casa
vuota. Lena sapeva che mentire è facile se non si punta
troppo in
alto, ma se ci si costruisce una storia molto vicina alla
verità.
Che Indigo fosse stata davvero in una casa? E se non fosse stata
vuota? Se ricordava dov'era e non voleva dirglielo per non doverci
andare? Voleva proteggere lei o il garante? Aveva davvero una cotta
per lei, altrimenti a cosa sarebbero servite quelle foto? Lena
strinse le labbra e continuò a osservare quello sguardo che,
come il
suo, era perso nei pensieri. Le sorrise quando l'altra posò
gli
occhi azzurri su di lei, cogliendola in flagrante. La vide
riabbassarli e dopo trafficare col cellulare. Oh, ma certo, anche lei
doveva darci un'occhiata. Aprì la sua borsa e prese quel
vecchio
modello di telefono che aveva inviato Alex Danvers alla Luthor Corp
di Metropolis per farglielo avere, tenendolo nascosto. Accedette alla
cartella degli sms, cominciando dal primo tra quelli che ancora non
erano letti.
A.
Danvers:
Kara mi ha detto che vorresti davvero cancellare quei dati sui
Luthor. Anzi, mi ha detto che non capisce se vuoi cancellarli o no.
Ha usato il cellulare di Mega
A.
Danvers:
Megan, dicevo. Dunque non preoccuparti. Mi ha detto che è
d'accordo
con quest'idea e che per poco non si faceva scoprire, parlandone a
voce con te con i
A.
Danvers:
cellulari in bella vista. Da sorella, posso capire ciò che
vuoi fare
per la tua famiglia e per tua madre, Lena. Ne ho letto un po' insieme
a Maggie, per ora lo
A.
Danvers:
teniamo per noi, e abbiamo capito perché vorresti cancellare
tutto.
E non odio Lillian, ho accettato che sia parte della mia famiglia. Ma
da agente non posso
A.
Danvers:
lasciarvelo fare, spero tu possa capire. Lillian ha sbagliato,
è
complice di crimini più o meno gravi. E verrebbe sporcata la
memoria
di tuo padre. Ma se tutto
A.
Danvers:
quello che c'è su questi dati è vero, come Indigo
dice, allora
la
verità salirà a galla e non potrò fare
niente per impedirlo.
Ognuno si prenderà le proprie
A.
Danvers:
responsabilità. Staremo vicino a Lillian perché
è cambiata e sono
certa che avrà il miglior avvocato. Mi dispiace, Lena. Non
avrei
voluto che le cose andassero
A.
Danvers:
così ma devi capire la mia posizione! Affronteremo tutto
insieme,
come una vera famiglia. Te lo prometto. Odio scrivere su questi
dannati tastierini minuscoli e
Lena
sospirò, alzando il mento e socchiudendo gli occhi. Si
aspettava
proprio questo da parte di Alex. Né più
né meno. Quando ha
lasciato che Kara le inviasse una copia di quei dati, era una cosa
già fatta. Eppure non poteva non pensare a Rhea Gand, dietro
le
sbarre della sua cella, che sogghignava soddisfatta di essere almeno
riuscita nell'intento di rovinare la sua famiglia.
A.
Danvers:
odio il conteggio caratteri degli sms. Spero che Indigo ne valga
davvero la pena, perché se non fosse così e mi ha
fatto spendere
uno stipendio in sms per
A.
Danvers:
niente, uno stipendio in sms per NIENTE, la strozzo.
«Tutto
bene?».
Lena
sorrise amaramente. «Sì… Sì,
riflettevo», tirò in basso il
cellulare dentro la borsa.
A.
Danvers:
Ok, non uno stipendio, ma è comunque più di
quello che avrei speso
a 15 anni con le amiche del cuore. Ed è abbastanza.
Lena
abbozzò un sorriso.
A.
Danvers:
E se pensi che Indigo non ne valga più la pena, posso
prelevarla io
e farle sputare la verità. Conosco 100 e 1 modi, alcuni dei
quali
tanto creativi, per farlo.
Lena
contrasse le sopracciglia, continuando a leggere.
A.
Danvers:
Di' a Kara di rispondere al cellulare, per favore. Sì che
Indigo può
spiarla, ma non le interesseranno i codici di Pizza
Hit!
Sono arrivati a me per email.
A.
Danvers:
Di' a Kara che la sta cercando Eliza! Se non la trova,
continuerà a
chiamare me sperando che io con una bacchetta magica la possa far
parlare con Kara da qui.
A.
Danvers:
Glielo hai detto? Questi stupidi sms mi stanno facendo uscire pazza,
ti scrivo su WhatsApp.
A.
Danvers:
Ho cercato di inviarti uno screen dei messaggi di Eliza, ma
è lento
e non ce la fa. Stupida connessione. Il mondo mi sta prendendo in
giro? :(
A.
Danvers:
Ho usato una faccina, vero? Il mondo sta per finire.
Lena
cercò di trattenere una risata, con una mano sulla bocca.
L'ultimo
sms glielo aveva inviato poco prima e allora si fece più
seria,
aprendolo.
A.
Danvers:
Sono qui con Maggie, lei esce tra poco. Ho provato a dirlo a Kara, ma
ancora ignora i messaggi.
Astra
Inze. La bocca di Lena si irrigidì. Lei stava uscendo da
Fort Rozz
in quell'istante e forse era un bene che Kara avesse altro per la
testa. Come avrebbero fatto con lei? Cosa sarebbe cambiato per loro?
D'altro
canto, Astra ci rimase davvero male quando per lei si aprì
il
cancello del carcere e sua nipote non c'era. Una parte di lei aveva
accettato quella possibilità, ma non le fece meno male. Dru
Zod la
aspettava per abbracciarla e non riuscì a trattenere gli
occhi
lucidi, stringendosi a lui come a un'ancora. Il tempo di sbattere le
palpebre pesanti di lacrime che, dietro all'uomo, Alexandra Danvers e
una ragazza che non conosceva erano appoggiate contro un'automobile a
lato della strada, guardando in loro direzione. Astra sorrise e
richiuse gli occhi, decidendo di non dare alla loro presenza
più
peso del dovuto: lei era una donna libera, adesso. «Grazie,
Dru».
Lui
le batté altre due pacche sulle spalle e insieme si
incamminarono
verso la strada dov'era parcheggiata la macchina del Generale.
Sarebbe stata da lui qualche giorno, il tempo di trovare una
sistemazione e ricostruirsi una vita.
«Dov'è
Kara?», non riuscì a trattenersi appena passarono
davanti alle due
ragazze.
«Non
qui», rispose aspramente Alex. La studiò da capo a
piedi, mettendo
dritta la schiena.
«Oh,
e sei venuta tu a darmi il bentornato
nel
mondo reale?
Non dovevi disturbarti», le sorrise, prendendo tempo per
asciugarsi
gli occhi con un fazzolettino di carta. «Mi hanno parlato di
te,
sono contenta di conoscerti. Non sei mai venuta a trovarmi, ma
scommetto che lo avresti voluto. Posso dire che il tuo capo
è venuto
spesso, al contrario», proseguì con un sospiro,
ammirando il sole
abbagliante e caldo come non lo ricordava.
«Abbiamo… Abbiamo una
persona che amiamo in comune, quindi spero che potremo andare
d'accordo». Le tese la mano destra e l'altra ragazza con lei
la
squadrò, e dopo Zod alle sue spalle.
Alex
deglutì e gliela strinse, sfidandola con gli occhi.
«Si vedrà»,
tentò anche lei un sorriso, rigido.
Si
lasciarono e Zod sorrise, mettendo le mani nelle tasche dei
pantaloni. «Un giorno capirai, Alex Danvers, che non siamo
vostri
nemici. Vogliamo il bene per National City esattamente come voi del
D.A.O.. Maggie lo sa», le lanciò uno sguardo,
facendo un passo
verso la portiera della sua auto.
«Oh,
aspetta! Lei è Maggie? Mi ha parlato di te»,
sorrise anche lei e,
mentre la ragazza le stringeva la mano, Alex al suo fianco si
innervosiva, sperando non lo desse troppo a vedere. «Sono
molto
felice di conoscerti. Sei il futuro del distretto, da quanto ne so.
Beh, ci rivedremo lì, allora».
Li
tennero sott'occhio fino a quando non si allontanarono sulla berlina,
contenendo i malumori. Li videro perfino salutare con una mano
attraverso il finestrino, maledizione, come se si prendessero gioco
di loro.
«Non
dirlo», Maggie l'anticipò, chiudendo gli occhi.
«Cosa?
Non devo dire che stanno gongolando alle nostre spalle?»,
strinse un
pugno, iniziando a gesticolare. «Che ci stanno prendendo per
il
culo? O non devo parlare del Maggie
lo sa?
Che diavolo vuol dire, a proposito?», si strinse nelle
spalle,
«Oppure non devo far notare quanto quella donna sia sicura di
riprendere il suo ruolo nel distretto di National City? Non basta
Zod, Charlie Kes-
Kwez-»,
fece una smorfia con le labbra, irritata.
«Kweskill».
Alex
le puntò l'indice. «E chissà quanti
altri, lei?! Quel distretto
sta diventando il covo dell'organizzazione».
«E
cosa dovrei fare?», scrollò le spalle.
«Pensaci, Alex: cosa dovrei
fare? Non vado più al lavoro? E col mio secondo lavoro come
la
metto? La presenza di Astra Inze al distretto non cambierà
assolutamente niente», alzò le sopracciglia,
portando la testa da
un lato, amareggiata. «Esattamente come non ha cambiato
niente
venire qui adesso», andò ad aprire la portiera.
«Niente?»,
la raggiunse, «Sa che le stiamo addosso».
Entrarono
in auto e Maggie si portò le mani sul viso. «Lo sa
già», soffiò
dopo, rassegnata. «Zod lo sa già, Alex».
Lei
la fissò per un momento e ansimò. La rabbia
accumulata fino a poco
prima scomparve, piegando le sopracciglia con rammarico. «Oh,
tesoro… Cos'è successo?».
Lei
si appoggiò al sedile con stanchezza. «Devo ancora
scriverlo
sull'ultimo rapporto, ma… Ma non è cambiato
niente, in fondo… Sa
che sto lavorando per voi e lo ha sempre saputo, non gli importa! Ho
solo avuto conferma. Lui è comunque convinto che io sia
dalla sua».
Alex
la vide mettere un'espressione triste e non capì come
avrebbe dovuto
interpretarla. Riuscì a prenderle una mano con le sue e a
sorriderle
dolcemente. «Ed è questo che dovevamo ottenere,
no?». Era quello
il suo momento? Voleva così disperatamente che Maggie
lasciasse
l'incarico che ora, potendo cogliere un'occasione, non riusciva.
Forse doveva solo mettere da parte le sue paranoie e farle sentire la
sua vicinanza e la sua fiducia, come le aveva detto John. Alex
ansimò
di nuovo, scrutando il suo volto tormentato. Magari era per questo
motivo che aveva deciso di escluderla, perché non le dava il
suo
appoggio. «Ti senti in pericolo con loro? Al
distretto?». Doveva
essere sollevata di vederla scuotere la testa, ma il sorriso che
accompagnava il gesto le metteva inquietudine, come se fosse una
domanda quasi ridicola. In fondo perché avrebbe potuto
essere in
pericolo? Il cadavere di Faora Hui era ancora caldo.
«Me
lo ha detto Charlie», sorrise di nuovo e finalmente la
guardò negli
occhi. «Dice che potrebbe mancare poco alla mia
iniziazione».
«Anche
se lavori a un'indagine contro di loro?».
«Non
gli importa. Te l'ho detto». Lasciò le sue mani e
si avvicinò
svelta per rubarle un bacio, mettendo in moto l'auto.
Erano
così sicuri di loro?
Il
volto di Charlie Kweskill era di certo così sicuro. Le
raccontava
del suo ultimo appuntamento andato in bianco con una schiettezza
disarmante, come se si conoscessero da sempre, tanto da farla
sentire… in colpa. E allora lui doveva averlo avvertito,
ovviamente. «Lo hai detto al D.A.O. che ci vogliamo bene? Che
siamo
amici?», aveva riso, perfino arrossito, bevendo poi dalla sua
borraccia. «Ancora poco e ci siamo, Mags. Il Generale dice
che
apriremo le iniziazioni per la fine dell'estate. Ci sarà una
cerimonia».
«Iniziazioni?»,
il suo sguardo si era adombrato e lo stomaco aveva preso a farle
male. Non sarebbe stata l'unica? Lo aveva visto mettersi a ridere.
«Sì!
Altri stanno aspettando, come te. In parte… sai
chi?», le aveva
puntato un dito, «I nuovi al distretto. Abbiamo bisogno di
omega
dopo la faccenda con Gand, quindi... Oh, omega,
cioè soldati», le aveva spiegato brevemente,
«Una specie.
All'iniziazione lo saprai. Beh, comunque tu sei sei diversa…
voglio
dire, per via del D.A.O., gli altri al confronto sono solo…
nuovi
del campo, gente che vuole fare di più».
«È
questo che credete di fare? Di
più?».
Lui
aveva annuito, entusiasta. «Ti mostrerò, a tempo
debito».
Alex
si passò una mano sulla fronte, esasperata. «Lo
sai che… puoi
contare su di me, vero?».
Maggie
portò la testa da un lato. «Sempre»,
rispose. Sempre,
ripeté nella testa. Ci credeva. Ma con quale faccia avrebbe
rivelato
alla donna distrutta per non aver salvato Faora Hui di aver pensato
di mollare l'indagine che avrebbe portato i suoi assassini a Fort
Rozz? Di averlo pensato perché voleva bene a quelle persone?
Guidò
l'automobile lontano dal marciapiede e non riprese l'argomento.
Tigre
bianca tra le braccia e lemure attorno al collo, Indigo
seguì Lena
dietro la porta della biblioteca in villa. Avevano visto la macchina
di Eliza parcheggiata in garage e, prima di entrare, la ragazza le
aveva raccomandato di non farsi fregare sulla sua identità.
Credevano che le donne fossero a casa Danvers-Luthor, non se le
aspettavano in villa. Appena le vide, Eliza corse ad abbracciare una
e l'altra, chiedendo loro dove fosse Kara. Lena trattenne un sorriso
e le ricordò che era andata con l'amica Megan al suo
paesino;
naturalmente Alex glielo aveva detto, ma sembrava avere la memoria
corta.
La
donna sospirò seccata. «Peccato, dovevo proprio
parlarle di una
certa cosa…». Il suo sguardo si smarrì
e poi riguardò entrambe:
«Che bei peluche! E quanto è grande quella
tigre». Sorrise nel
vedere la ragazza portarsela meglio contro il petto. «Allora,
considerato che siete qui-».
«Non
ho trovato l'ombrellone da giardino, mia cara», la voce di
Lillian,
appena rientrata da fuori, la interruppe. «Ero sicura che ce
ne
fosse uno di riserva. Vorrà dire che ci fermeremo a
comperarne uno
nuovo». Non le notò, trascinando uno scatolone
all'interno del
salotto.
Eliza
le disse che andava bene e si voltò di nuovo verso le due.
«Dicevo,
considerando che siete qui almeno voi», si strinse le mani,
sospirando, «vorrei chiedervi se poteste almeno concederci
una
cena».
«Credevo
le volessi con noi dei giorni, mia cara». Lillian le
passò alle
spalle con in braccio lo scatolone, salutandole con fretta per
passare alla porta alle loro spalle e arrivare al garage.
Eliza
fece una smorfia. «Sì, mi sarebbe piaciuto,
ovviamente, ma so che
avete i vostri impegni e così… Cara, quello
è pesante», allungò
le mani verso di lei e sentirono Lillian emettere un cenno di
disapprovazione.
«Sono
invitata anch'io?», Indigo guardò Lena al suo
fianco e di nuovo la
donna che, insieme a un gran sorriso, si permise di avvicinarle una
mano per toglierle un ciuffo biondo appiccicato a un ciglio.
«Ma
certo», intonò gioviale, stringendosi di nuovo le
mani. «E lo
chiedi pure? Non ti lasceremo mica sola».
Lillian
passò alle loro spalle in quel momento, rientrando.
«Preciso che
l'idea è di Eliza e che, se fosse stato per me, non nascondo
che
lasciarti sola e fuori di qui sarebbe stata una
possibilità». I
loro sguardi si incrociarono e a Indigo, per lo sforzo, le
scivolarono gli occhiali dal naso: Eliza glieli sistemò
subito.
Lillian non doveva aver preso bene quella chiacchierata nel cuore
della notte.
«Va…
bene. Ne parlerò con Kara appena è di
ritorno», esclamò Lena,
annuendo con un sorriso. «Sono certa che dopo gli esami che
dovrò
sostenere e la partita…».
«Sì,
certo».
«Saremmo
felici di stare con voi qualche giorno», concluse.
Eliza
sorrise di nuovo e per poco non la videro dondolare sui talloni dalla
contentezza. «Parli proprio come parte di una
coppia».
Lena
arrossì e abbassò lo sguardo, mentre Indigo
alzava gli occhi al
soffitto, ed entrambe si allontanarono per salire di sopra.
«Tesoro».
Poco dopo sentirono Eliza gridare. «Ero sicura fossero in un
armadio, ma devo essermi sbagliata; hai per caso visto dove ho messo
l'acqua aromatizzata?».
Lena
spalancò gli occhi e Indigo la vide sbiancare, infilandosi
velocemente dietro una porta prima che la donna potesse notarla,
ancora troppo vicina.
E
così, gli ultimi giorni di giugno trascorrevano in fretta e
la festa
a casa di Maxwell Lord per l'accordo delle pillole con il generale
Lane si avvicinava. Lex non aveva ancora deciso cosa fare, ma
sapevano che si stava tenendo in stretto contatto con Lucy Lane che
aggiornava costantemente Kara che, da parte sua, aggiornava Lena che
le dava l'impressione di essere sempre più infastidita. Non
era
certa che il fratello avrebbe seguito la ragione quanto invece lo era
Kara, che era certa anche di un'altra cosa: di tutta quella
situazione, non era esattamente quello
a dare fastidio alla sua ragazza. Intanto, come avevano stabilito,
Kara decise di tornare a vivere al campus con Megan; un modo per
riappropriarsi di una parte della sua vita. E di certo all'amica una
mano faceva comodo ora che avevano scelto di accogliere una
coinquilina.
Megan
tranquillizzò sua madre al telefono confermando di poterla
tenere
con loro e la fecero entrare all'interno di un borsone per
accompagnarla dentro. Aspettarono il turno di un custode in
particolare e si avvicinarono con un borsone a testa, salutandolo e
augurandogli buon lavoro. Ormai erano certe che la cosa si sarebbe
conclusa lì, liscia come l'olio, ma perché doveva
andar bene quando
poteva andar male?
«Stupida
legge
di Murphy»,
bofonchiò Megan a denti stretti ed entrambe si voltarono,
sorridendo
al custode e rispondendo alla sua domanda: «Era il funerale
di mia
nonna».
«Mi
dispiace… Oh, ma sembra pesante. Lasci che la
aiuti», lui scattò
in avanti e le ragazze si tirarono indietro all'unisono, scuotendo la
testa.
«Ehi!»,
Kara frappose una mano tra loro e lui. «Sta cercando di
insinuare
che, come donne, abbiamo bisogno dell'aiuto di un uomo?».
«No».
«Sì».
«No,
è che-».
«Ha
mai sentito parlare di emancipazione?».
«Ma
io non- Ma- Ma
si muove?!».
«Sono
giocattoli a carica», rispose prontamente Megan.
«…
Li aveva al funerale?».
«I
giocattoli a carica della nonna di Megan. Vuole cercare di offendere
anche la sua memoria, adesso?».
«No».
«Io
mi sento offesa», ribatté Megan vedendo l'altra
annuire. Adocchiò
attraverso la cerniera aperta: Nana era tranquilla, ma se avesse
spinto per tirare fuori la testa arruffata proprio adesso…
Potevano
cavarsela con i giocattoli a carica
a forma di cane
della nonna? Si sforzò per non mollare la presa e, come
avesse
potuto farlo apposta per metterle in difficoltà,
abbaiò. Megan e
Kara si ghiacciarono. Abbaiò. Aveva visto una mosca? Non
abbaiava
mai e aveva scelto proprio… Scattante, Kara si
lasciò andare a uno
starnuto. E a un altro. Un altro, girandosi per scambiare uno sguardo
disperato con l'amica alle spalle.
«Era
un cane?».
«Scusi?
Mi sta dando del cane?». Kara starnutì di nuovo,
tentando con ogni
mezzo di renderlo simile al verso della cagnolina.
«Dev'essere
l'allergia! Ci offende come donne, la nonna di Megan morta e ora
sentenzia sui miei starnuti. Si vergogni».
«È
fortunato se non faremo reclamo in direzione»,
spuntò sdegnata
anche Megan. «Andiamo, Kara». Entrambe se ne
andarono, tenendolo
d'occhio da lontano fino a sparire dietro gli alberi del parco e
così
iniziare goffamente a correre. Kara inciampò e il borsone le
finì
sul sedere; rimessa in piedi, la raggiunse.
«Nana,
monella». Erano appena entrate nell'edificio quando Megan la
sgridò,
infilando la testa verso la borsa: quando una ragazza del dormitorio
che passava per uscire la guardò, lei parlò
ancora a bassa voce,
fingendo di farlo con Kara e voltandosi. Lei toglieva la posta dalla
cassetta. «Andiamo, comincia a essere pesante e non vorrei
abbaiasse
di nuovo e farci scoprire… non già oggi; non ho
nulla per
corrompere qualcuno. Non so ancora come abbiamo fatto a
scamparla».
«Ha
una cotta per te».
«Cosa?».
Kara
emise un brusio a bocca chiusa, controllando la posta.
«È per
questo che non dice mai niente: tu pensavi fosse un po' toccato, ma
ha solo una cotta per te». La consueta lettera da parte di
sua zia
non c'era, ora che era uscita di prigione, ma ce n'era una da parte
di Mike e una busta di un bianco candido che prese la sua attenzione.
Il suo nome era stato scritto con una calligrafia a mano particolare,
molto elegante. Voltandola, trovò il logo impresso della
Lord
Technologies. La aprì subito, scoprendo un biglietto morbido
al
tatto, anche quello bianco e con studiati decori celesti ai lati.
«Mi
ha invitato ufficialmente», soffiò e Megan
allungò lo sguardo.
«Oh!
Io non ci sarò? E dire che lo avevo perfino shippato con
Alex».
Avrebbe scrollato le spalle se non fosse stato per il borsone
pesante. «Sai cosa penso? Che dovresti chiedergli i danni
morali,
con quello che stai passando a causa di quelle pillole».
«Lui
non ha colpe. O così mi ha detto»,
gonfiò le guance e il suo
sguardo si posò in basso.
Megan
la seguì.
Nana
le guardò, naso bagnato all'insù per odorare.
«Nan-»,
Megan le spinse la testa dentro con delicatezza, prendendosi una
leccata, e Kara si piazzò davanti per coprirla.
Lena
continuò a studiare sodo. Passato un esame ne diede un
altro, non
fermandosi. Durante quei giorni camminava per casa parlando da sola
per memorizzare meglio il tutto, facendosi domande a cui rispondeva
poco dopo e chiedendo al lettore in salotto di riprodurle delle
tracce caricate appositamente.
«Musica.
CD E, traccia uno».
Indigo
era in sala da pranzo per non disturbarla, iniziando una nuova pista
a un videogioco. Si era scoperta molto brava ai videogiochi da quando
Winslow gliene fece provare uno online al lavoro. Se non altro, tutto
quel vincere riusciva a distrarla abbastanza: il suo angelo custode
le aveva inviato vari messaggi da quando gli disse di aver confessato
a Lena di lavorare ancora per lui e aveva provato a chiamarla tre
volte. Lo ignorava e sapeva di non doverlo fare, rischiava grosso. In
più, la sua preoccupazione aumentò quando non
vide arrivare Noah
verso le prime ore del mattino: niente più foto inquietanti?
Aveva
deciso di metterle paura e apprensione in altro modo? Avrebbe
scommesso che fosse troppo occupato per incaricare Noah se non
spendesse tutto quel tempo per cercare di parlare con lei di persona.
Forse, e deglutì, anche lui aveva deciso di cambiare piano
quando si
era messa a farlo lei. Distratta, arrivò seconda e si
trattenne
dallo sbattere il joypad sul pavimento, sentendo il campanello della
villa suonare. Che lui avesse inviato Ferdinand? Il cuore
accelerò i
battiti, preoccupata. Si affacciò al salone ma
tirò un sospiro di
sollievo vedendo entrare Alex Danvers. Lei e Lena si guardavano
appena negli occhi e Indigo si morse un labbro. Quanto di vero c'era
in quella discussione che avevano avuto al telefono per la
cancellazione dei dati? Alex Danvers sembrava davvero nervosa e- oh,
guardò in sua direzione e allora si nascose.
«Indigo»,
Lena la raggiunse. «Alex ed io dobbiamo parlare, saliamo di
sopra.
Va bene?».
Lei
scrollò le spalle, scivolando con le calze ai piedi fino al
joypad.
«Non mi occorre nulla, vai pure. Sono al boss e devo
concentrarmi».
Lena
adocchiò la televisione e di nuovo lei, sorridendo
mestamente prima
di andarsene.
Le
sentì sulle scale e lasciò il gioco in pausa,
prendendo il
cellulare. Loro l'avevano scoperta, ne era ormai sicura, ma questo
era avvenuto prima o dopo la cancellazione dei dati? Lei e la sorella
Danvers erano davvero ai ferri corti?
«Dovevate
dirmelo! Ma cosa vi è saltato in testa?», Alex
strinse le labbra,
fissando Lena che si rintanava vicino alla porta del bagno. Il
cellulare di quest'ultima era poggiato sul comodino e Indigo, se in
quel momento le stava spiando come credevano, poteva sorprendersi
della performance attoriale di Alex, al limitare della videocamera.
«Kara mi ha detto che non lo sapeva. È
così?».
«Sì.
Sì, non lo sapeva. È stata una mia
idea».
Alex
si passò una mano sulla fronte, prendendo fiato.
«Sei la sua
ragazza e la stai trascinando in questa storia! Deve proteggerti come
io adesso devo proteggere voi con il mio capo, è assurdo.
Capisci
quanto lo sia?».
«L'ho
fatto per la mia famiglia. Tu non hai idea di-», Lena
deglutì e lo
sguardo di Alex si fece più intenso, «di cosa
significhi essere una
Luthor».
Lena
aveva gli occhi lucidi e puntò lo sguardo altrove,
notò Alex. Lo
fece nonostante la videocamera non la potesse riprendere. Non
fingeva? Allora aveva ragione Kara? Avrebbe seriamente cancellato
quei dati per loro. «Allora spiegami. I Luthor sono anche la
mia
famiglia, adesso», borbottò.
Lena
temporeggiò. «Non è… Non
è affatto lo stesso e tu lo sai»,
formò un breve sorriso, freddo. «Se dovessi
scoprire domani che la
tua nonna materna ha rapinato una banca, come ti sentiresti? Se
scoprissi che tuo padre ti ha nascosto di essere corrotto e che
lavora nell'organizzazione? Tua madre ha sposato la mia, ma non ha
sposato i Luthor. Loro restano un mio problema, non tuo. Le colpe di
mio padre sono la mia eredità, non tua. Non di
Kara», annuì
convinta, «Né di Eliza. Mia», si rimise
dritta con la schiena,
fissandola negli occhi mentre Alex restò in silenzio, a
bocca
aperta. «Capisci?». Si guardarono e l'altra
finì per sospirare
debolmente.
Alex
scese le scale poco dopo e Indigo riprese a giocare, cercando di
battere il boss prima che Lena venisse a vedere. La loro discussione
sembrava vera ma, che lo fosse o meno, Lena stava proseguendo la
strada battuta fino a quel momento come previsto. Se non altro, ora
aveva qualcosa da riferire al suo angelo custode per evitare che la
facesse uccidere. Le serviva e, fino a quando era così,
poteva stare
tranquilla.
Da
X a Me
Liet*
di risentirti, non mi piace essere ignorat*. Grazie per
l'aggiornamento. Mi pare di essere sempre stat* gentile con te,
Indigo, ma la mia pazienza non è infinita e ringrazia che
sono una
persona impegnata: sparisci di nuovo e invierò Carol invece
di Noah.
Non accetterò altri passi falsi da parte tua, è
un avvertimento.
Lei
deglutì, spegnendo il monitor. Le era appena arrivato anche
un
messaggio da parte di Winslow che le chiedeva a quale livello era
arrivata, ma in quel momento non le interessava rispondere. Si
affacciò verso il salone, osservando Alex e Lena, ad almeno
un metro
e mezzo di distanza, che camminavano verso il portone.
Lo
sguardo di Alex si posò sulla posta lasciata su un mobiletto
all'ingresso, spostando due carte per osservare la busta bianca
già
aperta con su scritto il nome Lena
Luthor
con una calligrafia particolare. «È arrivata anche
a te».
«Questa
mattina».
Alex
si voltò. «La mia è un po'
diversa», azzardò un cenno con il
movimento del capo, «Un invito a me e a… alla mia
collega bionda
con gli occhiali. Non conosce il suo nome. Gli avevo detto che Indigo
lavorava in segreteria, non sa altro».
«Linda.
Useremo questo, si sta abituando anche con le nostre madri»,
precisò
Lena, ma il suo sguardo si fece più serio di colpo.
«Perché l'ha
invitata? L'ha vista una volta sola».
Alex
scrollò le spalle, rassegnata. «Maxwell Lord vuole
pubblico, in
realtà non mi sorprende affatto. Ha invitato anche una mia
collega,
mi ha fatto sapere che le è arrivato in un…
messaggio», per poco
non si confondeva con gli sms e Lena le lanciò un'occhiata.
«Beh,
diglielo. Dovremo inventare una storia e che sia credibile».
«E
funzionerà?», domandò, arcuando un
sopracciglio. «L'ha vista una
volta di sfuggita, ma se si fermerà a parlare con
lei… Indigo è
brava, in realtà, nelle discussioni, ma-».
«Oh,
lo sappiamo», aggiunse velocemente Alex.
«Ma
è sempre un rischio. Confidiamo nel fatto che, essendoci
molte
persone, le probabilità che parli proprio con lei sono
ridotte?».
«Dovesse
succedere, accorreremo in suo aiuto», finì,
annuendo. La guardò
un'ultima volta e aprì il portone per uscire. Si fece vedere
da lei
mentre prendeva da un taschino il piccolo cellulare vecchio modello,
iniziando a digitare. Poi salì in auto mentre il cancello si
apriva.
A.
Danvers:
Mi piacerebbe parlare con te senza il tuo telefono a riprendere, un
giorno di questi.
Lena
prese fiato, poi chiuse la porta. Determinata, non avrebbe lasciato
che quel pensiero e quella faccenda rovinassero i suoi buoni
propositi di finire con gli esami da sostenere: riprese subito a
studiare.
Tra
le prime cose che fece Kara, invece, fu andare a parlare con Cat
Grant come le aveva suggerito Leslie Willis. Si presentò
lì
prestissimo e seguì la donna da quando uscì
dall'ascensore, ma lei
non la degnò di sguardo come di parola, entrando nel suo
ufficio e
chiudendole la porta sul naso. Leslie Willis rise e Kara
sbuffò,
fregandosi il viso. Per prima cosa iniziò a bussare
nonostante la
segretaria le avesse caldamente consigliato di non farlo. E
bussò
più volte. Si fermò a uno sguardo concitato della
segretaria che, a
ogni colpo della mano sulla porta, muoveva la testa un po'
più in là
per scuoterla. Per seconda cosa, allora, pensò bene di
telefonarle
nell'ufficio proprio attraverso la segretaria. Non rispose. Come
terza cosa convinse la donna ad annunciarla ma, appena davanti alla
porta, lei si tirò indietro e tornò a sedere,
impaurita. «Potrei
aprire la porta e… A-A quel punto sarebbe costretta
a-».
«Sbatterti
fuori».
«Ascoltarmi».
«Non
ci credi nemmeno tu, cucciolo».
Leslie
Willis non la stava aiutando per niente. «Beh»,
iniziò a camminare
intorno alla scrivania della segretaria, tirando in su gli occhiali
dal naso. «Qua-Quanto pensi possa arrabbiarsi, se lo
faccio?».
Leslie
tolse la penna dalla bocca, pensandoci. «Intendi in una scala
da
esci
fuori da qui di corsa
a non
mettere mai più piede alla CatCo?
Mmh, fammici pensare».
Kara
gonfiò le guance e si arrese, sedendo di peso su una sedia.
Accidenti. Lo sapeva, lo sapeva qual era il problema: Cat Grant aveva
creduto in lei e per ripagarla di quella fiducia era uscita quella
storia sulle pillole. E la signora Grant sapeva che era vera
poiché
era in gamba e non credeva alle voci di corridoio. Si chiese come le
fosse arrivata, ma aveva davvero importanza, allora? Però
non se ne
sarebbe andata: era lì per parlare con lei e chiarirsi e
costi quel
che costi- La porta si aprì. Cat Grant la fissò
con severità e le
fece cenno di accomodarsi; Kara sbiancò.
«Su,
muoviti. Veloce».
Kara
deglutì, si allisciò i capelli sul capo fino allo
chignon, sistemò
gli occhiali e deglutì ancora, che non era abbastanza. Ora
sì che
la colazione le stava ballando in pancia: perché aveva
cercato con
ogni mezzo di farsi ricevere e non credeva, a quel punto, che il
momento sarebbe arrivato così in fretta. Stava per
rilassarsi e non
aveva più le parole. La segretaria le mostrò il
pollice all'insù,
Leslie Willis alzò la penna mangiucchiata per aria e lei si
sentì
un guerriero giunto al fronte, chiudendo la porta alle sue spalle.
«Signora Grant, oh
la ringrazio, la ringrazio per avermi ricevuta»,
camminò rapida
fino alla scrivania, gesticolando. La vide sedersi e forse non la
stava guardando, no, non la stava guardando, si era messa a
controllare il perché la sua sedia si era bloccata o cosa
stava
schiacciando, non lo sapeva, ma sperava almeno che la stesse
ascoltando dietro quell'aria altezzosa cui niente sembrava scalfire.
«Non sa quanto io sia felice di-di sapere che non abbia
proprio
scelto di ignorarmi, perché mi dispiace, mi dispiace e devo
assolutamente spiegarle la situazione! Io…», si
fermò intanto che
lei si sedeva di nuovo, dopo aver trovato una moneta sul tappeto.
Kara deglutì. Spiegarle…?
«Io… sono colpevole», la notò
lanciarle un'occhiata, finalmente.
«Ho assunto quelle pillole e mi piacerebbe dire che mi hanno
ingannata o… Ma niente del genere. L'ho fatto e»,
raggrinzì le
sopracciglia e la scrutò odorando la moneta e contrarre il
viso
schifato, per poi tenerla con le punte di due dita e schiaffarla
dentro un cassetto, «non ho scuse al riguardo. Ho commesso un
errore, un grave errore, e mi prendo la totale
responsabilità di
que… quell'errore. E mi ha licenziata, quindi…
forse dovrei»,
stralunò gli occhi, «a-accettarlo
perché è la giusta conseguenza,
e lo accetto, o meglio no, non lo accetto, ma lo capisco, ecco,
volevo dire che lo capisco. Lo capisco, signora Grant»,
annuì. La
donna si appoggiò sullo schienale della sedia e alla fine la
inquadrò, restando immobile e in silenzio. Tanto silenzio.
Così
tanto che Kara pensò che sarebbe svenuta dall'ansia. Aveva
senso ciò
che aveva detto? Sperava di far partire una discussione e-
«Hai
finito?», si passò due dita sul mento.
«Sei venuta fin qui solo
per dirmi che capisci perché ti abbia licenziata? Mi
aspettavo una
qualche scusa patetica come no,
signora Grant, c'è stato un malinteso,
o al limite che ti saresti prostrata ai miei piedi per chiedermi una
seconda occasione, che avresti fatto qualsiasi cosa e allora io avrei
accettato con riserva a patto che avresti fatto da babysitter a mio
figlio novenne con la passione di smontarmi l'ufficio,
perché la
scuola è chiusa e perché la terapista
dell'istituto ha pensato bene
di dire davanti
a lui
che passare più tempo con me avrebbe fatto bene a entrambi,
e ora
non vuole più andare al campo estivo, sconvolgendo i miei
piani e…
il mio ufficio», sospirò, fissando un portapenne.
Kara
non capì cosa ci fosse di sbagliato, fino a quando non la
vide
dividere le matite dalle penne. «Vuole… Vuole che
faccia da
babysitter a suo figlio?», tentennò.
«Certo
che no, Keira. Dovessi chiedere a ogni persona che lavora per me di
guardare il bambino dovrei rivedere le buste paga. Che comunque mi
stresserebbe meno del dover passare ore»,
la fulminò, «al telefono con i responsabili del
reparto finanziario
che mi chiedono di spiegare loro come
mai una
ragazza che fa uso di droghe fa un tirocinio come reporter da
noi»,
la vide deglutire e, sospirando, Cat Grant si appoggiò alla
scrivania, giocando con gli occhiali da vista. «Mi hai messo
in una
bella situazione, Keira. Parlavo con loro e il bambino mi smontava
l'ufficio, ma non è per quello che ti ho fatto venire
qui».
«Fa-Fatto
venire qui?», indicò alle sue spalle e dopo lei,
socchiudendo le
labbra.
Cat
Grant si alzò e fece il giro, appoggiandosi alla scrivania
sventolando gli occhiali in mano e sorreggendo un gomito su un
fianco. «Tu ci tieni a questo lavoro, Keira? Sì o
no, non ho tempo
da perdere».
«Sì!
Sì, sì, ci tengo, signora Grant»,
strinse i denti. Stava per
aggiungere un ma
ma i suoi sensi di ragno, o meglio ancora la colazione che girava
vorticosamente in pancia, le suggerirono di tenerlo per sé.
«C'è
una cosa che i miei dipendenti dovrebbero sempre tenere a mente per
avere un futuro roseo alla CatCo e con me», la
fissò, «Dirmi.
Sempre. Tutto.
Voglio sapere se fai tardi la sera, voglio sapere cosa mangi per
pranzo e per cena, voglio sapere con chi vai a letto… e
qui ci sarà da fare una piccola parentesi, a proposito»,
la indicò con gli occhiali in mano. «Voglio sapere
se hai allergie,
se hai passato il morbillo e la varicella, se al liceo hai pestato il
piede al compagno sbagliato. Voglio sapere se sei Marvel
o Dc,
se preferisci dolce o salato, alba o tramonto, Jess o Logan. Voglio
sapere quali persone di spicco conosci e, soprattutto,
voglio sapere se hai mai fatto uso
di droghe».
Kara
ingurgitò rumorosamente, stringendo le labbra.
«Sì… ha-ha
ragione, signora Grant-».
«Ah-ah!
Non interrompermi, Keira, so di aver ragione, grazie per la tua
opinione non richiesta». Si allontanò dalla
scrivania con un colpo
di fianco e si rimise gli occhiali, pensando di andarsi a riempire un
bicchiere dall'altro lato dell'ufficio. «La trasparenza
è un
elemento fondamentale. Non vuoi dirmi qualcosa? Sei fuori, tanti cari
saluti e chiudi bene la porta. Ma se vuoi restare», la
guardò negli
occhi, accompagnandola con lei a sedere sul divanetto,
«pretendo di
sapere tutto, ogni particolare della tua piatta vita prima che
qualcuno là fuori me lo venga a dire e io debba tenere lunghe
discussioni al telefono con il reparto finanziario mentre mio figlio,
qui da solo, distrugge l'ufficio».
Kara
provò un brivido e iniziò a sudare freddo,
annuendo lentamente.
«Non
sei un cavallo: puoi dirmi a voce di aver capito?».
«S-Sì»,
arrossì dall'imbarazzo, «Signora Grant. Ho capito.
Quindi… mi
riprende a lavorare per lei…?».
«No»,
bevve un sorso, «Non ci penso neanche. Fino a quando questa
storia
non si sgonfierà, Keira, non ho intenzione di prendermi
questa
responsabilità». Finì il contenuto del
bicchiere e lo tenne vuoto
in mano, incrociando le braccia sul petto. «Sarebbe cattiva
pubblicità. Devo pensare prima di tutto al mio
nome», la indicò
con un cenno, «Ma tu puoi, frattanto, impegnarti
affinché il
tuo
venga ripulito. So perché hai preso quelle pillole, conosco
tutta la
faccenda e non spetta a me giudicare, questo è un aspetto
che
riguarda solo te. Ma se vuoi essere Supergirl,
allora dovrai fare meglio di così».
Quando
uscì dall'ufficio si sentì svuotata di un peso
non indifferente,
anche se le gambe erano ancora pesanti dall'agitazione provata. Cat
Grant era capace di metterle paura allo stato puro e, allo stesso
tempo, di guarirla. Era una strana combinazione.
«Dunque
ti permetterà di tornare quando le acque si saranno
calmate?»,
le domandò Lena al cellulare e Kara si morse un labbro,
attraversando la strada a fianco di altri pedoni.
«Mmh…
Mi ha chiesto di tornare quando sarò pronta per fare domanda
di
assunzione».
«Beh,
ma è ottimo».
«…
se ci sarà posto».
«Ouch…
Ti assumerà, Kara. Se così non fosse non avrebbe
perso tutto questo
tempo con te».
Non
che avesse torto, in fondo lo pensava anche lei. Si prendeva
così
tanta cura di ogni suo aspirante reporter? Era stata così
anche con
Leslie Willis all'inizio della sua carriera? E con Siobhan Smythe? A
volte le passava per la testa che la donna fosse così
attenta nei
suoi riguardi per quello che era successo ai suoi genitori, per
l'organizzazione o perché non voleva lasciarsi scappare
l'occasione
di avere qualche esclusiva. Allora perché dirle di fare
esperienza e
ricordarle che dovrà presentarle un articolo soddisfacente
per avere
il lavoro? Il tirocinio era ufficialmente finito, o passava la
domanda di accesso o non la passava. «E c'è
un'altra cosa, Lena»,
si fece più seria, guardando distrattamente le vetrine
illuminate
dal sole. «Le pillole non sono l'unica cosa che è
arrivata alle sue
orecchie. Per ora dice che non ci sono prove ma solo voci: noi.
Qualcuno deve averci visto o riconosciuto… e-e
com'è arrivata
alla signora Grant… Dobbiamo essere più
prudenti».
Lei
sospirò. «Ce
la siamo presa alla leggera, non giriamoci intorno…
Sì, dobbiamo
esserlo».
Lena
tornò a studiare e Kara ricominciò a leggere i
messaggi arrivati al
suo telefono. Doveva farlo per affrontare quella storia e lasciarsela
un giorno alle spalle, anche immaginando che Indigo potesse leggerli
e diffonderli al suo garante, chiunque fosse. Probabilmente, a lui
interessava comunque più Lena e i Luthor, rispetto a lei. Ne
aveva
molti anche da parte di Alex…
Sia
lì che sui social erano ancora in tanti a chiederle delle
pillole e
perché lo avesse fatto, temendo che la signora Grant avesse
ragione
a tenerla distante. Dopotutto, non era nemmeno ancora riuscita a
riconquistare le sue compagne di squadra. Ex
compagne di squadra: ora non aveva più una squadra.
A
ogni istante libero lasciava le coccole alla cagnolina Nana e si
piazzava davanti alla porta dell'ufficio di George Millard. Megan
ogni tanto riusciva a farle compagnia; era quasi diventata una
manifestazione di resistenza.
Il
giorno tanto atteso infine arrivò e la squadra
cercò di
visualizzare la vittoria della finale senza di lei sul campo. Senza
di loro, veramente: dare dell'idiota al proprio coach a quanto
sembrava non era considerato goliardata pre partita. Ma Megan lo
domandò lo stesso, per esserne sicura.
«La
prego, non mi faccia giocare, va bene, non entrerò in campo,
ma non
mi cacci», Kara puntò i piedi, impedendogli di
passare verso lo
spogliatoio.
«Può
stare con me in panchina», pretese Megan a fianco.
«Farà bene alla
squadra saperci entrambe lì a dare consigli! Per
favore».
Lui
le fissò con aria palesemente annoiata, ma doveva sapere che
non se
ne sarebbe liberato. «E va bene», roteò
gli occhi e brontolò del
loro sospirato entusiasmo. «Ma non giocherete e
tu
sei ancora fuori dalla squadra, signorina», le
puntò sul viso un
indice cicciotto particolarmente rosa, per poi passarle avanti con
una spinta e aprire la porta.
Appena
entrarono, Kara sentì una ventata d'aria gelida che le
avvolse le
ossa del corpo in un secondo: tutte si girarono a guardarle con
espressione sconfortante o tra le più arrabbiate. Il coach
batté le
mani provando a spronarle e continuarono a cambiarsi, ma la solita
euforia sembrava oramai un ricordo.
Millard
scrollò le spalle abbozzando una risata, riguardando verso
le due.
«Ho cambiato idea, Danvers: riconquistale e giocherai la
prossima
stagione. Hai un'opportunità, sei contenta?» .
Si
allontanò dando uno sguardo a una cartella in mano e Kara,
volto
smarrito, provò ad annuire, inumidendosi le labbra.
«Pezzo
di merda…», bisbigliò Megan accanto a
lei. «Vuole divertirsi
alle tue spalle».
«Ce
la posso fare».
«Che?»,
Megan diede un'occhiata alle ragazze, una delle quali
picchiò
l'armadietto con forza apposta per attirare l'attenzione, e dopo lei,
che pareva più pallida del normale. «Ammiro la tua
ritrovata
speranza, ragazza, ma qui ci serve più un
miracolo». Cominciarono a
camminare e la numero quattro andò loro addosso di
proposito,
spingendo Kara con una spallata e chiedendo fintamente scusa. Si
fermarono a guardarla e, mentre l'amica gonfiava le guance dal
fastidio, lei si limitò a uno sguardo truce. «Ci
parlerò io».
«Adesso
pensiamo alla partita», si tolse gli occhiali, fregandosi gli
occhi.
«John verrà a vederci… mh-
vederle?».
«Spero
di sì… Non mi ha risposto. Forse non poteva.
Richiamerà o lo
rivedremo direttamente dopo».
Si
scambiarono uno sguardo e, prendendo fiato, cercarono di parlare con
le ragazze sulla strategia da adottare solo per sentirsi rispondere
che avevano già una strategia che oggi non le avrebbe
incluse.
Nessuna era pronta ad ascoltare Kara sui consigli che era solita dare
loro a ogni partita e il coach Millard, in fondo allo spogliatoio,
ogni tanto pareva ridacchiare. Sarebbe stato un lavoro lungo e
difficile e forse quell'oggi non sarebbe riuscita a risolvere
né a
cercare di spiegarsi con loro, ma era davvero sicura di farcela
perché, semplicemente, non si sarebbe arresa al contrario.
Lei e
Megan si andarono a sedere in panchina con le riserve e
tentò, per
tutto il corso della partita, di mettere da parte il pensiero che ce
l'avessero con lei e gridare in supporto e dare talvolta suggerimenti
utili. Quella partita era importante per tutte e sperava che
avrebbero messo da parte anche loro ciò che provavano per
provare a
vincere. Ma forse si sbagliava:
«Smettila»,
mormorò la riserva al suo fianco destro, seduta in panchina.
«Stai
zitta, non ti vogliono sentire! Rischi che facciano il contrario e
perderemmo per colpa tua. Siamo già sotto».
Kara
stava per aprire bocca che Megan, al fianco sinistro, la interruppe:
«Zitta tu. Se perdiamo sarà solo colpa loro che
non sono capaci di
scindere e mettere da parte l'orgoglio. Siete arrabbiate? Chi se ne
frega».
Intanto,
sugli spalti, sia Alex che Lena erano preoccupate per l'atteggiamento
che sembravano tenere verso Kara. Non potevano sentirle ma, da come
si comportavano, era evidente che non l'ascoltassero. Separate da
Indigo che beveva un succo di frutta, non parlavano spesso tra loro,
continuando la loro farsa.
Ma
quella situazione e la partita non era la sola cosa a dare a Megan da
pensare: John non appariva da nessuna parte e non le aveva scritto
né
telefonato. Non era da lui, non dopo aver parlato a Marsington al
funerale della nonna. Non si sarebbe mai perso una loro partita e di
certo non la finale. Tuttavia, se di John Jonzz non c'era traccia,
un'altra figura aveva deciso di mostrarsi sugli spalti e sia Alex che
Lena, e così Indigo, si erano alzate in piedi, incredule di
vederla
lì: Astra Inze e la sua aria da Alice
appena
atterrata nel
Paese delle Meraviglie
cercavano la nipote con una mano sopra gli occhi per ripararsi dal
sole. Alex pensò di raggiungerla e loro la seguirono, anche
se
Indigo con molta meno voglia.
Si
stava allontanando verso il cancello aperto e si fermò
quando udì i
passi dietro di lei. Sapeva già chi si sarebbe trovata di
fronte e
si assicurò che vedessero un sorriso radioso pronto sul suo
volto.
«Volevo aspettare la fine della partita per vedere Kara, non
stavo
scappando», si girò. «Mi sarei aspettata
di vederla giocare, ma…
Volete farmi compagnia? Vi offro un drink da qualche parte?».
Teneva
i capelli mossi all'indietro con delle forcine, era truccata,
indossava un completo blu con giacca e scarpe con tacco alto; era
strano vederla in quel modo, come se non fosse mai stata la stessa
Astra Inze di Fort Rozz e Alex scrollò gli occhi.
«Dovresti
andartene», ammonì, seccata. «Lascia
Kara in pace».
Astra
aprì piano la bocca, tinta di un rossetto rosso brillante.
«È mia
nipote, non potete tenermi lontana da lei per sempre». Solo
allora,
sforzando la vista, notò Indigo Brainer poco più
lontano da Lena
Luthor, nell'ombra degli spalti. «Un vecchia conoscenza, e
chi
l'avrebbe mai detto».
Alex
e Lena si voltarono a lei d'istinto ma, lontano solo qualche metro,
Kara era lì, vicino a Megan. Dovevano averla vista,
accidenti.
Il
viso di Astra si sciolse come un pezzo di ghiaccio dalla commozione.
Ebbe le lacrime agli occhi non appena Kara posò i suoi su di
lei,
avanzando qualche passo; il labbro inferiore iniziò a
tremare.
Sua
zia era lì, a pochi metri, fuori da Fort Rozz che
gliel'aveva tenuta
distante per dodici anni. Nel frattempo era cresciuta, aveva imparato
a odiarla ed eppure a ritrovarsi in pena per lei, per poco. Non
sapeva cosa aveva passato e mai se lo era chiesto; si era sempre
sforzata affinché la tenesse distante anche dal suo cuore,
ignorando
quelle lettere che continuavano ad arrivarle ogni giorno, ma adesso
che era lì… non lo sapeva. Forse non cambiava
niente o cambiava
tutto, poiché camminò da lei senza neanche
rendersene conto.
La
donna le prese il volto con entrambe le mani e le lacrime le rigarono
il suo. La guardava e sfiorava come avrebbe fatto con qualcosa di
fragile; ma non sua nipote, era il momento a essere fragile, che
poteva rompersi da un attimo all'altro e lei sarebbe scappata via
dalle sue cure. Non voleva che accadesse. Kara non riusciva a dire
una parola, incantata, e Astra sorrise di gioia. «Quanto sei
bella…
Sono così fiera, così fiera di te».
Fiera?
Era la parola che meno si aspettava nel periodo attuale e, di certo,
non aveva alcun diritto di dirglielo. Sapeva che non ne aveva. Ma il
cuore le batteva impazzito: rivedere quegli occhi azzurri
così
familiari a un palmo dal naso la riportava a una casa che non
esisteva più. Che strana sensazione sulla pelle, spiacevole
e
piacevole al tempo stesso, verso una felicità non piena,
nostalgica
che le bucava il ventre. Faceva male, ma le erano mancati.
«Anche
tua madre lo sarebbe stata».
No.
Non avrebbe dovuto. Kara s'imbrunì e tornò un
passo indietro,
staccandosi dalla sua presa. Si voltò e scoprì
Lena, Alex, Megan e
Indigo che squadravano Astra e allo stesso tempo, senza una parola,
la invitavano a venire verso di loro. Così la ragazza
tornò
indietro ancora, riguardando sua zia.
«Non
preoccuparti, Kara», iniziò a dire, tamponando gli
occhi con i
polpastrelli. «Avremo tutto il tempo, adesso, per parlare.
Tutto
quello che ci occorre. Non dobbiamo fare tutto subito»,
sorrise,
prima di allontanarsi verso il cancello. Si assicurò che
loro non la
stessero guardando o seguendo, spiando attraverso due sbarre della
palizzata d'acciaio, e si appoggiò, prendendo fiato un
momento. Sua
nipote, non poteva crederci. Aveva potuto toccarla e parlarle dopo
così tanto tempo, tante lettere inviate, tante ore a
immaginarla
crescere lontana da lei, alle discussioni che avrebbero avuto, a
tutto quello che si stava perdendo, stretta in quattro mura. Ora le
cose sarebbero andate diversamente. Era stato così intenso
il loro
incontro… Non l'avrebbe più lasciata andare.
Aprì bocca e prese
un'altra grande boccata d'aria, spostandosi. Allora puntò
una
macchina parcheggiata e attraversò, lasciando la sua
espressione
commossa per una più dura. Aprì la portiera
posteriore destra e si
sedette, salutando un uomo che la stava aspettando, mani intrecciate
sulle ginocchia.
Sembrò
turbato, ma le diede il bentornato con un sorriso e le alzò
una mano
per stringerla, che lei nemmeno guardò. «Sono
felice di vederti! Di
vedere che stai bene! Sei-Sei uscita da poco, giusto? Quando mi hanno
detto che volevi parlarmi…», l'uomo si tolse un
ciuffo castano
dagli occhi: l'ansia lo stava facendo sudare più del
necessario. «Ho
saputo che sei… sei una beta, adesso. Metteresti una buona
parola
per me?», si sforzò per ridacchiare.
Lei
lo guardò a stento. «Sapevi che esiste, a Fort
Rozz, un reparto in
isolamento che i detenuti chiamano la
Zona Fantasma?»,
fece una breve pausa. «Sai perché lo chiamano
così? Mettono lì le
persone che vogliono punire, o quelle che devono essere interrogate a
lungo termine e vogliono indebolire. Ti senti sola, inizi a sentire
voci che esistono solo nella tua testa, lo scorrere dell'acqua e non
sai se c'è davvero o è immaginazione, rumore di
passi ma non c'è
nessuno, non puoi dormire e non sai se è giorno o
è notte. Mi hanno
tenuta chiusa lì quasi un anno intero»,
piegò una smorfia,
simulando un sorriso. «All'inizio della mia detenzione. Poi
per mesi
che sembravano altri anni. È stata dura prima che
l'organizzazione
prendesse il controllo».
«Mi
dispiace…», mormorò lui e la donna
incurvò la testa, trattenendo
le lacrime. «I-Io non sapevo…».
«Certo
che non lo sapevi: non sei venuto a trovarmi neanche una volta in
dodici anni», lo informò e lui deglutì.
«Ho pensato a così tante
cose, quando ero lì dentro… Hai saputo di Lionel,
invece? A lui è
andata peggio. Quand'è stata l'ultima volta che lo hai
visto?». Lo
vide balbettare.
«B-Beh,
credo… Credo quando ci siamo messi d'accordo per portare te
e tua
nipote via da National City, quindi-».
Astra
annuì. «Sai cosa si pensa all'organizzazione? Che
sia morto per
aver cercato di aiutare gli El. A distanza di anni, qualcuno deve
aver saputo che Lionel stava aiutando me a scappare con mia
nipote».
L'uomo scosse la testa e dopo scrollò le spalle; lei
socchiuse gli
occhi, affranta. «Tu ne sai nulla?». Era stanca di
vederlo agitarsi
senza saper dire niente di utile e si inchinò per prendere
un guanto
infilato nella tasca della portiera. «Da qualcuno devono
averlo
saputo».
«No,
no! Non da me, Astra, io non- non lo avrei fatto mai, lo giuro! Ero
fedele, sono
ancora fedele», deglutì, portando le mani in
avanti. «L'unica cosa
che volevo era lavorare con voi! Un giorno avrei voluto-».
«Cosa?».
«Essere
dei vostri! Un omega, iniziare dal basso, lo giuro! Mai ti avrei
tradito, o tradito Lionel Luthor».
Lei
chinò la testa, prima di riguardarlo negli occhi.
«Tutto quel tempo
nella Zona Fantasma e non ho mai, mai tradito nessuno»,
biascicò,
smettendo di ascoltare l'uomo al suo fianco.
«Ti
prego».
Afferrò
una pistola dalla borsetta e, in silenzioso, gli sparò in
pieno
petto. Uscì e lasciò la pistola sul sedile,
togliendosi il guanto e
gettando anche quello. Dopodiché batté il vetro
dalla parte del
guidatore. «Andate», ordinò.
«Ho bisogno di distendermi».
Col
vetro abbassato, l'impacciato Larry le diede l'okay
e la berlina si allontanò.
«Ehi».
Lena le si avvicinò. Avrebbe tanto voluto darle un bacio, ma
anche
se si trovavano all'interno del locale di lusso, sarebbe stato meglio
non attirare troppo l'attenzione, considerando la voce che girava.
Anzi, rifletté, proprio perché si trovavano
lì sarebbe stato
meglio non farlo. «Come ti senti?».
Kara
era appoggiata al bancone, il bicchiere vicino, ancora intatto.
«Bene», le sorrise, «Siamo qui per
festeggiare, quindi… Perché
così seria? Hai finito con gli esami, e col massimo dei
voti.
Stamattina hai consegnato la tesi e ti sei tolta un peso. Al posto
tuo starei gridando di gioia». Le prese le mani e, sentendosi
osservata, le lasciò, abbassando lo sguardo. Dei signori
più in
fondo alzavano i bicchieri in continui brindisi, altri due parlavano
come loro davanti al bancone, lontani: nessuno sembrava considerarle,
perfino il barista risciacquava i bicchieri canticchiando, ma lo
avevano pensato anche altre volte e sentivano che non era ancora
arrivato il momento per fare un bel coming out pubblico.
«Perché
Lillian ha scelto di vederci proprio qui?».
Lena
si guardò attorno, sedendo anche lei. «I miei
frequentavano questo
posto», assottigliò lo sguardo.
«Nostalgia?».
«Solo
questo bicchiere costa più della mia istruzione»,
lo osservò Kara,
mandando giù il contenuto d'un sorso.
«Andrà
bene, Kara», attirò la sua attenzione.
«Si sistemerà tutto».
Si
tirò gli occhiali sul naso, formando un lungo sorriso.
«Lo so. So
che si sistemerà tutto ed è davvero»,
annuì, «la prima volta
sono sicura che succederà. Ero soprappensiero, forse, un
po'»,
gesticolò, «sì… ma
è diverso. Dopo ciò che è successo, ho
smesso di piangermi addosso».
«Non
lo hai mai fatto».
«Forse
sì. Ma so che se anche mi ritroverò a sentirmi
giù per qualunque
motivo, o arrabbiata, e mi andrà di rifugiarmi lontano dal
dolore…
sarà momentaneo. Perché non lascerò
che queste cose mi consumino
di nuovo com'è successo con le pillole», la
guardò dritta negli
occhi. «Non lascerò che le cose cattive o
sbagliate che succedono
si alimentino di me e di ciò che sono». Per un
attimo, fu come
rivedere suo padre, nella sua cameretta intento a spiegare a una
bambina di dieci anni come funzionava la rabbia. Ora lo capiva come
mai prima. «E so che ci sarai anche tu, con me. Qualunque
cosa la
affronteremo insieme perché sei mia complice
e…», i suoi occhi si
allontanarono, guardandosi di nuovo attorno, «la cosa
più bella che
mi sia successa».
Lena
aprì la bocca, avvampando lentamente.
«Sì… Andiamo in bagno».
«Cosa?».
«In
bagno. Adesso», propose, «Prima che arrivino
Lillian ed Eliza. Qui
ci sono le telecamere, lì no».
Kara
aprì la bocca pian piano e infine si alzò di
fretta, mettendo male
un piede dietro un gambo dello sgabello e raschiandolo sul pavimento,
facendo girare tutti. «Scusa-Scusate». Scorse Lena
coprire una
risata con una mano, alzandosi anche lei, più pacata.
«Non
è successo niente…»,
intonò, rimettendo a posto.
Lena
le si aggrappò sulle spalle, sbattendola contro le pianelle
lucide
del muro appena chiusero la porta, affondandole la lingua in bocca.
Kara la strinse per i fianchi e tastò energicamente, fino a
che non
sentì che la borsa le scendeva da una spalla e gliela
acchiappò al
volo.
«Ops»,
Lena rise e solo un attimo più tardi incrociò lo
sguardo allarmato
dell'altra. «Cosa-?». Oh, il cellulare.
Già, era acceso e lo aveva
in borsa. Anche lei lo teneva in borsa, ma sembrò essersene
resa
conto solo ora. Si avvicinò a un orecchio, dopo averle
lasciato un
bacio sul collo. «Non ci sentirà. Non le
importerà se ci
coccoliamo un po'».
Rossa
dall'imbarazzo, Kara balbettò:
«È-È che-che, sì…
sta
squillando».
«Oh».
Sospirò subito e lo cercò in borsa.
«Lillian… Sono arrivate,
dobbiamo andare. Salvata dal cellulare», si morse un labbro e
le
catturò un bacio.
«Avremo
dei giorni per recuperare».
Quasi
aperta la porta, Lena si voltò, scrutandola negli occhi
intanto che
l'altra, passandole il braccio a un palmo dal naso, richiudeva. Si
lasciò mettere una mano sul viso e spalancò di
nuovo le labbra,
chiudendo gli occhi. Un bacio lungo, pieno. La guardò con
intensità
quando si lasciarono. «… sì»,
non riuscì a dire altro, in un
sussurro. Oh, se solo Kara non volesse dormire al campus quella
notte, accidenti. Si risparmiò dal dirle quanto la
desiderasse, non
voleva che si sentisse soffocata: aveva ragione dopotutto, avrebbero
avuto dei giorni, anche se sotto lo stesso tetto delle loro madri.
Lillian
ed Eliza stavano ordinando da bere e, appena le videro, la seconda
corse ad abbracciarle. Prima Lena, sfiorandole una guancia arrossata,
e dopo la figlia, staccandosi il tanto per scrutarle gli occhi.
«Cosa…
c'è? Che succede?». Oh, lo sentiva, lo sentiva:
non riuscì a fare
a meno di arrossire maggiormente.
Eliza
la riabbracciò. «Non volevamo
interrompervi», mormorò divertita.
«Senza imbarazzo, piccola mia: devi ricomprare l'acqua
aromatizzata».
Quando
l'abbracciò Lillian, Kara aveva ancora gli occhi sgranati,
immobile
come una statua di cera.
Si
sedettero attorno a un tavolino e si fermarono a parlare. La Luthor
Corp stava lavorando a un nuovo progetto e presto ci sarebbe stata
una nuova mostra, simile a quella dello scorso anno, ma stavolta
incentrata sull'immigrazione e sugli ostacoli dati dai confini. Lena
disse che avrebbe iniziato a lavorarci in quei giorni, ora che era
libera dallo studio. Nominarono anche il lacrosse ed Eliza si
stupì
molto di sentire che il coach non avesse voluto farla giocare.
Nessuno le aveva detto ciò che era successo e Kara
sentì l'impulso
di vuotare il sacco, se non fosse che Lena, sotto gli occhi in panico
di Lillian, le strinse una mano per fermarla. Non
adesso,
le soffiò all'orecchio. Eliza sorrise a entrambe, mentre la
donna a
fianco a lei sembrò assentarsi con la mente e con lo
spirito. Con la
conseguente sconfitta alla finale, le ragazze l'avevano incolpata per
la sua assenza in campo e Kara non se l'era presa, al contrario di
Megan: sarebbe stata pronta a strigliarle, se non fosse stata troppo
occupata a preoccuparsi per la mancata presenza di John Jonzz.
Eliza
colse un momento di pausa per ricordarle della cena a cui le avevano
invitate. Dissero di poter restare dei giorni, non c'era bisogno di
sottolineare una cena in particolare, finché non
sputò il rospo,
con palese nervosismo:
«Volevo
parlartene prima ma… e possiamo sempre annullare se non ti
va, non
voglio farti pressioni! Ho invitato tua zia, Astra… per
quella
cena».
Le
loro espressioni si freddarono, scambiandosi uno sguardo.
Bentornati,
people!
Vero,
vero, questo è un capitolo di passaggio, ma tutte queste
cosettine
dovevano pur trovare una collocazione :3
Kara
che va a parlare con Cat Grant, Lena che studia, la finale della
stagione senza Megan né Kara in campo, zia Astra che uccide
un tizio
in auto, la discussione tra Alex e Maggie sull'organizzazio- oh,
sì,
ha proprio ucciso un tizio in auto. Dunque, un tizio che avrebbe
dovuto aiutare lei a scappare con Kara dodici anni fa; abbiamo saputo
che anche qui abbiamo un'interpretazione della Zona
Fantasma
e che Astra laggiù se l'è passata poco bene; che
ha sparato al
tizio perché pensa che abbia potuto tradire Lionel.
Dopotutto, se
Lionel Luthor è morto, qualcosa è andato storto e
Astra pare
intenzionata a scoprire cosa.
Ah,
e l'autista era Larry! Non un Larry a caso, ma l'unico Larry della
fan fiction, il ragazzo- no,
fidanza- ah,
ma che dico, scherzavo, il tizio con cui Leslie Willis ama uscire
ogni tanto, ma solo per il sesso, così dice lei. Non voglio
incorrere nelle sue ire XD
Che
altro? Oh, sì: continua la farsa tra Lena e Alex che fingono
di aver
avuto una discussione, l'iniziazione di Maggie nell'organizzazione
pare avverrà per la fine dell'estate, Eliza ha capito che
fine ha
fatto l'acqua aromatizzata, ops,
e Kara proprio ora si è ricordata che deve ricomprarla,
infine…
infine le lettere di invito con il logo della Lord Technologies,
perché Max non ama passare in sordina. Ha invitato le nostre
eroine,
ma anche Carina Carvex e Indigo, che mi sa dovrà proprio
fingersi
Linda
ancora un po'. Sappiamo che Maxwell sa chi è, ma loro non
sanno che
lui sa, eh. Ma no, niente invito per Megan, anche se lo shippava con
Alex, cosa che gli farebbe piacere sapere, senza dubbi.
Note?
Nah, stavolta credo che passerò, ci sarebbe da fare una
piccola
parentesi per la sola Zona
Fantasma
ma credo che tutti, o quasi, sappiano già cosa sia. L'ho
introdotta
“per caso” in realtà, mi è
venuta in mente mentre scrivevo il
dialogo e l'ho lasciata, perché in fondo questo
spiegherebbe, o
almeno in parte, le motivazioni che spingono Astra Inze a fare quel
che fa.
Detto
questo, ci ritroviamo qui per il prossimo capitolo, che mi piace
particolarmente, e si intitola Lemuri
al buio.
Titolo curioso. Ah, sì, lo pubblicherò sabato 6
giugno! Non
mancate!
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