Something
give you the nerve
to
touch my hand.
- T. S.
Il
bar Sottocasa era uno di quegli squallidi locali con
l’insegna tutt’altro che luminosa – le
cui lettere erano ormai fagocitate da anni di polvere – e con
il piccolo neon lampeggiante con su scritto Aperto, che il
proprietario doveva aver sgraffignato a qualche negozio di articoli
cinesi.
Per quanto apparisse degno d’uno dei peggiori
sobborghi di
Caracas, sua madre si recava spesso lì per un
caffè veloce prima di accompagnarlo a scuola, oppure di
ritorno dal lavoro, per una tisana di quelle in bustina che avrebbe
tranquillamente potuto bere a casa, ma che preferiva farsi servire,
spendendo duemila lire per qualcosa che al supermercato ne valeva
mille. Non che lui avesse percezione della cosa, la pecunia era ancora
un business molto lontano dalla sua realtà, che si basava
sui pochi spicci che la genitrice gli dava quando si trattava
d’andare al tabacchino per comprare un nuovo pacchetto di
figurine.
Capitava sovente che il bambino – Nicola – le
facesse compagnia durante quei momenti in cui sostava civettuola sulle
sedie rialzate del bar, cianciando allegramente con la barista. Non
aveva mai saputo il nome della giovane ragazza che
s’affaticava dietro al bancone: aveva un grembiulino che un
tempo doveva esser stato bianco, i capelli sempre legati con un
elastico dalle discutibili tonalità pastello e un tic
nervoso al sopracciglio sinistro che rasentava un principio di
blefarospasmo. Correva avanti e indietro per il bar, aggiustando le
bottigliette d’acqua naturale dentro al piccolo frigorifero e
andando nel panico quando l’estrattore per le spremute
s’inceppava. Ma la cosa che più affascinava
Nicola era la velocità con la quale sbatteva via i
rimasugli del caffè dall’erogatore per riempirlo
nuovamente con la polvere dei chicchi già macinati,
azionando poi la rumorosissima Cimbali[¹]
che il proprietario si ostinava a non voler cambiare –
nonostante avesse ormai il doppio dei suoi anni.
Quella ragazza, per chiunque si fosse trovato a passare per il bar, non
aveva un nome; era semplicemente la Barista[²], e tutti la chiamavano
così. A Nicola
accadeva spesso di rimanere lì per ore intere, quando sua
madre non poteva occuparsi di lui e lo lasciava alle cure della
giovane donna, dove studiava silenziosamente sull’abbecedario
per
evitare d’infastidirla più del necessario
– ché di problemi ne aveva già tanti,
anche senza la sua presenza.
Per quanto quel posto fosse una bettola e dimenticato ormai dalla
stragrande maggioranza di chi ci viveva attorno, v’erano dei
clienti ormai abituali che persino Iddio si sarebbe fatto una risata a
pensare che fossero creati a sua immagine e somiglianza: il primo, tra
i tanti, era il Capitano Pucci.
Il Capitano Pucci – ben attenti a designarlo con la c maiuscola
– era un sottufficiale della marina militare in congedo per
stress post-traumatico da quarant’anni. Cos’avesse
passato durante i tempi della guerra, nessuno lo sapeva; la storia
cambiava sempre a seconda della persona a cui si rivolgeva. Una volta
era scampato ad un missile lanciato dai tedeschi sul sottomarino dove
era di stallo, un’altra s’era infiltrato in un
avamposto austriaco, l’altra ancora s’era ritrovato
da solo a salvare una famiglia ebrea dal plotone
d’esecuzione. La cosa più interessante nel
sentirlo parlare era che non si riusciva mai a comprendere da quale
parte stesse: se la prendeva spesso coi tedeschi, di rado con gli
italiani, sempre coi francesi. Non che ne indicasse mai le ragioni,
questo era palese a tutti. Borbottava tra sé e sé
le classiche frasi dei vecchi, salvo però sbraitare
nevrotico un “Tu
sai chi sono io?” a chiunque
provasse a ridere delle sue allucinanti considerazioni su quanto si
stesse meglio quando si stava peggio.
Di fianco a lui, la mattina presto, era possibile incontrare la signora
Fa, una veneranda donna cinese che aveva aperto un negozio
lì vicino – probabilmente lo stesso dove il
proprietario del bar aveva comprato lo squallido cartello con su
scritto Aperto.
Della signora Fa solamente una cosa era certa: godeva
del privilegio d’essere una gran lavoratrice. Lavorava
così tanto e così assiduamente che a volte era
necessario che i figli le chiudessero in testa la saracinesca per farla
andare a casa. Nel piccolo negozio vendeva di tutto: bigiotteria,
scarpe, abiti, pellicole per cibi pronti, ricambi di DynaTAC[³], fiori
finti, cappelli, smalti, articoli per animali domestici, radioline a
manovella. Il bambino era certo che, se avesse potuto, avrebbe venduto
anche i suoi stessi reni, giusto per aggiungere malloppo a
quell’impilata d’oggetti messi un po’ a
caso. Di lei, eccetto quella sua incrollabile aura rigorosa e
intimidatoria, non si sapeva null’altro, tranne forse che
andava matta per il latte freddo macchiato.
Non appena la signora Fa usciva dal bar, faceva il suo ingresso Jackie
il Rosso, ch’era chiamato così non per i capelli
– che ricordavano più il terrificante colore della
ruggine sulla chiglia delle barche – bensì per la
graziosa tutina ch’era avvezzo ad indossare durante le sue
performance di funambolismo. Sua madre gli disse un giorno che
quell’omino baffuto e un po’ tarchiato era un
acrobata che si guadagnava da vivere andando in giro a destreggiarsi su
una corda. Il suo vero nome, in realtà, non era affatto
Jackie, ma Giacomo, ch’era abbastanza comune tra le parti di
Massafra e nel Tarantino. Tuttavia, se qualche ignaro passante si fosse
incautamente preso la confidenza di chiamarlo col suo vero nome,
ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stata un’illogica
lavata di capo su come non ci si dovesse mai rivolgere a un artista col
suo epiteto anagrafico.
Sul tavolo posto nelle immediate vicinanze del bancone sul quale Jackie
il Rosso consumava il suo caffè ristretto, v’erano
le gambe incrociate del signor Noncorrorischi – di cui
nessuno conosceva il nome, neppure quello d’arte. Lo
chiamavano così perché era appassionato di
cronaca e si dilettava nel concedersi sempre alla solita locuzione: per
non correre rischi.
Così, se fosse accaduto un incidente aereo, a lui sarebbe
venuto spontaneo dire: «Lo sapevo, per non correre rischi io
prendo il treno». Oppure, di fronte ad un episodio di
terrorismo: «Avete visto? Per non correre rischi io non vado
mai in zone troppo trafficate». E la cosa più
divertente era che consumava sempre il suo caffelatte con una
cannuccia, qualora il caso si dilettasse a giocargli il brutto scherzo
di farlo strafogare.
Per i suddetti motivi, risultava abbastanza chiaro a tutti che Jackie
il Rosso e il signor Noncorrorischi non fossero amici propriamente
detti. Alla peggio, si sarebbe potuto assistere ad uno dei loro eterni
litigi che avvenivano ogni giovedì, quando Jackie il
Rosso distribuiva ai clienti del bar i biglietti per il suo spettacolo
pomeridiano. Durante il loro ormai doveroso battibeccare,
v’era sempre un giovane piemontese in doppiopetto gessato che
li fissava con la puzza sotto al naso, mentre si gustava il suo
caffè shakerato, consumando ogni volta due bustine di
Dietor,
perché “lo
zucchero raffinato fa
male”. Il ragazzo si chiamava Giovanni Bricco ed
era famoso
in tutto il vicinato per la sua molesta abitudine di suonare il
violoncello durante le ore serali, quando in tv davano le repliche
della Carrà che deliziava il pubblico a suon di Tuca tuca.
Per il suo cognome e per il fastidioso ronzio che si avvertiva intorno
alle otto del crepuscolo, veniva chiamato da tutti il Bricconcello e a
nessuno importava quanto a lui desse fastidio: era una sorta
d’implicito contrappasso per essere considerato un seccante
snob con gli illustri natali piemontesi – nonostante chiunque
fosse già al corrente che col Conte di Cavour avesse in
comune solo il luogo di nascita.
L’unico che gli rivolgeva la parola senza prenderlo in giro
era Posta, un signore alto e dall’evidente riporto che gli
toccava sistemare ogni volta che scendeva dal Liberty 125 che gli
era
stato dato in comodato d’uso dal Gruppo Poste Italiane.
Entrava nel piccolo bar e – imbranato com’era
– finiva sempre per incastrarsi nella tenda a fili di
plastica, facendo cadere casco, penna e una serie indefinita di
lettere. Posta era un tipo sui
generis: non diceva mai niente di
particolare, si limitava a pronunciare ad alta voce il nome e cognome
dei destinatari delle buste, le consegnava senza troppe cerimonie e si
concedeva un veloce caffè amaro come la vita
– o almeno così era solito dire alla Barista. Non
che a quel buffo uomo
troppo cresciuto la vita non piacesse; era che lui ci stava
davvero troppo scomodo su quel cinquantino.
Nicola, che non s’angustiava granché per tutte le
beghe degli adulti, un giorno gli chiese come mai le lettere che
avrebbe dovuto consegnare la mattina finissero irrimediabilmente per
arrivare di pomeriggio, quando tutti avevano di meglio da fare che
starsene lì ad aspettarlo al bar Sottocasa. E Posta,
sorprendentemente serio, gli aveva risposto che non aveva voglia di
andare lì la mattina presto per colpa di Piedipiatti.
Piedipiatti – qualora il soprannome lo rendesse poco noto
– era un poliziotto in borghese che tutti sapevano essere
sbirro per via di quelle manette nascoste tra i passanti del jeans
liso, all’ombra d’un giacchetto di pelle color
cammello che le rendeva evidenti come un anello di fidanzamento.
Nonostante gli fosse stato ribadito più volte che quei due
cerchi scintillanti d’acciaio tirato a lucido dessero troppo
nell’occhio – mandando al diavolo la
sua perfetta copertura –,
lui scrollava le spalle, dicendo che quelli non erano argomenti di
competenza della gente normale. E la cosa era ovvia, perché
lui di normale non aveva proprio niente, se si eccettuavano i baffi ch’egli stesso considerava davvero originali, sebbene a tutti
apparissero più come la brutta copia di un Magnum P.I.[⁴] in
pensione.
Ma chi si dilettava a prenderlo per i fondelli –
l’unico che ne aveva davvero il coraggio – era
Mangiafuoco: lo chiamavano così per la sua schifosa
somiglianza al personaggio di Collodi[⁵],
con quella sua barba lunghissima
e incolta, gli occhi grandi e le pupille decisamente troppo dilatate
per poter essere normali, la bocca piena di graffi per via di tutte le
pellicine che si strappava e il sorriso storto di chi non aveva mai
visto un dentista neanche da lontano. Eppure, quando Mangiafuoco faceva
una battuta, tutti ridevano; perché lui non le preparava,
gli uscivano proprio così, senza troppo pensarci –
per la cronaca, Magnum
P.I. era una delle sue storiche. Era un omone
sì, ma di buon cuore, di quelli che ogni volta che
incontravano qualche conoscente gli offrivano il caffè. Non
piaceva a nessuno, ma gli volevano bene tutti.
Come il bambino, anche lui sembrava aver messo radici al Sottocasa,
ch’era più casa che bar. C’era chi
s’era addirittura premurato di comprendere che lavoro
facesse, ma senza successo. Mangiafuoco, così simpatico e
burlone, raccontava sempre tante storie sugli altri, e questo
perché una storia tutta sua non ce l’aveva. Forse
per questo amava tanto la gente.
Ma il più curioso tra tutti, che sovente se ne stava vicino
a quel muscoloso di Mangiafuoco solo per il gusto di non farsi vedere,
era u’
Scazzamurried.
U’ Scazzamurried
era un tipo alquanto singolare, con un
cappello a punta in testa – che chiunque denominava con
l'espressione più rigorosa di “lu
cappiddhuzzu” –, delle scarpe logore e
rattoppate, bassino
tanto da poter essere scambiato per un banale gnomo da giardino e un
gilet color tabacco con una piuma di piccione all’occhiello,
ché di aquile lì non ce n’erano. Era
così rassomigliante al leggendario folletto, che chiunque
fosse capitato in quel bar a quell’ora, sarebbe stato
convinto
di trovarsi di fronte al mitico spiritello di cui si cicalava spesso
nelle zone da Roma in giù: in Salento l’avrebbero
chiamato Laurieddhu,
a Napoli Munaciello,
in Abruzzo Mazzemarill,
a
Bari Tummà
e nelle zone limitrofe a Taranto Avurje.
In
realtà, il suo nome non aveva molta importanza. Forse ci
sarebbe stato persino qualcuno che avrebbe provato a regalargli un paio
di scarpe nella speranza di ricevere qualche moneta d’oro o
la mappa d’un tesoro, oppure chi – più
malizioso – avrebbe provato a strappargli dalla testa il
copricapo a punta[⁶].
Nicola vi pensava spesso e se la rideva: tutti sapevano che quel
signore peloso e piccolino non potesse essere davvero u’
Scazzamurried. D’altronde, il dispettoso
folletto appariva
di sera, e lui al bar si presentava solo la mattina, consumava
silenzioso il suo cappuccino, si asciugava i baffi inumiditi dalla
schiuma del latte, pagava sempre con due monete da cinquecento lire,
due da duecento e una da cento. Perché u’
Scazzamurried era un tipo preciso e non voleva mai il
resto. Era
così strapieno di spicci nelle tasche consunte del gilet,
che quando camminava si sentiva sempre un bizzarro tintinnio e allora
tutti al bar gli chiedevano di cambiargli le banconote, ma lui
rispondeva di no, che quegli spicci gli servivano e che non aveva
alcuna intenzione di barattarli con dei pezzi di carta con i quali
– secondo la sua esperienza – ci si poteva solo
soffiare il naso.
A detta di molti, il bar Sottocasa non era un posto raccomandabile,
perché era frequentato da gente insolitamente stravagante e
sopra le righe. Il bambino, in realtà, non capiva tutto quel
vociare: cosa c’era poi di così strano in una
barista distrutta da un esaurimento nervoso, in un capitano dal dubbio
passato, in una signora cinese col complesso del lavoro, in un
funambolo con la passione per le tute, in un signore ipocondriaco e
ansiogeno, in un lord piemontese e violoncellista molesto, in un
postino pigro che consegnava le missive di pomeriggio, in un poliziotto
convinto d’essere in borghese, in un omone cabarettista senza
lavoro e in un nano dalle fattezze d’un leprecauno?
La gente che aveva l’arroganza di definirsi normale li
considerava alla stregua di anomalie, senza un posto da poter riempire
degnamente nella società. Erano sbagliati, perché
erano nati originali – e nel mondo
l’originalità era pericolosa, illogica, senza capo
né coda. Per le persone, i clienti di quel bar erano come
una mosca caduta in uno squisito whiskey ghiacciato, il tram perso per
un soffio, l’automobile passata all’ultimo istante
di giallo prima di far scattare il rosso, la macchia di sugo che
imbrattava le loro camicie bianche
nonostante indossassero il bavero. Quella sensazione non aveva nulla a
che fare con la paura: era disgusto, un’emozione sgradevole e
da scrollarsi di dosso una volta tornati a casa. In pratica,
ciò che facevano gli altri era limitarsi a volgere lo
sguardo altrove, senza degnarli di un’occhiata.
Nessuno s’era mai chiesto cosa provassero loro, nel vedersi
trattare in quel modo. Nessuno s’era mai interrogato su cosa
potessero pensare, che tipo di sentimenti celassero quelle
personalità un po’ contorte e così
riccamente dense d’esperienze, di rimorsi, di piccole gioie e
d’errori che ancora si trascinavano dietro, nascosti nei loro
occhi che raccontavano così tante storie da poter passare
intere giornate senza neppure il bisogno di parlare.
Nicola
l’aveva fatto. Per questo riusciva a vederli.
Sapeva il nome della Barista, Martina Bianco, la quale aveva lasciato
gli studi che non poteva più permettersi e s’era
dovuta accontentare d’un lavoro che svolgeva con grande
passione, nonostante nessuno sapesse neppure il suo nome; sapeva che il
Capitano Pucci s’era separato dalla moglie perché
si rifiutava di prendere le pillole per l’Alzheimer, ed ogni
volta finiva per dimenticarsi persino dove abitasse; sapeva che il
marito della signora Fa era tornato in Cina, lasciandola da sola ad
allevare quattro bambini e che spesso la donna aveva dovuto saltare i
pasti per
poter concedere ai figli almeno un tozzo di pane; sapeva che Jackie il
Rosso era stato ripudiato dai genitori non perché fosse
funambolo, ma perché gli piacevano gli uomini, e suo padre
s’era rifiutato d’accettar la cosa; sapeva che il
signor Noncorrorischi aveva perso sua moglie in un incidente stradale e
che sua figlia era morta a seguito d’una massiccia dose di
barbiturici; sapeva che Bricconcello s’era trasferito in
Puglia dai nonni materni, che d’illustre non avevano proprio
nulla, tranne forse l’orgoglio d’esser contadini in
una terra agricola; sapeva che Posta e Piedipiatti erano stati migliori
amici, ma che poi il secondo aveva sposato la donna amata dal primo,
finendo entrambi per mandarsi reciprocamente al diavolo; sapeva che
Mangiafuoco era stato un insegnante d’italiano e che nessuno
sapeva recitare La
ginestra del Leopardi meglio di lui; sapeva che
u’
Scazzamurried era un artigiano che conciava pelli, e che
si recava al bar non per bere il suo cappuccino, ma perché
in realtà si sentiva sempre molto solo.
Che poi, a dirla tutta, a Nicola stavano simpatici proprio per quello.
Erano come i personaggi d’una recita scolastica, gli stessi a
cui si applaudiva non appena s’alzava il sipario. La cosa che
non capiva era perché non vi fosse nessuno a batter le mani
per loro anche nella vita vera.
Il bambino, vittima forse dell’ingenuità infantile
e scevro dalla malizia adulta, non conosceva il significato del
pregiudizio, né la cattiveria dell’ignoranza: gli
interessava parlare con la Barista, ascoltare i ricordi incongruenti e
paradossali del Capitano Pucci, imparare alcune parole in cinese con la
signora Fa, capire come Jackie il Rosso riuscisse a stare in piedi su
una corda, consolare il signor Noncorrorischi, conoscere le note del
violoncello di Bricconcello, aiutare Posta con le lettere, ridere delle
battute di Mangiafuoco tentando di aiutare Piedipiatti a replicare
qualcosa che avesse un minimo di senso e godersi il suo latte caldo in
compagnia del silenzioso Scazzamurried.
In un mondo nel quale le persone voltavano loro le spalle, Nicola era
lì per afferrare le loro mani e stringerle. Cosa gli desse
la forza di farlo, non era ben chiaro: c’era chi pensava che
pure quel bambino avesse qualche rotella fuori posto, chi invece
s’era convinto che non avesse una famiglia dalla quale
tornare – e in parte era vero. Nicola aveva passato
così tanto tempo in compagnia di quelle persone, che aveva
smesso di piangere per via di una madre che non c’era mai e
di un padre che non aveva conosciuto. S’era ritrovato
immerso fino al collo in una di quelle sceneggiature deliranti e
fiabesche alle quali erano avvezzi i commedianti, ricolme di
sentimenti, angosce, sogni mai realizzati e speranze che non erano mai
svanite.
Quei personaggi, a ben guardare, avevano una sola cosa in comune: la
sua mano. Potevano vederla lì davanti a loro, piccola e
pallida, in attesa che qualcuno l’afferrasse.
Perché ci voleva coraggio a tendere una mano verso gli
altri, ma ce ne voleva molto di più per trovare la forza di
prenderla. Loro, che di normale non avevano proprio niente,
l’avevano agguantata per paura di scomparire. Era stato forse
per il proprio egocentrismo o per avere la semplice conferma
d’esistere a fare in modo che ciò accadesse, ma
nessuno di loro s’era mai pentito d’aver preso
quella decisione.
Nicola, agli occhi di tutti, era come un caro parente. Per quanto
giovane, per quanto inconsapevole del mondo – e forse proprio
per tale ragione – lui era ciò di più
vicino ad un amico. Parlavano con lui, gli permettevano
d’ascoltare le loro storie, gli offrivano un gelato di tanto
in tanto, ma soprattutto lasciavano che lui li comprendesse: con i
volti, le cicatrici, gli scheletri nell’armadio e quelli
già sepolti. Lo facevano non per nobili ideali, ma
perché erano abbastanza egoisti da volersi ancora sentire
parte di qualcosa, e lo facevano attraverso gli occhi di quel bambino
che li aveva guardati per la prima volta.
Lo spettacolo era iniziato da allora, ma nessuno sapeva
ch’era già giunto all’ultimo atto.
«E quando ti trasferisci?» La voce raschiata della
Barista sembrava più isterica del solito.
«Partiamo dopodomani.»
«Hai già fatto le valigie?»
Annuì, continuando: «Mamma dice che fra qualche
giorno verranno anche a prendere i mobili.»
La Barista sospirò, ma non disse altro. Nicola non sapeva se
ciò fosse legato al fatto di non aver nulla
d’aggiungere o d'essere troppo impegnata a non lasciarsi
cogliere da una crisi di pianto. Aveva avvisato tutti, dal Capitano
Pucci a u’
Scazzamurried, e ognuno di loro aveva avuto una
reazione diversa, dalla tristezza della signora Fa che si era limitata
ad accarezzargli i capelli a quella più esagerata di Posta
che s’era convinto d'inviare una lettera a sua madre, nella
quale spiegava che la casa dove si sarebbero dovuti trasferire era
saltata in aria a causa d’un guasto alla bombola del gas.
Nicola era un ragazzino tranquillo e obbediente, ma quando la Barista
lo
accompagnò all’ingresso del locale in attesa che
arrivasse la madre, si sentì abbandonato e pianse,
ricordandosi ch’era giusto concedersi alle lacrime quando il
caso lo
richiedeva. E allora Mangiafuoco – ch’era tornato
nel pomeriggio – lo andò a trovare a casa sua,
prendendolo in giro e chiamandolo “poppantello da quattro
soldi”, ma chissà perché
le sue pupille
erano più lucide del solito, mentre Piedipiatti e Posta
battibeccavano tra di loro su chi dovesse salutarlo per primo. Il
Capitano Pucci gli disse d’essere in gamba e di non lasciarsi
calpestare dai nuovi compagni di classe. La signora Fa gli diede uno di
quei bouquet finti che vendeva al negozio, dicendogli che avrebbe
potuto tenerlo in un vaso accanto alla finestra. Bricconcello gli diede
una pacca dietro le spalle e gli fece un occhiolino – anche
se, e ben pensarci, forse era più un tic nervoso. Jackie
il
Rosso e il signor Noncorrorischi decisero di non litigare per quel
pomeriggio; il primo gli diede un buono per tutti i suoi futuri
spettacoli, il secondo una boccetta di fiori di Bach. U’
Scazzamurried, che non se la intendeva granché
bene con gli addii, gli
offrì un Cucciolone[⁷] con
sopra una simpatica vignetta di
Paperino, ch’era il suo personaggio preferito
perché non si sapeva mai cosa dicesse. Nicola comprendeva
ch’era il suo modo di salutarlo – anche
u’
Scazzamurried in fondo era un po’ come Paperino,
non si capiva mai bene cosa volesse comunicare.
Avevano tutti gli occhi gonfi e i sorrisi forzati, ma nessuno lo
salutò piangendo. Se ne rimasero lì, sotto
l’insegna impolverata del bar Sottocasa, e Nicola li
guardò dal finestrino del baule della Fiat 126 che si
allontanava sempre più velocemente, fino a quando
l’asfalto della strada non ingurgitò la scritta
malconcia e i volti di coloro che considerava i suoi più
cari amici.
Non
disse a nessuno di loro “addio”. Non ne ebbe il
coraggio, e forse fu proprio quella paura a fare in modo che potesse
afferrar le loro mani per un ultimo istante e salutarli come se dovesse
rivederli presto. In parte l’aveva fatto anche per loro,
affinché non si spaventassero di rimaner senza pubblico
ancora una volta.
Sperò
che in quel teatro chiamato vita potessero finalmente trovare le loro
battute e pronunciarle con fierezza e speranza, inchinandosi di fronte
allo scroscio di ovazioni per la commedia più sopra le righe
di tutte. Perché quelle persone, per lui, erano state
proprio questo: la messinscena più gaia e divertente, la
saga di commedianti allo sbaraglio più assurda di sempre,
nonché la più dolce, amorevole casa che potesse
sperare di trovare.
Avrebbe continuato a ricordarsi di loro persino da grande, quando
l’età adulta gli avrebbe svelato i trucchi dietro
le quinte. E anche in quel momento per lui non sarebbe cambiato nulla:
il bar Sottocasa era stato il palcoscenico con gli attori migliori, con
i sentimenti più veri; e le mani di Nicola avrebbero sempre
continuato ad esserci, sia per batterle che per tenderle verso di loro.
Perché era troppo triste pensare che non vi sarebbe stato
alcun applauso una volta calato il sipario.
FINE
NOTE:
[¹] Il
Gruppo Cimbali fu uno dei primi in Italia a dedicarsi alla
progettazione e alla produzione di macchine professionali per
caffè.
[²] Preferisco
chiarire: ho scelto consapevolmente di lasciare la lettera maiuscola
quando la barista viene identificata con l'articolo determinativo.
[³]
Modello di Motorola uscito per la prima volta intorno agli
anni Ottanta.
[⁴]
Una serie televisiva statunitense, di genere poliziesco, prodotta tra
il 1980 e il 1988.
[⁵] Riferimento
alla figura del Mangiafuoco de “Le avventure di Pinocchio.
Storia di un burattino”.
[⁶] Nella leggenda
popolare, u’
Scazzamurried dona monete d’oro o dà
indicazioni per un tesoro a chiunque abbia l’accortezza di
fargli dei doni, generalmente un paio di scarpe. La leggenda narra
anche come si possa ricattarlo, rubandogli il cappello a punta.
[⁷] Gelato
dell’Algida.
❝Angolino
di ℰver❞
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