Mens Sana In
Corpore Sano
(…o magari no)
Era
stata una tra le prime cose di cui le avevano parlato sia
quando ancora studiava, sia quando aveva iniziato a lavorare in
clinica: la
possibilità di finire col dover prestare aiuto medico ad
amici, familiari e
conoscenti e la necessità di restare lucidi nonostante
l’attaccamento emotivo
più o meno forte.
Nickel
non poteva dire di aver avuto grandi problemi a riguardo,
si poteva dire che fosse piuttosto abituata. Veniva da una famiglia
piuttosto
numerosa -non tanto il nucleo più ristretto, quanto
piuttosto a livello di zii,
zie e cuginanza- nella quale era presente un buon numero di
scavezzacollo che
lei aveva avuto modo di curare già prima di studiare da
medico; perlopiù si era
trattato di lievi distorsioni, qualche contusione e qualche ferita,
tutto
tipico dei prioniani provenienti dalle “campagne”
con relativa tendenza a
vivere e giocare all’aria aperta. Ovviamente, prima durante
il tirocinio e poi
da interno, aveva trattato cose decisamente più serie che
andavano da patologie
più o meno gravi a ferite da aggressioni -Prion era una
colonia pacifica ma
neppure il posto più pacifico del cosmo, finché
ci fosse stato il libero
arbitrio, sarebbe mai stato esente dal crimine- e incidenti.
Qualche
incidente era successo anche a persone che conosceva di
vista, e il caso più eclatante era stato conseguenza di un
rally clandestino
nel quale erano stati coinvolti cinque suoi ex compagni di studi: uno
aveva
perso il controllo finendo addosso a un altro, e da lì si
era creato un
tamponamento a catena che aveva coinvolto una dozzina di persone. In
quel caso
Nickel ricordava di aver sbuffato il giusto per la loro incoscienza
-“Siamo a
Prion, non a Velocitron!”- ma ovviamente aveva prestato la
sua opera di chirurgo
senza battere ciglio.
“Chirurgo”
appunto. Quella era la branca che le piaceva e nella
quale si era specializzata, non si poteva essere medici esperti di
tutto. Di
solito, a parer suo, chi cercava di essere esperto in tutto finiva con
l’essere
esperto in niente.
“Quindi
la domanda è: perché sono stata richiesta nel
reparto
psichiatrico?” pensò, mentre l’ascensore
la portava al quarto piano della
clinica.
I
suoi punteggi negli esami iniziali l’avevano resa idonea a
poter scegliere praticamente qualsiasi cosa nel momento in cui aveva
dovuto
decidere quale sarebbe stata la sua specializzazione, dunque se avesse
voluto
avrebbe potuto scegliere di studiare da mnemosurgeon e lavorare come
tale, ma
non l’aveva fatto. A voler essere del tutto onesta riteneva
l’idea piuttosto
spaventosa: nessuno secondo lei avrebbe dovuto poter agire sul
processore
altrui ai livelli in cui operavano i mnemosurgeon. Riconosceva la loro
utilità
medica in determinati casi ma era inquietata lo stesso da quelle
pratiche.
Quando
le porte dell’ascensore si aprirono trovò ad
accoglierla
proprio il caporeparto di psichiatria, il che rese tutto ancora
più bizzarro.
«Oh,
eccola qui. Mi fa piacere che sia stata così celere,
dottoressa».
«Che
mi abbia voluta qui è talmente strano che non potevo fare
altro se non sbrigarmi» replicò Nickel
«Serve aiuto con un paziente?»
Il
caporeparto annuì. «Possiamo dire di
sì, anche se in realtà è
più un tentativo… inutile a prescindere
ahimè ma quando si fa un giuramento…»
disse, più a se stesso che a lei «Le
spiegherò mentre andiamo».
Il
reparto di psichiatria non somigliava a una brutta prigione
sotterranea, c’era il giusto grado di spazio e di
illuminazione, però Nickel si
sentiva a disagio lo stesso chiedendosi quante stanze fossero occupate
e per quali
motivi. Certi casi richiedevano tempo e più di una seduta
oltre che aghi nel
cervello.
«Il
fatto è che la mnemosurgery può molto»
esordì lo
mnemosurgeon «In certi casi direi che può
moltissimo, ma non è la panacea che
vorremmo. Scintilla e processore, la scienza dice che siamo tutto
lì ma avendo
alle spalle una carriera piuttosto lunga ho imparato che purtroppo
certe ferite
riescono ad andare oltre. Lei crede nel concetto di
“anima”, dottoressa?»
«Onestamente
non so risponderle… e non capisco ancora perché
sono qui» replicò Nickel, sempre meno tranquilla
«Vuole fare un tentativo
inutile a prescindere riguardo cosa?»
«Lei
conosce il signor Copper, giusto? Un mese fa era entrato in
clinica quale inserviente ».
Sentire
quel nome sorprese non poco Nickel. «Sì, lo
conosco, per
un po’è stato anche un mio compagno di
studi».
Aveva
conosciuto il minicon in questione nel primo anno dei suoi
studi di medicina, iniziando presto a ritenerlo non un amico ma un
conoscente con
cui fare quattro chiacchiere e parlare delle lezioni. A un certo punto
aveva
avuto l’impressione di piacergli in quel
senso ma, alla fine del primo vorn di studi, Copper aveva abbandonato
il corso
e si erano persi di vista, reincontrandosi solo un mese prima proprio
in
ospedale.
A
Nickel non era dispiaciuto incontrarlo di nuovo, per qualche
giorno avevano parlato del più e del meno e avevano bevuto
insieme dell’energon
caldo durante le pause… finché lui, a un certo
punto, l’aveva guardata nelle
ottiche e le aveva detto quanto gli fosse sempre piaciuta e gli
piacesse
ancora. Nickel aveva ritenuto opportuno chiarire di essere felicemente
fidanzata, eppure Copper il giorno dopo si era procurato in qualche
modo il suo
indirizzo e le aveva mandato dei fiori a casa. Una faccenda per lei a
dir poco
imbarazzante, specie perché Bustin era stato presente alla
consegna.
“Ti giuro che ha
fatto tutto da solo! Io ci ho solo chiacchierato durante le pause, e
quando si
è dichiarato io gliel’ho detto che sono fidanzata,
gliel’ho detto chiaro e
tondo a quel deficiente! E tantomeno gli ho dato
l’indirizzo!... come gli è
venuto in mente di mandarmi dei fiori?!”
“Un po’lo
capisco:
qualunque persona dotata di buon gusto in fatto di femme ti manderebbe
dei
fiori”.
“Bustin, non
è
divertente. È una cosa imbarazzante e non capisco come tu
possa prenderla in
questo modo! Cazzo, se un’altra ci provasse con te in questo
modo le farei
ingoiare una chiave inglese!”
“Non dico che quel
che è successo mi piaccia, però so anche di non
avere niente da temere. Non
avrebbe molto senso farti una scenata di gelosia perché
qualcuno ti ha mandato
dei fiori che tu neanche volevi”.
Per
fortuna Bustin era una persona ragionevole e aveva una
fiducia assoluta -e ben riposta- in lei, dunque su quel fronte non
c’erano
stati problemi, e il giorno successivo Nickel aveva avuto una
conversazione
piuttosto dura con Copper. Era riuscita a farlo desistere, ma lui non
le aveva
più rivolto la parola e da lì in poi si erano a
malapena incrociati. Nulla di
male: due chiacchiere durante le pause non valevano tanto stress.
«Ecco.
Dunque forse si sarà fatta qualche domanda sul
perché sia
assente da quasi una settimana?...» le domandò il
professore.
«È
assente? No, non mi ero accorta, eccetto che nei primi giorni
non abbiamo più avuto a che fare uno con l’altra,
ma non capisco...»
Si
interruppe facendo un collegamento che, nonostante la
stupidità dimostrata dal suo ex compagno di studi, mai
avrebbe desiderato o
pensato di trovarsi a fare.
«Non
mi vorrà dire che Copper si trova qui?»
L’altro
minicon, molto serio in volto, annuì.
«È stato trovato
in uno dei quartieri di periferia della nostra cittadina. Si aggirava
lì in uno
stato confusionale gravissimo e di aggressività a livelli
bestiali, dal quale
non si è ancora ripreso, gridando parole assolutamente prive
di senso».
«M-ma
cosa… come?»
allibì Nickel «Com’è
successo?! Se ne sa qualcosa?»
Il
caporeparto scosse la testa. «Nessuno ha la minima idea di
come sia successo, dove sia successo di preciso e perché.
Nessun medicinale ha
funzionato e i nostri migliori mnemosurgeon, tra i quali posso
annoverarmi senza
falsa modestia, non sono ancora riusciti a cavare un aracnobot dal buco
pur
avendo già scavato più in profondità
di quanto sarebbe stato medicalmente
saggio. Tutto ciò che abbiamo trovato nella mente di quel
povero disgraziato è
stato il caos, e devo aggiungere che qualcuno dei più
giovani ad aver operato
si è anche sentito piuttosto male in seguito»
affermò «Purtroppo ho già visto
casi di transformers ridotti in questo modo, alcuni aggressivi, alcuni
in stato
vegetativo. È un fenomeno raro ma tutt’altro che
unico: quando io ho iniziato
gli studi era già conosciuto. In passato è stato
colpito anche più d’un
transformer piuttosto eminente… la prova che le malattie non
risparmiano
proprio nessuno».
L’idea
faceva sentire Nickel piuttosto destabilizzata. Era
consapevole che esistessero delle patologie difficilmente o per niente
curabili, ma non era mai piacevole sentire che un proprio conoscente
era andato
completamente fuori di testa.
«Quindi…
perché io sono qui?»
«Lei
è uno degli ultimi tentativi di penetrare la barriera di
caos e trovare qualcosa a cui aggrapparsi per iniziare a rimettere in
ordine il
processore del signor Copper. Si spera sempre che la vista di amici,
familiari
e conoscenti riesca a far scoccare quella scintilla» le
spiegò il medico.
«Immagino
che abbiate già tentato con le prime due
categorie».
«Confermo.
Abbiamo provato, nonostante io avessi capito molto
presto di cosa si trattava, perché il nostro giuramento ci
impone di fare ogni
tentativo possibile di aiutare i nostri pazienti… anche
perché, in caso di
incurabilità dichiarata, sa bene qual è la scelta
che tende a fare chi ne
assume la tutela».
«Eutanasia.
E solitamente in casi come questo non impiegano
molto a far avviare la procedura» disse Nickel, in tono
piuttosto neutro «Se i
pazienti non sono più funzionali in alcuna parte e non
c’è la neanche la minima
possibilità che tornino a esserlo
viene considerato un atto di pietà. Quindi cosa vuole che
faccia di preciso,
dottore?»
«La
stanza del signor Copper è questa» disse il
caporeparto,
indicando una porta coperta da un pannello oscurante di colore chiaro
«Tolto il
pannello, lui potrà vederla. Tutto quel che deve fare lei
è stare qui, magari
provare a chiamarlo. Si spera in una reazione diversa dal
solito…»
«Ma
non ci conta».
«No».
La
minicon esitò solo brevemente prima di dire
all’altro di
aprire il pannello, più che altro in nome di un giuramento
che aveva fatto,
come tutti i medici, e nel quale credeva.
Un
grido animalesco precedette di poco la testata che il povero
minicon impazzito e stretto in una sorta di camicia di forza diede
contro la
porta, proprio davanti a Nickel, che sobbalzò
all’indietro suo malgrado.
« N’ghftnyth
mgepnog!»
urlò il minicon «Iä!
Iä! N’ghftnyth
mgepnog!»
Era
stata preparata a quel che avrebbe visto, eppure lo
spettacolo era perfino peggio di quanto Nickel avesse immaginato. Non
c’era un
briciolo di raziocinio in quelle ottiche, riflesso del caos nel
processore, e
il resto dei movimenti scattosi del minicon e dei suoi versi
sconclusionati
mostrava solo un miscuglio di aggressività bestiale e
terrore. Decise di farsi
comunque forza e provare a chiamarlo.
«Copper-»
«Ephaiah Mgehye! Ephaiah
N’gha!» sbraitò il minicon
folle, con la visibile intenzione di cercare
nuovamente di spaccarsi la testa contro la porta o le pareti, fatte
fortunatamente di materiali adatti a evitarlo «Ahhai
nilgh’rishuggogg ephaiah uh’eor Chhaos…»
Nickel
provò a chiamarlo ancora e ad attirare la sua attenzione,
senza risultato: lui continuò a gridare e ringhiare i suoi
strani versi, che in
certi punti le sembravano quasi somigliare a parole vere e proprie in
una
lingua sconosciuta.
«Come
immaginavo e temevo» disse lo mnemosurgeon, cupo
«Nessunissima differenza. Ha fatto il suo, dottoressa,
può andare».
Nickel
non se lo fece dire due volte, desiderosa solo di
allontanarsi, e si congedò con un breve cenno
d’assenso raggiungendo l’ascensore
più velocemente che poteva. Non poteva fare assolutamente
niente per il suo ex
compagno di studi, restare ancora lì era inutile e sperava
di riuscire ad
allontanare dalla testa quel pensiero proprio come aveva imparato ad
allontanare dalla propria sfera emotiva i dolori e le miserie dei suoi
pazienti: era necessario farlo -in una certa misura- per evitare di
consumarsi
dietro la sofferenza altrui.
«…
N’ghftnyth,
h’Uaaahgof’n ng f’Gof’nn ephaimgahnnn ngluii!» sentì urlare ancora il
disgraziato ex inserviente «Ng h' ephaiah ephaii yar ot Mgepogor R'luhhor!
N’ghftnyth! N’gha!
N’gha! N’ghaaaaa!»
***
La
prima cosa che fece Nickel quando rientrò a casa svariate
ore
dopo fu dirigersi verso il mobile bar e servirsi un cubetto di energon
extra
forte, come faceva spesso dopo giornate particolarmente pesanti, e
quella indubbiamente
lo era stata. Col passare delle ore aveva concluso che avrebbe superato
abbastanza presto la faccenda di Copper, ma vedere un minicon in quelle
condizioni non era
stato gradevole.
Sentì
i passi di Bustin a poca distanza da lei, e pensò che non
essere da sola in casa era più che consolante in certi
momenti.
«Bentornata.
Giornata dura?»
«Abbastanza»
disse la minicon, svuotando il cubetto con un lungo
sorso, per poi sospirare. «Hai presente Copper?»
Bustin
la guardò con aria interrogativa. «Chi?»
«Il
cretino che mi ha mandato dei fiori».
«Ah,
lui! Mi avevi detto che avevi chiarito, è venuto a darti
noia di nuovo? So che sei abituata a risolvere certe cose da sola ma se
serve
aiuto dimmelo».
«No,
non mi serve aiuto, non credo che possa più darmi fastidio
ormai. Vedi, lui…» sospirò nervosamente
«È in psichiatria al momento, e il
caporeparto è piuttosto convinto che non ci sia speranza, e
dopo averlo visto
ne sono abbastanza convinta anche io».
«In
psichiatria? Sul
serio?» si stupì Bustin «Che gli
è successo?»
«L’hanno
trovato a vagare impazzito in periferia. Io l’ho visto
perché in casi come quello sperano sempre di
“smuovere” qualcosa nei processori
dei pazienti facendo vedere loro gente conosciuta»
spiegò rapidamente Nickel
«Ci avevano notati mentre eravamo insieme al bar della
clinica, prima che lui
si dichiarasse e tutto il resto, quindi hanno pensato che
magari… ma è stato
inutile. Continuava a urlare cose incomprensibili e cercare di rompersi
la
testa».
«Mi
spiace sia per quel povero disgraziato sia per te che l’hai
visto così. Quasi quasi bevo un po’di extra forte
anche io, qui ci vuole» disse
Bustin, servendosi un cubetto come quello di Nickel «Hanno
una vaga idea del
perché sia messo così? Una malattia, dei traumi,
non so…»
«Se
si fosse trattato di quello avrebbero potuto risolvere con
le medicine o con la mnemosurgery. Il caporeparto ha fatto un discorso
che
tirava in ballo le ferite dell’anima o roba del genere, poi
mi ha chiesto se
credo al concetto di anima e…» sbuffò
«Da un uomo di scienza non me l’aspettavo,
anche se effettivamente, con quel che ha visto e che ho
visto…»
«Riguardo
il concetto di anima cosa gli hai risposto?»
«La
verità, ossia che non lo so. Però lo vedo
più come un concetto
organico, noi siamo processore e Scintilla, sono quei dati che si
riuniscono
all’Allspark, il tutto volendo pensare che abbiano ragione i
neoprimalisti e
che quindi l’Allspark esista» disse Nickel
«Tu invece che pensi?»
«Che
è inutile farsi domande su concetti che non possiamo
comprendere. Per quanto ne sappiamo, Primus, Unicron, noi stessi e
tutta la
compagnia potremmo essere solo un lunghissimo sogno di qualcuno e
niente di più».
La
minicon alzò gli occhi al soffitto. «Una risposta
strana come
questa dovevo aspettarmela. Adesso che ho parlato di tutta questa cosa
però mi
sento meglio».
«Sono
qui apposta».
«Pensare
che io ho iniziato a lamentarmi appena sono tornata e
non ti ho nemmeno detto
“ciao”…»
«Sei
ancora in tempo!»
Nickel
sorrise. «Hai talmente tanta pazienza e sei così
carino
con me che a volte mi domando se sei vero».
Bustin
le prese una mano con delicatezza e l’accarezzò.
«Sono
dell’idea che la mia parte migliore e più vera sia
proprio tu e tutto quel che
ti riguarda, Nickel. Comunque, sei ancora dell’idea di uscire
questa sera?»
«Usci-ah,
già! Avevamo detto di andare al Crawling Mist
insieme»
ricordò lei «Sì. Sì,
possiamo andare, credo che uscire un po’mi farà
solo
bene».
«Domani
poi siamo a casa tutti e due, quindi se ci gira bene
possiamo anche fare chiusura!»
«Un’altra
volta?!» esclamò Nickel,
“disperata” ma solo per modo
di dire dato che il locale e il tipo di clientela non le dispiacevano
«O beh,
basta non finire entrambi a ballare sopra il bancone del bar di nuovo…»
«Quello,
sempre se ci gira bene, succederà di sicuro!»
«Perlomeno
stavolta lascia a casa la vuvuzela, altrimenti-»
«“Altrimenti”
me la rubi un’altra volta per soffiarci dentro
mentre balli?»
Nickel
gli lanciò un’occhiataccia. «Prima che
ci mettessimo
insieme queste cose non succedevano, ero una persona seria, TU mi hai traviata».
«Sì,
l’ho fatto!» annuì Bustin «Io
vado a prepararmi».
«Non
metterci due ore come tuo solito!... e per fortuna che
dovremmo essere noi femme a stare in bagno
un’eternità» commentò Nickel,
vedendolo sparire su per le scale.
Buona
parte della giornata forse era stato pesante ma, per sua
fortuna, c’era qualcuno che era sempre pronto ad alleggerire
la sua esistenza.
Bustin
era carino, premuroso, comprensivo, intelligente, tranquillo,
piaceva ai suoi genitori, avevano una bella casa e avevano entrambi una
carriera ben avviata: sarebbe stata l’atmosfera perfetta per
diventare compagni
di vita e di mettere su famiglia, idea che lei aveva già
tirato fuori in più di
un’occasione, soprattutto da quando il tirocinio era finito.
Lui non era ancora
molto convinto, ma Nickel era sicura che avrebbe capito a sua volta che
potevano davvero permettersi di farlo… prima o poi.
Spingendo
in fondo al processore i pensieri negativi, le persone
che non poteva aiutare e le parole che non poteva comprendere,
andò a
prepararsi a sua volta immaginando un futuro sereno e felice col suo
bel lavoro,
il suo amato compagno e i loro futuri figli nella colonia di Prion.
Cosa sarebbe
mai potuto andare storto?
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