Capitolo otto
CAPITOLO OTTO
“Insomma, avevo deciso
di iniziare
a rovistare nell’immondizia
del mio presente,
invece di morire di
fame in ricordo
del mio passato”.
Marco Verzè.
“Molte persone si perdono
le piccole gioie
nella speranza della
grande felicità”.
Pearl S. Buck.
Ho notato, durante il corso della mia quasi breve esistenza,
che l’errore umano più commesso è quello di… non sapersi distaccare dal
passato.
Esatto, proprio così! Ho visto tantissimi uomini e tantissime
donne rimasti tutti intrappolati nelle nebbie di anni e anni fa, quando
avrebbero potuto prendere un treno, o anche perderlo. A vivere di rimorsi. Di
paure, di dubbi, di pentimenti.
Ma quanto è elaborata la mente umana? Così tanto da riuscire
a restare intrappolata in questa tela di ragno che essa stessa crea. E come un
loop, nella nostra testolina si ripete quella stessa sequenza di immagini.
Non fraintendetemi, anche io appunto sono stato a lungo in
questa prigione… fintanto che ho notato che davanti a me si estende una
porzione infinitesimale di tempo, ma giusto sufficiente per essere definita
futuro.
E il presente, che scorre continuamente e noi non riusciamo
ad afferrarlo? Terribile.
Ho così compreso che in fondo questa ripetizione mentale è
appunto un meccanismo di protezione della nostra mente, affinché non
commettiamo mai più quel medesimo errore, piccolo o grande che sia; ma è
necessario riuscire a svicolarsi da esso, altrimenti non riusciamo più a vivere
serenamente. E il futuro ci sembra più breve, cosa non vera, come il presente
ci appare oscuro, falsato dai nostri ragionamenti ingannevoli.
Uscire dalla tela del ragno è possibile? Tante mosche nella
realtà ci riescono ogni giorno.
Tra noi, tanti ci riusciranno, ma tantissimi altri no. E non
posso far a meno di pensare continuamente a quelle persone, e anche a me
stesso, che con la mia testa non ho mai avuto un gran rapporto di fiducia.
L’importante è ricordare sempre che il passato si può
cambiare; certo, noi non abbiamo la macchina del tempo a disposizione e non
possiamo tornare indietro per cambiare un singolo evento, però possiamo fare in
modo di rendere il presente e il futuro più agevoli.
Sbagliando s’impara, è vero questo detto. Il presente è pieno
di occasioni e il futuro deve ancora offrirci tantissimo; riscattiamoci,
allora! Possiamo ancora fare bene e mettere una pietra sopra ai ricordi
pesanti.
Ci sono tanti treni ogni giorno, buttiamoci.
Non nei binari, per carità, ma a capofitto in qualche comodo
vagone. Non sarà come quella volta e non cambieremo quell’evento, ma apriremo
una nuova strada, una nuova pista; avremo una nuova occasione.
Così mi piace pensare, mentre resto immerso nella mia
costante immobilità. La mia stazione per fortuna è sempre vuota, ma al primo
treno che m’ispira fiducia, quasi quasi… salto su.
Il mattino seguente,
Ramsey chiede come stanno procedendo le indagini.
“Niente di rilevante”
rispondo.
Lui mi rivolge uno
sguardo indagatore, con tanto di sopracciglio destro inarcato.
“In che senso?”
“Nel senso che per
adesso non è emerso altro rispetto alle precedenti deposizioni”.
“Sembra anche a lei,
allora, che non ci sia altro da aggiungere alla faccenda” la sua appare come
un’affermazione, non come una domanda, “forse sarebbe giusto tornare ad
archiviare il caso”.
“Ho rimasto solo da far
visita all’ospedale dove il senatore è stato ricoverato per un paio d’ore, e
temo che, in effetti, non si possa scoprire niente di nuovo” replico, realista.
“Allora faccia del suo
meglio, agente Barley. Ma faccia anche in modo che questo caso si concluda
molto presto, se è proprio così inutile. Sa, il suo lavoro in ufficio l’attende…”
Indignato dal
comportamento del mio superiore, mi accingo a presentarmi nell’immensa
struttura ospedaliera di Columbus.
L’edificio è immenso e
si dirama per centinaia e centinaia di metri sopra e sotto terra, una sorta di
vastissimo raccoglitore per tutti gli ammalati della metropoli. Mi sento
scoraggiato e impotente al suo cospetto, consapevole che lì dentro nessuno si
ricorderà di Stradford, considerando la mole di lavoro e il via vai continuo di
degenti.
In cuor mio desidero di
scovare una nuova pista da seguire, poiché inizio a prenderci gusto, però mi
accingo anche a rassegnarmi al tornare tra mille scartoffie, a fare la figura
del vecchio babbione che ormai attende solo il pensionamento.
La mia voglia di
rivalsa e di dimostrare che valgo qualcosa continua però a cozzare contro la
consapevolezza di stare affrontando un caso praticamente chiuso. Con un
profondo sospiro, varco la grande soglia del centro ospedaliero.
Non ci capisco niente.
Qua dentro hanno ritmi
ubriacanti, la gente corre da tutte le parti; infermieri e medici con il
fiatone, persone sanguinanti o doloranti che si straziano nei lunghissimi e
ampi corridoi, in attesa di un primo e tempestivo soccorso.
Mi passo una mano sulla
fronte, mentre sono sempre più confuso.
A un certo punto cerco
di aggrapparmi a una tizia in camice blu che mi affianca all’improvviso.
“Mi scusi…”.
“Il servizio
informazioni è attivo, in fondo a destra…” tira dritto, e le sue parole mi
giungono confuse e sempre più distanti. Non ho speranze in un posto del genere.
Non appena riesco a
risalire al reparto di terapia intensiva in cui per un brevissimo periodo ha
soggiornato l’anziano senatore, la delusione guadagna altro terreno.
Là nessuno sa offrire risposte,
mi è concesso parlare solo con il primario.
Il medico è un signore
di una certa età, calvo e sudaticcio. La sua espressione stanca e scocciata
riflette bene ciò che sta probabilmente provando per il fatto che la polizia
sia tornata a indagare su quel caso che ormai tutti davano per chiuso.
“Non ho nulla da
aggiungere al caso, mi dispiace” afferma immediatamente dopo le presentazioni.
Non ha tempo, tutti lo chiamano e diversi infermieri si affacciano di continuo
nel suo piccolo ambulatorio.
“So che ha da fare, ma
la prego, parliamone un attimo” tento di frenarlo. L’uomo, tuttavia, non
dimostra nessun evidente interesse a collaborare, anzi.
“Mi dispiace, ma io
quel paziente nemmeno l’ho visto” ammette in modo sconfortante, “come può
vedere abbiamo un gran via vai continuo e le persone e i casi si sovrappongono
nella memoria collettiva. Se preferisce, chiedo all’infermiera di prepararle il
suo referto, ma più di così non posso fare”.
“La ringrazio, allora.
Vada pure da chi ha bisogno” lo congedo. La relazione clinica l’ho già
consultata, ed è già stata depositata da tempo.
Come purtroppo avevo
previsto fin dall’inizio, la via delle nuove informazioni mi è stata preclusa
in quel luogo caotico.
Mi allontano anche io,
mentre il primario va per la sua strada. Non vedo l’ora di lasciarmi alle
spalle quell’ospedale frenetico.
Di nuovo in strada, mi
ritrovo a smettere di trattenere il fiato. Sono un po’ scosso, ho il forte
presentimento che presto perderò il mio ruolo. Immagino già il verdetto di Ramsey.
Sto già per
telefonargli; resto per un solo istante a guardare lo schermo illuminato del
mio cellulare, prima di recuperare il suo numero dalla rubrica. Mi scoccia,
punto.
Tuttavia, si vede che
il destino ha altre strade riservate a me, poiché il mio telefono inizia a
squillare un solo istante prima di premere sul cognome del mio superiore.
Rispondo
immediatamente, anche se il numero è sconosciuto.
“Agente Barley?”
Una voce femminile
irrompe appena accetto la chiamata in entrata. Stento per un istante a
riconoscerla.
“Sì”.
“Sono la figlia del
senatore Stradford, Angelina, spero si ricordi di me” si presenta. Eccome, se
mi ricordo di lei!
“Certo, signorina, che
domande”.
“Dovrei chiederle un
grande favore, agente speciale” e ricalca sull’ultima parola. Evidentemente
vuole lusingarmi.
“Nei limiti del
possibile”.
“Certamente” e sospira,
“ho parcheggiato a fianco della sua volante, se per favore può raggiungermi. La
ringrazio” non mi lascia il tempo per aggiungere qualcosa che ha già riagganciato.
Resto interdetto dalla
sua frettolosità, ma soprattutto per il fatto che ha dimostrato di avere il mio
numero di telefono. Cosa sta succedendo? Perché mi vuole vedere? Tante sono le
domande che mi frullano in testa mentre affronto l’unica alternativa che mi
rimane, e cioè quella di tornare alla mia volante.
Infatti noto subito che
l’automobile parcheggiata a fianco di quella della polizia è già in moto, e
quando la conducente nota la mia figura in avvicinamento fa retromarcia ed apre
lo sportello del passeggero.
Angelina mi attende,
seria, appoggiata con noia sul volante.
“Prego, agente” mi
invita a salire sulla sua Opel, tra l’altro anonima e di vecchio modello.
“Mi dispiace, devo
andare in centrale. Se le va, mi parli adesso” le dico. Non voglio salire su
quell’auto.
“Non faccia
l’antipatico, i suoi colleghi potranno di certo aspettarla”.
Batte la mano sinistra
sul sedile del passeggero.
Di fronte alla sua
insistenza, cedo e salgo.
“Facciamo una
passeggiata?” chiedo, cercando di mostrare un pizzico di ironia, ma in realtà
sono tesissimo, mentre mi allaccio la cintura di sicurezza e il mezzo sfreccia
via dal parcheggio.
“Mi faccia il favore di
essere serio” mi riprende, seppur con educazione, “io già la stimo molto e so
che è una persona così intelligente da comprendere che di questo incontro è
meglio non parlarne con i superiori. Così ci facciamo un giro in macchina,
giusto per scambiare due parole”.
“Non so con quali persone
lei è abituata a trattare, signorina, ma io rappresento la Legge e se conta di
sequestrarmi, sia anche solo per una mezz’ora, be’, mi costringe a prendere
provvedimenti” rispondo seriamente.
Certo, Ramsey non
sarebbe di certo contento di sapere che la donna non solo ha preso contatti con
me ma mi sta pure conducendo dove vuole lei, in macchina. Resto di sasso però
quando noto che rallenta e si volge verso di me, il viso trasformato in una
maschera colma di tristezza. Le lacrime iniziano proprio ora a sgorgare a
fiotti e a scorrere lungo le guance.
“E’ la disperazione che
mi spinge a ciò. Vede? Guardi come sono ridotta. Una ragazza giovane come me,
che piange senza sosta per quello che hanno fatto a suo padre. Morirò presto,
se continua così”.
“Signorina, al momento
le posso garantire che non c’è nessun indizio che confermi un qualche
intervento umano nella tragica e rapida fine di suo padre…”.
Mi interrompe con un
sonoro singhiozzo.
“Invece le garantisco
che l’hanno fatto fuori, poi hanno insabbiato tutto”.
“Se ciò è accaduto, e
ne è così sicura, mi offra uno straccio di prova”.
La donna imbuca una
delle poche viuzze strette di Columbus, nella parte più vecchia della città. Lo
fa per rallentare ancora di più, noto come si sta emozionando man mano.
“Per ora non posso, ma
mi deve promettere, per favore, che farà di tutto per non far archiviare il
caso. Sa che questa sarà l’ultima occasione in cui mio padre potrà avere
giustizia. La prego, io farò ogni cosa pur di aiutarla a trovare prove utili,
ma non faccia morire le mie ultime speranze”.
La donna ora piange. Mi
sembra sincera e quasi mi commuovo.
“Non deve interferire
mai più nelle indagini, intesi? Sta correndo un grave rischio. Se continua
così, sarà lei stessa a far archiviare il caso”.
“Prometto maggior
discrezione, agente speciale”.
La signorina guida più
rapidamente e torna indietro al primo crocevia, riportandomi verso il
parcheggio dell’ospedale.
“Non perda la testa,
ora è in buone mani. Non sono che una pulce in confronto ai miei superiori, ma
so di essere un uomo giusto. Se c’è qualcosa da scoprire, lo scoprirò” le
garantisco, quasi mettendomi la mano sul cuore.
Pare apprezzare quelle
mie parole così risolute.
“La ringrazio” afferma,
“la ringrazio con tutto il mio cuore”.
Tornati al parcheggio
dove mi ha raccattato, apro lo sportello e cerco di sbrigarmi ad allontanarmi
da lei.
“Sono stata cauta, di
solito mi sposto solo in limousine, agente” sogghigna per la prima volta, e
mentre richiudo lo sportello, avverto di nuovo la sua voce. “Qualcuno le sarà
sempre alle spalle, a proteggerla e ad aiutarla…”.
Mi volto, colpito da
quelle parole, e vorrei riaprire la portiera e chiedere maggiori spiegazioni,
ma già l’automobile sgomma via.
So che forse mi sono
messo in un ginepraio; la signorina conta veramente su di me e sta rischiando
tanto. Non dovrebbe farlo.
Magari però si è
inventata tutto per motivarmi, magari appunto è un po’ pazza, viziata com’è
sempre stata.
Sperando che nessuno
abbia notato il nostro incontro, vado alla mia volante e mi accingo ad andare a
riferire l’inutile aggiornamento ottenuto presso l’immensa struttura
ospedaliera.
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