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Autore: alessandroago_94    15/06/2020    14 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo otto

CAPITOLO OTTO

 

 

 

 

 

 

 

 

“Insomma, avevo deciso di iniziare

a rovistare nell’immondizia del mio presente,

invece di morire di fame in ricordo

del mio passato”.

Marco Verzè.

 

“Molte persone si perdono le piccole gioie

nella speranza della grande felicità”.

Pearl S. Buck.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho notato, durante il corso della mia quasi breve esistenza, che l’errore umano più commesso è quello di… non sapersi distaccare dal passato.

Esatto, proprio così! Ho visto tantissimi uomini e tantissime donne rimasti tutti intrappolati nelle nebbie di anni e anni fa, quando avrebbero potuto prendere un treno, o anche perderlo. A vivere di rimorsi. Di paure, di dubbi, di pentimenti.

Ma quanto è elaborata la mente umana? Così tanto da riuscire a restare intrappolata in questa tela di ragno che essa stessa crea. E come un loop, nella nostra testolina si ripete quella stessa sequenza di immagini.

Non fraintendetemi, anche io appunto sono stato a lungo in questa prigione… fintanto che ho notato che davanti a me si estende una porzione infinitesimale di tempo, ma giusto sufficiente per essere definita futuro.

E il presente, che scorre continuamente e noi non riusciamo ad afferrarlo? Terribile.

Ho così compreso che in fondo questa ripetizione mentale è appunto un meccanismo di protezione della nostra mente, affinché non commettiamo mai più quel medesimo errore, piccolo o grande che sia; ma è necessario riuscire a svicolarsi da esso, altrimenti non riusciamo più a vivere serenamente. E il futuro ci sembra più breve, cosa non vera, come il presente ci appare oscuro, falsato dai nostri ragionamenti ingannevoli.

Uscire dalla tela del ragno è possibile? Tante mosche nella realtà ci riescono ogni giorno.

Tra noi, tanti ci riusciranno, ma tantissimi altri no. E non posso far a meno di pensare continuamente a quelle persone, e anche a me stesso, che con la mia testa non ho mai avuto un gran rapporto di fiducia.

L’importante è ricordare sempre che il passato si può cambiare; certo, noi non abbiamo la macchina del tempo a disposizione e non possiamo tornare indietro per cambiare un singolo evento, però possiamo fare in modo di rendere il presente e il futuro più agevoli.

Sbagliando s’impara, è vero questo detto. Il presente è pieno di occasioni e il futuro deve ancora offrirci tantissimo; riscattiamoci, allora! Possiamo ancora fare bene e mettere una pietra sopra ai ricordi pesanti.

Ci sono tanti treni ogni giorno, buttiamoci.

Non nei binari, per carità, ma a capofitto in qualche comodo vagone. Non sarà come quella volta e non cambieremo quell’evento, ma apriremo una nuova strada, una nuova pista; avremo una nuova occasione.

Così mi piace pensare, mentre resto immerso nella mia costante immobilità. La mia stazione per fortuna è sempre vuota, ma al primo treno che m’ispira fiducia, quasi quasi… salto su.

 

Il mattino seguente, Ramsey chiede come stanno procedendo le indagini.

“Niente di rilevante” rispondo.

Lui mi rivolge uno sguardo indagatore, con tanto di sopracciglio destro inarcato.

“In che senso?”

“Nel senso che per adesso non è emerso altro rispetto alle precedenti deposizioni”.

“Sembra anche a lei, allora, che non ci sia altro da aggiungere alla faccenda” la sua appare come un’affermazione, non come una domanda, “forse sarebbe giusto tornare ad archiviare il caso”.

“Ho rimasto solo da far visita all’ospedale dove il senatore è stato ricoverato per un paio d’ore, e temo che, in effetti, non si possa scoprire niente di nuovo” replico, realista.

“Allora faccia del suo meglio, agente Barley. Ma faccia anche in modo che questo caso si concluda molto presto, se è proprio così inutile. Sa, il suo lavoro in ufficio l’attende…”

 

Indignato dal comportamento del mio superiore, mi accingo a presentarmi nell’immensa struttura ospedaliera di Columbus.

L’edificio è immenso e si dirama per centinaia e centinaia di metri sopra e sotto terra, una sorta di vastissimo raccoglitore per tutti gli ammalati della metropoli. Mi sento scoraggiato e impotente al suo cospetto, consapevole che lì dentro nessuno si ricorderà di Stradford, considerando la mole di lavoro e il via vai continuo di degenti.

In cuor mio desidero di scovare una nuova pista da seguire, poiché inizio a prenderci gusto, però mi accingo anche a rassegnarmi al tornare tra mille scartoffie, a fare la figura del vecchio babbione che ormai attende solo il pensionamento.

La mia voglia di rivalsa e di dimostrare che valgo qualcosa continua però a cozzare contro la consapevolezza di stare affrontando un caso praticamente chiuso. Con un profondo sospiro, varco la grande soglia del centro ospedaliero.

 

Non ci capisco niente.

Qua dentro hanno ritmi ubriacanti, la gente corre da tutte le parti; infermieri e medici con il fiatone, persone sanguinanti o doloranti che si straziano nei lunghissimi e ampi corridoi, in attesa di un primo e tempestivo soccorso.

Mi passo una mano sulla fronte, mentre sono sempre più confuso.

A un certo punto cerco di aggrapparmi a una tizia in camice blu che mi affianca all’improvviso.

“Mi scusi…”.

“Il servizio informazioni è attivo, in fondo a destra…” tira dritto, e le sue parole mi giungono confuse e sempre più distanti. Non ho speranze in un posto del genere.

 

Non appena riesco a risalire al reparto di terapia intensiva in cui per un brevissimo periodo ha soggiornato l’anziano senatore, la delusione guadagna altro terreno.

Là nessuno sa offrire risposte, mi è concesso parlare solo con il primario.

Il medico è un signore di una certa età, calvo e sudaticcio. La sua espressione stanca e scocciata riflette bene ciò che sta probabilmente provando per il fatto che la polizia sia tornata a indagare su quel caso che ormai tutti davano per chiuso.

“Non ho nulla da aggiungere al caso, mi dispiace” afferma immediatamente dopo le presentazioni. Non ha tempo, tutti lo chiamano e diversi infermieri si affacciano di continuo nel suo piccolo ambulatorio.

“So che ha da fare, ma la prego, parliamone un attimo” tento di frenarlo. L’uomo, tuttavia, non dimostra nessun evidente interesse a collaborare, anzi.

“Mi dispiace, ma io quel paziente nemmeno l’ho visto” ammette in modo sconfortante, “come può vedere abbiamo un gran via vai continuo e le persone e i casi si sovrappongono nella memoria collettiva. Se preferisce, chiedo all’infermiera di prepararle il suo referto, ma più di così non posso fare”.

“La ringrazio, allora. Vada pure da chi ha bisogno” lo congedo. La relazione clinica l’ho già consultata, ed è già stata depositata da tempo.

Come purtroppo avevo previsto fin dall’inizio, la via delle nuove informazioni mi è stata preclusa in quel luogo caotico.

Mi allontano anche io, mentre il primario va per la sua strada. Non vedo l’ora di lasciarmi alle spalle quell’ospedale frenetico.

 

Di nuovo in strada, mi ritrovo a smettere di trattenere il fiato. Sono un po’ scosso, ho il forte presentimento che presto perderò il mio ruolo. Immagino già il verdetto di Ramsey.

Sto già per telefonargli; resto per un solo istante a guardare lo schermo illuminato del mio cellulare, prima di recuperare il suo numero dalla rubrica. Mi scoccia, punto.

Tuttavia, si vede che il destino ha altre strade riservate a me, poiché il mio telefono inizia a squillare un solo istante prima di premere sul cognome del mio superiore.

Rispondo immediatamente, anche se il numero è sconosciuto.

“Agente Barley?”

Una voce femminile irrompe appena accetto la chiamata in entrata. Stento per un istante a riconoscerla.

“Sì”.

“Sono la figlia del senatore Stradford, Angelina, spero si ricordi di me” si presenta. Eccome, se mi ricordo di lei!

“Certo, signorina, che domande”.

“Dovrei chiederle un grande favore, agente speciale” e ricalca sull’ultima parola. Evidentemente vuole lusingarmi.

“Nei limiti del possibile”.

“Certamente” e sospira, “ho parcheggiato a fianco della sua volante, se per favore può raggiungermi. La ringrazio” non mi lascia il tempo per aggiungere qualcosa che ha già riagganciato.

Resto interdetto dalla sua frettolosità, ma soprattutto per il fatto che ha dimostrato di avere il mio numero di telefono. Cosa sta succedendo? Perché mi vuole vedere? Tante sono le domande che mi frullano in testa mentre affronto l’unica alternativa che mi rimane, e cioè quella di tornare alla mia volante.

Infatti noto subito che l’automobile parcheggiata a fianco di quella della polizia è già in moto, e quando la conducente nota la mia figura in avvicinamento fa retromarcia ed apre lo sportello del passeggero.

Angelina mi attende, seria, appoggiata con noia sul volante.

“Prego, agente” mi invita a salire sulla sua Opel, tra l’altro anonima e di vecchio modello.

“Mi dispiace, devo andare in centrale. Se le va, mi parli adesso” le dico. Non voglio salire su quell’auto.

“Non faccia l’antipatico, i suoi colleghi potranno di certo aspettarla”.

Batte la mano sinistra sul sedile del passeggero.

Di fronte alla sua insistenza, cedo e salgo.

“Facciamo una passeggiata?” chiedo, cercando di mostrare un pizzico di ironia, ma in realtà sono tesissimo, mentre mi allaccio la cintura di sicurezza e il mezzo sfreccia via dal parcheggio.

“Mi faccia il favore di essere serio” mi riprende, seppur con educazione, “io già la stimo molto e so che è una persona così intelligente da comprendere che di questo incontro è meglio non parlarne con i superiori. Così ci facciamo un giro in macchina, giusto per scambiare due parole”.

“Non so con quali persone lei è abituata a trattare, signorina, ma io rappresento la Legge e se conta di sequestrarmi, sia anche solo per una mezz’ora, be’, mi costringe a prendere provvedimenti” rispondo seriamente.

Certo, Ramsey non sarebbe di certo contento di sapere che la donna non solo ha preso contatti con me ma mi sta pure conducendo dove vuole lei, in macchina. Resto di sasso però quando noto che rallenta e si volge verso di me, il viso trasformato in una maschera colma di tristezza. Le lacrime iniziano proprio ora a sgorgare a fiotti e a scorrere lungo le guance.

“E’ la disperazione che mi spinge a ciò. Vede? Guardi come sono ridotta. Una ragazza giovane come me, che piange senza sosta per quello che hanno fatto a suo padre. Morirò presto, se continua così”.

“Signorina, al momento le posso garantire che non c’è nessun indizio che confermi un qualche intervento umano nella tragica e rapida fine di suo padre…”.

Mi interrompe con un sonoro singhiozzo.

“Invece le garantisco che l’hanno fatto fuori, poi hanno insabbiato tutto”.

“Se ciò è accaduto, e ne è così sicura, mi offra uno straccio di prova”.

La donna imbuca una delle poche viuzze strette di Columbus, nella parte più vecchia della città. Lo fa per rallentare ancora di più, noto come si sta emozionando man mano.

“Per ora non posso, ma mi deve promettere, per favore, che farà di tutto per non far archiviare il caso. Sa che questa sarà l’ultima occasione in cui mio padre potrà avere giustizia. La prego, io farò ogni cosa pur di aiutarla a trovare prove utili, ma non faccia morire le mie ultime speranze”.

La donna ora piange. Mi sembra sincera e quasi mi commuovo.

“Non deve interferire mai più nelle indagini, intesi? Sta correndo un grave rischio. Se continua così, sarà lei stessa a far archiviare il caso”.

“Prometto maggior discrezione, agente speciale”.

La signorina guida più rapidamente e torna indietro al primo crocevia, riportandomi verso il parcheggio dell’ospedale.

“Non perda la testa, ora è in buone mani. Non sono che una pulce in confronto ai miei superiori, ma so di essere un uomo giusto. Se c’è qualcosa da scoprire, lo scoprirò” le garantisco, quasi mettendomi la mano sul cuore.

Pare apprezzare quelle mie parole così risolute.

“La ringrazio” afferma, “la ringrazio con tutto il mio cuore”.

Tornati al parcheggio dove mi ha raccattato, apro lo sportello e cerco di sbrigarmi ad allontanarmi da lei.

“Sono stata cauta, di solito mi sposto solo in limousine, agente” sogghigna per la prima volta, e mentre richiudo lo sportello, avverto di nuovo la sua voce. “Qualcuno le sarà sempre alle spalle, a proteggerla e ad aiutarla…”.

Mi volto, colpito da quelle parole, e vorrei riaprire la portiera e chiedere maggiori spiegazioni, ma già l’automobile sgomma via.

So che forse mi sono messo in un ginepraio; la signorina conta veramente su di me e sta rischiando tanto. Non dovrebbe farlo.

Magari però si è inventata tutto per motivarmi, magari appunto è un po’ pazza, viziata com’è sempre stata.

Sperando che nessuno abbia notato il nostro incontro, vado alla mia volante e mi accingo ad andare a riferire l’inutile aggiornamento ottenuto presso l’immensa struttura ospedaliera.

   
 
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