Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Nonostante
non sia solita lasciare grandi note iniziali, vorrei ringraziare la
mia dolce Wendy_88 per essere sempre la prima a leggere e recensire i
miei capitoli. Motivo per cui, voglio dedicarle il paragrafo su Peter
Pan, la sua favola preferita.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
rosso per presenza di scene di natura sessuale parzialmente
esplicite
Personaggi
capitolo:
Brent e Sam
Capitolo
7
Il
mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica
militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.
La
Royal Air Force di Shawbury è stata la prima base aerea ad
accogliere giovani reclute da arruolare nell'aviazione militare
inglese.
Nacque
come accademia selettiva nel 1917, proprio a cavallo della prima
guerra mondiale. Ovviamente serviva un centro di addestramento che
potesse sfornare quanti più soldati possibili e all'epoca
Shawbury
poteva contare su una stazione aerea niente male. Venne chiusa
intorno agli anni venti a causa di una netta riduzione del personale,
per poi riaprire i battenti nel lontano 1938, sempre con scopo
accademico, ovvero organizzata per addestrare futuri aviatori per
l'aeronautica militare inglese. Parliamo della scuola di
addestramento di piloti militari più antica al mondo. Non
una tra le
tante, ma la
prima in assoluto.
Perciò,
sono piuttosto orgoglioso di poter dire di aver iniziato la mia
carriera da cadetto proprio lì. Se non fosse che,
ahimè, è durata
ben poco.
***
Giunto
sino a Shawbury, venni subito a conoscenza della dura realtà
dei
fatti: nessuno mi avrebbe appoggiato
in tutto questo. Il sergente Gamble non c'era più,
perciò addio
spalle coperte; ma prima di esso, avevo perso anche l'unico familiare
su cui poter fare affidamento. Al mondo, in quel momento, vi ero io e
solamente io.
Il
mio cellulare vibrò nella tasca dei miei pantaloni
proprio mentre mi accingevo ad aprire la grande cancellata di quel
nuovo posto. Estrassi il telefono e lessi il messaggio che avevo
appena ricevuto -spacca più culi che puoi-.
Sorrisi
divertito. Non ebbi neanche necessità di scoprire chi me lo
aveva
mandato, tanto già lo sapevo. Quel modo di fare
così sfacciato,
secco e graffiante potevano appartenere solamente ad una persona:
Sam.
-Verrai
a trovarmi?- le domandai istintivamente.
-Anche
domani- mi rispose senza esitazione.
Misi
il cellulare nuovamente in tasca e mi addentrai verso una nuova
esperienza.
Il
sergente Gamble mi aveva raccontato tante cose su quel posto. In
effetti ero abbastanza in fibrillazione perché finalmente
avrei
imparato a pilotare un aereo. Il mio sogno stava per esaudirsi e non
potevo che esserne felice.
Alla
fine, nonostante gli alti e bassi, ero giunto esattamente dove avevo
sempre sperato di arrivare.
L'inserimento
in accademia fu piuttosto traumatico. Se la U.K.M school poteva
apparire - ma giusto esternamente - un covo di fanatici militari,
Shawbury lo era senz'altro. I cadetti erano tutti con il capo rasato,
tipico taglio da soldato. All'epoca non avevo sicuramente il taglio
più alla moda tra i ragazzi e non ero un grande stimatore
dei miei
capelli, ma non vi nego che questo dover per forza uniformarmi agli
altri mi stava stretto. Ma purtroppo quelle erano le regole e non
potei fare
altro che abituarmi a dover sottostare a certe convenzioni stipulate
secoli prima, non so neanche io da chi.
Le
camerate erano terrificanti e per un istante ebbi nostalgia del mio
angusto bungalow. Strette e alte stanze completamente in cemento
senza alcuna rifinitura alle pareti. Letti a castello in ferro
battuto con un materasso alto poco più di cinque centimetri.
Pavimenti anch'essi in cemento perfettamente puliti e tirati a
lucido. Ogni letto era distanziato dal precedente da meno di un metro
di spazio. La mia prima impressione
fu che un claustrofobico non avrebbe mai e poi mai potuto
sopravvivere lì dentro. Non vi erano armadi, né
comodini o
tavolini, solo un grosso forziere che, nel mio immaginario, mi
riportò alla favola di Peter Pan. Ma qui non vi erano fatine
con la
polvere magica, né corsari dalle splendenti spade o bambini
sperduti
che potevano volare. Beh, in realtà un bambino sperduto che
–
almeno si spera – prima o poi avrebbe potuto volare c'era
eccome,
ed ero proprio io. Ma mi bastò uno sguardo a destra ed uno a
sinistra per ritrovare la mia stessa espressione spiazzata in altri
ragazzi. Lì, ora come ora, non ero l'unico bimbo sperduto. E
fui
preso alla sprovvista quando conobbi il mio compagno di letto.
-Piacere,
io sono Peter- mi disse allungando un braccio nella mia direzione.
Sorrisi.
Ero appena approdato all'isola che non c'è senza neanche
essermene
reso conto.
Le
prime due settimane trascorsero velocemente. Gli allenamenti, per
quanto sfiancanti potessero essere, non erano assolutamente
paragonabili a quelli proposti dal sergente Gamble. Mi accorsi subito
di essere un passo avanti a tutti i novellini del posto. E non ero
l'unico ad averlo notato.
Il
sergente del posto, un certo Bill O'Connel, iniziò a farmi
sgobbare
il doppio dicendomi che quella era l'ultima volontà di
Gamble.
Purtroppo,
però, come in ogni scuola che ho frequentato, mi ritrovai a
fronteggiare un paio di tipetti tutto fuorché amichevoli. Il
bullismo non è mai stato il mio forte. L'ho subito sin dalla
tenera
età per via della mancanza di una figura materna nella mia
vita,
alla U.K.S school, per via del rapporto quasi esclusivo che avevo con
il sergente Gamble ed ora qui, per via, ancora una volta,
dell'invidia che gli altri avevano nei miei confronti. Non volevo
apparire come il falso modesto della situazione, ma conoscevo bene le
mie abilità e ad alimentarle vi era questo forte desiderio
di poter
far avverare i miei sogni infantili. Perciò, ho sempre
puntato in
alto, anche quando la gente ha cercato di portarmi sul fondo. Non
tutti però riuscivano ad apprezzare i miei sforzi e a
comprendere
che se ero lì, ora, in quel momento, non era per merito di
terzi,
bensì per la mia capacità di sfruttare il mio
potenziale al
massimo.
Evans,
così si chiamava uno dei miei commilitoni, provava una seria
invidia
nei miei confronti. Eppure non ne aveva motivo: era il figlio del
colonnello in carica. Ma sapete come vanno queste situazioni,
nonostante il calcio in culo dato dal padre, Evans non era fatto per
l'esercito e arrancava per restare a galla. Il fatto che io, invece,
riuscissi in tutto ciò che facevo, gli dava noia. Provai
più volte
a spiegargli che non
era tanto una questione di dote, quanto di forza di volontà.
Io
volevo diventare un
pilota a tutti gli effetti,
era sempre stato il mio desiderio di infanzia. Per questo ci mettevo
tutto me stesso in ogni cosa che facevo. Lui invece era lì
giusto
per merito del padre e non per volontà propria.
Nonostante
i consueti momenti di litigio con questo soggetto, il resto procedeva
tutto bene.
Nel
frattempo, Sam era diventata la mia confidente, nonché
migliore
amica. Ci sentivamo moltissimo al telefono, spesso anche in
video-chiamata. I miei commilitoni mi reputavano molto fortunato, ma
la verità era che non mi permisi di rivelare loro il fatto
che Sam,
in realtà, fosse lesbica. Loro erano convinti che io stessi
con una
ragazza particolarmente perversa e ninfomane. La verità era
che loro
udivano solo parte delle mie chiamate, quei frangenti in cui Sam
rivelava di voler far certe cose proibite con me. Ma se io conoscevo
bene il suo essere diretta e, spesso, sarcastica, per loro era un
atteggiamento del tutto estraneo e tendevano spesso a prendere sul
serio ogni cosa che lei mi diceva.
-Mi
manca la tua compagnia- mi diceva spesso.
-E
a me manca la tua- le rispondevo io.
Nonostante
fossi consapevole di non attirarla fisicamente come poteva fare
invece una donna, le piacevo come persona. E a me bastava quello. Non
parlo di quel piacere carnale, legato esclusivamente al sesso. Lei mi
voleva bene, proprio come io ne volevo a lei. Forse aveva ragione lei
quando un tempo mi disse che io e lei eravamo un po' come fratello e
sorella.
-Sai,
Brent Smith, da quando sei andato via molti ragazzi vorrebbero
prendere il tuo posto- mi disse Sam un giorno ironizzando sulla sua
popolarità -sono diventata la puttana della scuola-.
-Non
sei una donnina dai facili costumi- risposi allentando la tensione
-al massimo puoi essere una ninfomane, ma solo con chi vuoi tu-.
-Giusto,
solo con chi ce l'ha più lungo di venti-tre centimetri-
scrisse lei
facendo seguire la sua espressione con una emoticon divertita.
-Sam!-
risposi cercando di dare quasi un tono di rimprovero alla mia voce.
La
conoscevo fin troppo bene. La sua era solamente una facciata. L'idea
di passare per la ragazza vogliosa che tentava di sedurmi con quel
suo modo estremo di fare, non faceva parte di lei per davvero.
Mi
reputo un uomo fortunato, perché ho avuto modo di conoscere
la vera
Sam, la ragazza di cui in parte posso dire di provare un amore
fraterno. So di ripetermi in tutto questo discorso, ma lei per me
è
stato un pilastro fondamentale. Negli ultimi due anni ha significato
moltissimo e mi ha insegnato ad amare in un modo del tutto singolare
e fuori da ogni canone. Ho amato sì una ragazza, una donna
meravigliosa, ma l'ho amata come un fratello ama la propria sorella.
E di nuovo si ritorna sul pensiero incestuoso che ho di lei. Che in
realtà non lo è, non abbiamo alcun legame di
sangue, ma vi è una
connessione estrema tra di noi.
***
Dovete
sapere che dietro la Sam disinibita e sboccata che avete conosciuto,
in realtà vi è una fragile crisalide delicata.
Già, che noia
penserete voi, con tutte queste metafore sulle farfalle.
Però lei è
ancora chiusa all'interno del suo bozzolo, alla ricerca del suo posto
nel mondo. Io, forse, l'ho trovato e devo ringraziare il sergente
Gamble per questo. Lei, purtroppo, non è stata altrettanto
fortunata.
***
Le
sue mani corsero veloci lungo i miei addominali, pregandomi ancora
una volta di trascinarla verso quel limbo peccaminoso che era l'unico
spettatore delle nostre notti insonni.
Ritrassi
la mano che ancora giaceva sul suo sodo sedere, fino ad avanzare su e
accogliere nel mio calore i suoi seni tiepidi. I capezzoli turgidi,
particolarmente ispessiti un po' per il freddo, un po' per il mio
tatto, vibrarono sotto l'eccitazione che Sam stava provando in quel
momento. Con i polpastrelli ne afferrai uno, stringendolo e
giocandoci un poco insieme. Era morbido e leggermente umido,
scivolava tra le mie dita con puro piacere, provocando in lei una
forma di eccitazione che la scuoteva in tutto il corpo.
Nonostante
la voglia di poter approfondire quel sentimento così
stimolante, Sam
prediligeva il conforto di un delicato tatto, infinito nei suoi
movimenti ed eterno nel tempo. A lei non piaceva consumare
quell'amore in fretta e furia, seppur l'idea di poterlo fare in
luoghi ostili o in momenti inopportuni la eccitava forse anche
più.
-Dai,
non smettere- mi disse prendendo la mia mano nella sua e portandola
giù verso la propria intimità.
Chiuse
gli occhi e si ritrasse all'indietro, quasi quel gesto l'aiutasse ad
assaporare ancora di più quel momento così
confidenziale.
Feci
ciò per cui ero stato chiamato a fare. Le feci provare
piacere, così
tanto piacere da farla godere come mai prima.
Quella
sera mi disse per la prima volta di volermi bene.
Non
ci siamo mai detti di amarci, perché alla fine
non era quello il sentimento che ci legava. Ci volevamo bene, ci
facevamo compagnia quando serviva, ci ascoltavamo e parlavamo tra di
noi come due vecchi amici. Niente di più. Io ero l'unico
uomo nella
sua vita che non aveva mai provato ad approfittare della sua bellezza
e del suo corpo, ed era proprio per questo motivo che lei era
attratta da me. Però era proprio nei momenti più
intimi che capivo
di aver difronte una ragazza che ostacolava la propria natura.
Riuscivo sì a farle provare piacere e a farle raggiungere
l'apice
del godimento, ma al contempo vi erano alcuni momenti che mi facevano
capire che lei si sentiva a disagio. Le piaceva essere toccata, le
piaceva quando io l'amavo carnalmente, quando entravo in lei e
spingevo con ardore il mio sesso contro il suo. Ma al contempo,
evitava sempre di guardare in basso e ogni qual volta facevamo sesso,
lei chiudeva gli occhi immaginandosi sicuramente ben altra
situazione. Si lasciava masturbare, ma non contraccambiava mai il mio
gesto. Non l'ho mai forzata in questo, perché sapevo di
metterla a
disagio. Ed era proprio questo disagio per il membro maschile che mi
fece capire quanto fosse attratta dal corpo femminile. Alla fine Sam
non era
altro che
una giovane donna alla scoperta della propria sessualità ed
io
potevo solo saziare la sua sete di piacere e assicurarmi che lei
stesse bene con me, senza costrizioni o imposizioni.
Il
poter contare
su di lei, in ogni caso, fu una cosa piacevole. Quando presi la
decisione di arruolarmi a Shawbury, ero quasi convinto di dover
mettere una pietra sopra il nostro rapporto. Non che vi fosse un
rapporto vero e proprio, per lo meno non era un rapporto esclusivo il
nostro. Lei mi assicurò che non avrebbe mai avuto un uomo al
di
fuori di me, ma conoscendo la sua inclinazione sessuale, tutto
ciò
mi fece sorridere. Ovviamente Sam non avrebbe mai avuto un altro uomo
all'infuori di me, d'altra parte era pur sempre lesbica.
Quando
anche Sam concluse il suo
percorso scolastico, il nostro legame si rafforzò
maggiormente.
Venne a trovarmi in un paio di occasioni, presentandosi ai miei
commilitoni come la mia amica di letto. Ormai non riuscivo neanche
più ad imbarazzarmi davanti alle sue battutine schiette, ero
abituato e, in un certo senso, ne ero ammaliato. Già,
perché sapevo
perfettamente che non avrei mai potuto trovare un'altra donna come
lei.
Persino
tutto ciò non andò a genio ad Evans. Ci
provò con Sam
spudoratamente e per di più innanzi a me. Uno sfacciato.
Finì per
ritrovarsi con un nove inches*
di scarpe stampato nelle parti basse. Sam non si era limitata a
renderlo sterile almeno momentaneamente, ma lo aveva persino messo in
ridicolo davanti a tutta l'accademia. Uno smacco per lui che,
purtroppo, non digerì facilmente.
Fu
così che, nel giro di pochi giorni, mi ritrovai sbattuto
fuori
dall'accademia. Secondo il codice penale articolo 336 e 337, venni
accusato di violenza e resistenza ad un pubblico ufficiale. I
commilitoni che quel giorno erano presenti alla scena, si ritrassero
come ricci innanzi alla presenza del padre di Evans, non solo
evitando di spalleggiarmi in una situazione in cui ovviamente ero
stato incastrato, ma dandogli persino manforte.
Fui
scioccato e disgustato da quell'accademia. Mi aspettavo di poter
affrontare una carriera eccellente al suo interno ed invece, a causa
del solito guastafeste di turno, mi ero ritrovato a tornare a casa
con la coda tra le gambe.
Il
rincasare fu più duro del previsto. Quello stabile, che
aveva
accolto la mia infanzia, appariva persino più grande e
più vuoto
del previsto. Quel weekend raccolsi ogni cornice appesa alle pareti e
la buttai violentemente nell'indifferenziata.
Sam
venne in mio soccorso, scusandosi su più fronti per
l'accaduto.
-Fidati,
non hai nulla di cui scusarti- le dissi mentre riempivo l'ennesimo
scatolone con dei vecchi vestiti di mio padre -Evans avrebbe trovato
comunque un modo per cacciarmi da lì, prima o poi-.
Lei
mi prese una mano e me la strinse forte nella sua, fino ad invitarmi
a perdermi nei suoi occhi chiari -per quel che vale, Brent, per me
rimani una persona meravigliosa-.
Sorrisi.
Era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Raccolsi
lo scatolone e lo imballati con un po' di nastro -questo direi che va
tra le cose da dare in donazione- dissi portandolo in salotto ed
accostandolo ad altri due scatoloni della medesima misura.
Mi
guardai soddisfatto. Innanzi a me vi erano raggruppati diverse
scatole. A destra vi erano le cose da buttare, in centro quelle da
donare e a sinistra i ricordi da conservare.
-Ed
ora che ne sarà di me?- dissi sottovoce osservando quei due
miseri
scatoloni sopravvissuti alla spazzatura.
-Io
in realtà un'idea ce l'avrei, Brent- mi disse Sam sorridendo.
La
guardai pormi un opuscolo e lo presi tra le mani fino ad aprirlo in
tre parti e leggere: Chitose Air Base.
-Hokkaido?-
domandai a Sam -seriamente?-.
Lei
ridacchiò divertita -sì, va bene, mi aspettavo
questa tua reazione.
Però non sottovalutare tutto ciò, voglio dire,
sei o non sei per
metà giapponese?-.
Sollevai
un sopracciglio. In effetti Sam non aveva tutti i torti. Ero pur
sempre nato a Tokyo, persino il mio certificato di nascita lo
attestava.
Guardai
Sam aizzare uno scatolone contenente libri di vario genere e
trascinarlo verso la sua macchina -questi li voglio io-.
-Libri?-
domandai scettico.
-Libri!-
rispose lei ben convinta -che c'è Smith, non ti sembro una
tipa da
libri?-.
Io
sorrisi divertito -assolutamente, secondo me tu non conosci barriere,
sei nata per fare qualsiasi cosa-.
Lei
appoggiò lo scatolone nel bagagliaio della sua auto per poi
girarsi
verso di me con occhioni dolci -dio, quanto sei smielato, Brent-.
Sghignazzai
aspettandomi una risposta simile da parte sua.
Mentre
lei era intenta ad incastrare lo scatolone all'interno della sua
piccola vettura, io guardai e riguardai meglio il volantino che mi
aveva dato. Chitose Air Base, non ne avevo mai sentito parlare. A
dirla tutta non sapevo nulla del Giappone o delle sue usanze.
Conoscevo poche parole, giusto perché Yoshiko me le aveva
insegnate
anni addietro. Sorrisi all'idea che forse, presto o tardi, avrei
potuto abitare nel suo stesso Paese.
Sam
arrivò di soppiatto innanzi a me e mi strappò il
volantino dalle
mani -entriamo, forza! Lo so che muori dalla voglia di sapere
qualcosa su questo posto-.
Le
sorrisi grato per tutto quello che stava facendo per me.
-Minimo
mi devi una cena e del buon sesso, sappilo!- rispose
schiaffeggiandomi contro il volantino e sorridendomi maliziosa.
Ridacchiai
divertito, annuendo senza indugio.
Nonostante
la mia connessione fosse piuttosto lenta, riuscii ugualmente a
recepire alcune informazioni circa l'accademia militare giapponese,
soprattutto grazie alla dote nascosta di Sam in informatica.
-Dunque,
a quanto pare il Giappone ha una divisione militare molto
particolare. Qui dice che esistono tre grandi gruppi di appartenenza:
la Rikujo,
Kaijo e Koku Jieitai,
ovvero fanteria, marina navale ed aeronautica- spiegò Sam
scorrendo
il dito sul monitor del proprio computer quasi volesse tenere il
segno di quanto letto.
-Quindi
io dovrei far richiesta alla Koku Jieitai, dico bene?- domandai
insicuro.
Sam
annuì e proseguì dicendo -pare che la base aerea
di Chitose si
trovi in Hokkaido, una delle otto regioni del Giappone, situata
direttamente a nord dell'isola principale dell'arcipelago nipponico,
Honshū- mi disse mostrandomi anche una cartina presa direttamente da
internet.
-Ma
è un aeroporto o un'accademia?- domandai incuriosito.
-Qui
dice che è una base aeronautica vera e propria, situata
vicino
all'aeroporto di New Chitose, con il quale si ritrova spesso a
cooperare e insieme al quale costituisce uno dei più grandi
centri
di volo presenti in tutto il Giappone- mi rispose Sam piuttosto
impressionata da quanto letto.
-Caspita...-
sussurrai quasi a corto di parole quando guardai le poche foto che
Sam riuscì a reperire di quel posto.
-Ora
vorrei solo capire come diavolo fare a...- biascicò Sam
quasi stesse
pensando ad altra voce -è tutto scritto con simboli assurdi-.
-Sono
caratteri kanji-
le dissi correggendola e beccandomi un sonoro schiaffo sul braccio.
-Allora
mister so-tutto-io, decifra questi geroglifici e cerca di capirne
qualcosa- mi disse scostandosi dal computer e invitandomi a prendere
il suo posto.
Mi
sedetti controvoglia davanti al computer, sicuro di non riuscire a
tradurre nulla di significativo, in quanto la mia conoscenza del
giapponese era veramente limitata. Notai però un numero di
telefono,
uno a caso, per intenderci, e decisi di chiamare, tanto non avevo
nulla da perdere in quel momento.
Mi
risposero in giapponese e il mio primo istinto fu quello di
interrompere subito la chiamata, ma Sam mi incitò a
proseguire la
telefonata, perciò dissi l'unica parola che mi veniva in
mente in
quel momento -sayonara**-.
-Konbanwa***-
mi rispose poco convinto un uomo al di là del globo.
-Io...
parla inglese?- domandai consapevole di non poter reggere un discorso
di senso compiuto in lingua giapponese.
-Sì,
signore- mi rispose l'uomo quasi ridendo.
Sospirai
sollevato e, grazie soprattutto all'appoggio morale di Sam, spiegai
per filo e per segno la mia posizione. L'uomo con cui ero al telefono
dovette rigirare la mia chiamata ad un suo superiore il quale mi
spiegò nel dettaglio come era organizzato il loro esercito e
come
funzionava la fase di arruolamento, invitandomi, come previsto, a
visitare l'accademia di persona. Inoltrarono poi la mia chiamata ad
un altro collega, il quale si occupava del reclutamento di nuovi
cadetti.
Quando
chiusi la telefonata avevo sì, le idee più
chiare, ma al contempo
mi sentivo quasi sfinito, come se quei cinquanta minuti trascorsi al
cellulare mi avessero prosciugato le energie.
-Quindi?-
domandò Sam di ritorno dopo essere uscita di casa per
raggiungere la
bancarella di fish
and chips
che vi era in fondo alla via -fame?-.
Mi
allungò un sacchettino di carta con al suo interno cipolle e
patatine fritte e pesce impanato.
Afferrai
con discrezione la mia cena e iniziai a mangiare raccontandole nel
frattempo tutto ciò che ero riuscito a scoprire -l'esercito
giapponese, a causa dell'imposizione dettata dalla costituzione
stipulata dopo la seconda guerra mondiale, ha scopi puramente
passivi. In poche parole il Giappone ha rinunciato per sempre
all'opportunità di dichiarare guerra ad altri Paesi.
Perciò
l'esercito non è come qui in Inghilterra che viene
utilizzato per
missioni militari offensive. Là viene impiegato solo per
scopi
difensivi e missioni umanitarie-.
Sam
alzò un sopracciglio -un esercito che non fa la guerra? No,
scusa,
ma perché?-.
Io
ridacchiai divertito -non è che non fa la guerra- le spiegai
cercando di memorizzare ogni spiegazione datami poco prima -devi
sapere che dopo la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale, al
Giappone fu imposto lo smantellamento dell'apparato militare. Motivo
per cui ha subito questo cambiamento così traumatico nel
post
guerra-.
Sam
annuì mentre addentava con voracità il suo fishburger
-e come pensi di fare con la lingua?-.
Mi
portai una mano al mento e risposi sicuro di me -appena vinta la
guerra, gli Stati Uniti hanno occupato il Giappone e hanno costruito
una serie di basi militari tutt'ora attive-.
-E
perciò laggiù si parla inglese senza alcun
problema- dedusse Sam
terminando il suo panino -tutto chiaro-.
-Perciò
ora come devi procedere?- domandò Sam afferrando alcune
delle mie
patatine e mangiandole sotto i miei occhi.
-Quelle
erano mie- dissi puntandole il dito contro.
Lei
mi rispose con una linguaccia, rubandomi ancora una mangiata di
patatine dal piatto.
-Perciò
ora come devi procedere?- domandò Sam nuovamente sfidandomi
con lo
sguardo.
Assottigliai
gli occhi fino a quasi chiuderli per poi rispondere stizzito -hanno
richiesto alcune scartoffie preliminari per valutare la mia
preparazione, poi mi contatteranno per procedere con un colloquio
conoscitivo e, se tutto va bene, mi inviteranno in Giappone per dei
test attitudinali e fisici-.
-Quindi
te ne andrai- disse con tono malinconico.
-Non
è detto- mi avvicinai a lei sorridendo -non vorrai certo
farmi
credere che sei triste per la mia partenza-.
-Finalmente
ti levi dalle scatole una volta per tutte!- rispose lei alzandosi dal
tavolo e appoggiando i piatti nel lavandino.
Sam
in quel momento non voleva darlo a vedere, ma era veramente triste
per la mia dipartita. Perciò mi alzai dal tavolo per
raggiungerla e
l'abbracciai da dietro.
-Ti
voglio bene, Sam- le sussurrai all'orecchio.
-Idiota
che non sei altro- sbraitò lei allontanandomi da
sé -lo sai che
odio queste smancerie-.
Ridacchiai
divertito per la sua reazione, afferrandola ancora una volta e
trascinandola verso di me -te l'ho mai detto che sei particolarmente
carina quando ti arrabbi?-.
-Ed
io te l'ho mai detto che con la gonna ed i tacchi saresti proprio un
bel figurino?- mi rispose lei cercando di mantenere intatta la sua
corazza.
Sorrisi
e le accarezzai il viso, scostandole una ciocca dal volto -mi
mancherai, Sam Elliots- le dissi guardandola poi fissa negli occhi.
-Sei
un cretino...- disse lei di getto, girando il volto a sinistra e
cercando quasi di mascherare la sua espressione sgomenta.
Spostai
la mano dalla guancia fino al mento, costringendola a reggere il mio
sguardo e guardarmi dritto negli occhi -ti voglio bene anche io- le
risposi.
Sapevo
bene cosa stava passando in quel momento. Lei era fatta
così, non lo
dava a vedere, ma era ovvio che la mia decisione l'aveva realmente
turbata. Eppure era stata lei ad incitarmi a seguire questo percorso
alternativo.
I
suoi occhi languidi mi penetrarono dritto al cuore. Sentii come una
tenaglia stringermi forte il petto.
Quella
notte l'amai come mai prima d'ora. L'amai in ogni modo possibile,
donandole tutto me stesso e facendole provare ogni sorta di piacere.
L'amai come se non ci fosse un domani per noi, perché in
effetti fu
così. Quello fu un addio a tutti gli effetti.
Non
vi fu un domani per noi perché, a distanza di pochi giorni,
venni
contattato dalla Chitose Air Base poiché ritenuto idoneo ad
affrontare i tanto temuti test di ingresso.
Nel
breve giro di una settimana, quindi, mi ritrovai a mollare ancora una
volta ciò che conoscevo e più mi era familiare,
per salpare alla
rotta dell'ignoto.
Se
per ormai quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in
Inghilterra, secondo regole specifiche, parlando una lingua
conosciuta sin dalla nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a
dover intraprendere un viaggio verso tutto ciò che mi era
estraneo,
ma che per metà mi apparteneva, alla ricerca della
felicità. Perché
sì, per me diventare un pilota era un po' come raggiungere
l'apice
della felicità.
*
nove inches come unità di misura, corrisponde ad un numero
trentasei
di scarpe italiane.
**
addio
***
buonasera
|