Nell’attesa
di un nome
Sono
già trascorsi quattro giorni da quell’orrenda notte. La
notizia positiva è che il ladro è ancora vivo (da quel
poco che ha potuto apprendere seguendo gli sproloqui del chirurgo, il
proiettile ha colpito il femore, fratturandolo, ma nessun vaso
sanguinino importante). Quella negativa… A voler essere onesti
le notizie negative abbondano: la prima è che quel furfante
non si è ancora risvegliato; la seconda che, nonostante gli
sforzi dell’Ispettore e della sua squadra, coloro che hanno
messo in atto l’attentato erano e rimangono ignoti; e poi la
terza, ovviamente, è che il prefetto Machaux è molto
scontento di lui, perché non solo si è lasciato
sfuggire il ladro, con la banda al completo e tutta la refurtiva
annessa, ma ha persino coinvolto civili ed esterni nella sua
disavventura, rischiando di lasciarsi alle spalle qualche morto, e
l’opinione pubblica non avrebbe preso bene tale notizia.
“Sì,
certo, l’opinione pubblica” pensa con cinica acidità.
Come se fossero quelli i suoi peggiori problemi. E la gente poco
raccomandabile munita di fucili che voleva fargli la pelle e che è
ancora in giro a piede libero? Ne vogliamo parlare? Ganimard,
sinceramente, dubita che abbiano cambiato idea. Troveranno di sicuro
un’altra occasione o un altro metodo per cercare di stanarlo e
mandarlo al campo santo. Di fatti negli ultimi giorni, se non va a
spasso con i suoi uomini, fa in modo di restare bene in vista e in
luoghi sicuri, così da non offrire troppi spiragli né
opportunità. Non che il prefetto sia particolarmente in
pensiero per l’incolumità del suo Ispettore Capo, sia
chiaro; ma ci pensa il suddetto a essere in pensiero per sé
stesso, e tanto basta. Così ha finito con il dare qualche
settimana di ferie alla sua governante, e il tempo che non passa di
pattuglia con i suoi gendarmi idioti, lo trascorre dietro la
scrivania del suo ufficio alla Sûreté, e all’Hôtel-Dieu
naturalmente.
La
sua scusa ufficiale, per tutti compreso il personale dell’ospedale,
è che si sente responsabile per le sorti del ragazzo che ha
portato lui stesso da loro. Che è poi la sacrosanta verità.
Ha solo omesso un piccolo, infinitesimale particolare: quello
ricoverato non è affatto un illustre sconosciuto capitato per
caso e sfortuna in mezzo alle grane dell’Ispettore, come invece
crede il novantanove percento della popolazione francese attualmente
a conoscenza dei fatti. Il problema è che non se la sente di
spifferare in giro il nome del ragazzo; probabilmente finirebbe in
qualche cella minuscola e umida decorata di sbarre, in buona o
cattiva salute che sia, e dato che considera già un puro
miracolo che respiri ancora, non intende sfidare la sorte con il
rischio che glielo facciano secco sotto il naso. Quindi, fino a nuovo
ordine, è e resterà un ignoto molto sfortunato e al
momento sotto la ferrea tutela dell’Ispettore Justin Ganimard.
In
quel momento sono da poco passate le nove di sera e il suddetto
Ganimard si trova giusto di fianco al giaciglio neppure troppo comodo
che ospita il suo ladro. Non ha idea di come chiamarlo, quindi non lo
chiama affatto e ha dato a intendere che non ne conosca il nome,
pertanto dovranno rassegnarsi tutti ad attendere che si risvegli per
chiederlo direttamente a lui. In fondo, conoscendo il soggetto, un
nome vale l’altro; non è certo la prima volta che se ne
va in giro con nomi presi a prestito (vedi: rubati) per passare
inosservato.
Sospira,
stanco morto perché sono per lo meno cinque giorni che non
riposa come si deve e mangia quello che capita. Fissa il volto ancora
mortalmente pallido e ora anche più magro di quanto sia
normale del ragazzo disteso e, suo malgrado, spera che si svegli in
fretta. Lo sa bene che è una sciocchezza, ma non riesce a fare
a meno di pensare che, se esiste qualcuno in grado di ritrovare quei
tizi armati di fucili, ebbene quello si trova proprio lì,
accanto a lui. Ma dorme, o per lo meno è privo di sensi, e
l’agitazione dell’Ispettore non fa che crescere. È
cosciente di essere ingiusto nei suoi confronti; dopo tutto Lupin non
è certo responsabile dei suoi attuali guai, anzi, semmai il
contrario.
«Che
cosa devo fare?» chiede, a nessuno in particolare.
E
pagherebbe dieci volte il suo stipendio per poter ascoltare la voce
del ladro che si burla di lui con qualche frecciatina e battuta della
sua lingua affilata. Ma l’unico suono che ode è quello
dei loro respiri e dei suoi pensieri opprimenti. Dopo lunghe ore
passate a rimuginare sulle loro disgrazie, senza neppure volerlo, si
assopisce, mezzo steso sulla poltrona che non è certo molto
più comoda del letto lì accanto e che, come souvenir
dell’ennesima, pessima giornata, gli lascia un torcicollo con i
fiocchi che lo accompagna per gran parte del mattino seguente, con
gli omaggi dell’Hôtel-Dieu.
***
La
mattina del sesto giorno, poco meno di un'ora prima della pausa
pranzo, viene raggiunto in ufficio da un portalettere con un
messaggio urgente indirizzato all'Ispettore Capo Justin Ganimard,
inviatogli dal direttore del reparto lunghe degenze dell'Hôtel-Dieu.
Si rimette in piedi di scatto e annaspa, zoppicando incontro al
portalettere con un doloroso crampo al polpaccio, quasi strappandogli
la missiva di mano e borbottando una mezza imprecazione alle sue
inutili e irritanti lagne per avere una firma di ricevuta.
«Silenzio!»
sbotta nervoso, cercando di capire che diamine voglia significare
quel maledetto messaggio, scritto dal maledetto direttore ospedaliero
nella sua stramaledetta scrittura che somiglia più ad aramaico
piuttosto che francese. «Sono l'Ispettore Ganimard, potete
chiedere a chi vi pare qui intorno e vi diranno tutti la stessa cosa.
E ora zitto, che sto decifrando».
In
seguito a immani sforzi di fantasia e logica, Ganimard deduce che il
direttore gli stia chiedendo, con poca gentilezza e minor pazienza
ancora, di raggiungerlo nel più breve tempo possibile poiché
pare ci siano problemi con il ricoverato. L'Ispettore si lascia
sfuggire un paio di bestemmie ben mirate e recupera in fretta il
cappotto, pronto a uscire e pregando tutti i santi che non
gliel'abbiano accoppato mentre era occupato a sorbirsi l'ennesima
tirata del prefetto sui doveri cittadini della Sûreté e
altre simili amenità, o non risponderà delle sue
azioni.
Quasi
un'ora dopo, ché il traffico parigino all'ora di pranzo è
proibitivo, Ganimard entra come un tornado imprecante nella sala
principale dell'Hôtel-Dieu, scansa l'addetta al ricevimento e
altri tre volenterosi ragazzoni che cercano di rallentarne l'andatura
con futili domande, e quasi di corsa raggiunge l'ufficio del
succitato direttore, tale Berthélot e qualcos'altro che
Ganimard non ha recepito né lo interessa in modo particolare.
«Mi
dica che è vivo» ringhia con la pazienza sotto i tacchi.
Il
direttore Berthélot lo fissa di rimando, apparendo molto poco
comprensivo, e arriccia il naso, sembrando schifato. «Vivo e,
purtroppo, sveglio, signor Ispettore».
«Oh!»
si sorprende Ganimard, sgranando gli occhi e non potendosi evitare un
accenno di sorriso all'inaspettata buona notizia. «Bene»
esclama, consolato di tutto quel che ha passato negli ultimi,
terribili giorni.
«Bene
sarà per voi, signore. Senza offesa, ma questo è un
luogo in cui vengono curate le ferite del corpo».
«Chiedo
perdono, direttore, ma non vi seguo» ha l'impudenza di
interromperlo Ganimard.
Il
modo in cui il direttore assottiglia gli occhi dovrebbe risultare
minaccioso, ma per Justin Ganimard sembra piuttosto comico, quindi
deve trattenersi a forza dal ridergli in faccia e, con tutta la
diplomazia di cui si sente capace, spiega «Mi rincresce per le
mie cattive maniere, ma credevo gli fosse capitata qualche altra
disgrazia e sapere che invece è sveglio e in buona salute mi
rinfranca non poco».
«Ho
detto che è sveglio, signore. Non ho mai sostenuto che fosse
in buona salute, né fisica né... mentale».
Molto
bene. E con questo il precedente buon umore dell'Ispettore sprofonda
in un buco nero di disperazione. «Cosa state cercando di dirmi,
per l'esattezza?».
«Il
ragazzo ha evidenti problemi. Abbiamo tentato, non appena messi al
corrente del suo risveglio, di accertarci delle sue effettive
condizioni. Naturalmente era nostro dovere informarci…»
si dilunga il direttore.
Ganimard,
nel mentre, crede di aver intuito il problema, così per
accorciare i tempi che da subito gli paiono biblici, interviene di
nuovo. «Gli avete posto domande, immagino».
«Mi
sembra ovvio, signore» replica Berthélot, piccato.
“Sì,
sarà di certo ovvio e logico per voi”. Sospira, tenendo
per sé i propri pensieri. Nessun dubbio, ora, sul problema. È
già un puro miracolo che non abbia dato di matto. D’accordo,
a quel punto dovrà proprio cercare di salvare il salvabile.
Pertanto si rivolge una volta di più al direttore, accennando
perfino un cordiale sorriso, o quello che reputa tale. «Se
voleste permettermelo, posso provare a parlarci io stesso. Sapete,
con il mio lavoro credo di essere idoneo ad avere a che fare con
certa gente» insinua, intendendo tutto e niente al contempo.
Nonostante
le premesse, il direttore appare indicibilmente sollevato da tale
proposta. Se non fosse ciò che è, ovvero il
responsabile di un reparto ospedaliero, scommette che si metterebbe a
piagnucolare inutili ringraziamenti. Tanto meglio se può
risparmiarseli. Berthélot gli offre di farlo accompagnare da
un'infermiera, ma sono giorni che percorre la medesima strada e
dubita di necessitare di una guida, pertanto rifiuta con fermezza e
lascia il direttore alla sua direzione, dirigendosi invece a passo
svelto verso la camera che ospita il suo ladro.
***
Di
fronte alla porta della camera del suddetto, con un certo stupore da
parte dell’Ispettore, vi staziona una sorta di assembramento, o
forse, date le circostanze, sarebbe più idoneo definirlo
crocchio
di vecchie pettegole.
Seccante. Vorrà dire che dovrà farsi largo con una
certa autoritaria decisione. Un piccolo ghigno, non d’uso sulla
sua persona, compare per pochi istanti sulle sue labbra, mentre a
braccia incrociate scruta dal fondo la piccola folla assiepata a
perdere tempo e curiosare in fatti che non riguardano nessuno di
loro. Aggrotta le sopracciglia e assume un’espressione severa e
categorica.
«Sgomberate,
signori. Immediatamente» intima, spargendo sopra i pettegoli
occhiate raggelanti.
È
soddisfacente notare quanto a volte basti poco per ottenere la
collaborazione delle persone, per quanto recalcitranti possano
essere. Le pecore… cioè, il personale di servizio
dell’ospedale, tra sbuffi e mugugni, si affretta a eseguire
l’ordine impartito e a sgomberare l’entrata. Una volta
ottenuta la via libera si infila nella stanza e richiude la porta
alle spalle, badando bene a che non possa essere aperta dall’esterno
fino a che non abbia terminato la sua attuale missione. Missione che,
stando all’espressione rabbuiata del paziente, non dà
l’idea di presentarsi agevole.
«Non
vi agitate. È tutto a posto» assicura, mettendo le mani
avanti.
Lupin,
nonostante l’aspetto emaciato che lo fa apparire più di
là che di qua, solleva un sopracciglio con fare scettico e
sarcastico. «Il vostro concetto di “tutto a posto”
lascia molto a desiderare, Ispettore» fa notare con pesante
acidità. «Potreste non averlo notato, ma sono
attualmente bloccato in questo… letto, in un luogo che mi è
ignoto e fino a un minuto fa in compagnia di gente altrettanto
ignota. E ora, di grazia, vi dispiacerebbe spiegarmi cosa mi ha
portato qui?».
Ganimard
sente un fastidioso prurito alle dita, ma non si sofferma a
domandarsi che cosa possa essere, lo sa benissimo: è la
tentazione di mettergli le mani al collo e stringere forte. Solo che…
non lo può fare, per più di una buona ragione, la
principale delle quali è che tutto sommato lui non ha tutti i
torti. Respira a fondo nel tentativo di ritrovare la calma necessaria
per trattare con quella specie di demonio.
«D’accordo»
soffia, umettandosi le labbra e cercando con febbrile impegno un modo
per iniziare che non sia un insulto. «Qual è l’ultima
cosa che rammentate?».
Lupin
assottiglia le labbra, poi gli occhi. Quando la sua espressione si fa
vacua Ganimard inizia a sudare, presagendo infauste prospettive.
«Qualcosa che suppongo sia meglio voi non sappiate. Il resto è
piuttosto nebuloso, al momento».
Ganimard
grugnisce, indispettito, poi lo fissa stolido, meritandosi di rimando
un’occhiata di biasimo. «È una brutta notizia»
commenta, avvertendo un principio di ulcera all’arricciarsi del
naso del ladro.
«Non
oso immaginare come potrei vivere senza le vostre preziose perle di
deduzione».
Ganimard
stringe i pugni, stringe i denti, stringe le palpebre. «Per
Dio, quanto vi odio» sibila al colmo dell’irritazione.
Poi ricorda: che ha atteso sei giorni il suo risveglio; che quelli
con il fucile hanno sparato alla persona sbagliata; che non ha ancora
pronunciato una sola parola che serva a spiegargli ciò che a
quanto sembra non è in grado di rammentare con le proprie
attuali forze. E forse, ancora una volta, dovrebbe essere il
contrario, perché al momento l’unico con una buona
ragione per odiare è disteso in un letto di ospedale.
«Capisco»
replica invece quello, e nient’altro.
Quando
Ganimard riapre gli occhi quelli di Lupin sono al contrario chiusi.
Avverte, improvviso, un freddo gelido nelle ossa. Decide di
avvicinarsi, per capire se è ancora sveglio per lo meno, e
poi… si vedrà. In silenzio si siede sulla solita
poltrona scomoda e osserva ancora una volta il viso sciupato del
ragazzo che ha di fronte. Titubante, si allunga e ne raccoglie una
mano fra le sue; quel gesto, pare, serve a sollecitare un minimo di
curiosità nell’altro, che riapre gli occhi e lo fissa,
interdetto e con parecchie domande nei suoi occhi chiari.
«Mi
dispiace. Non… Sono un poco stanco e nervoso, in questi ultimi
giorni» borbotta imbarazzato.
«Per
una volta mi trovate d’accordo» commenta, perdendosi a
scrutare la sua mano racchiusa in quelle dell’Ispettore. Poi
sospira, e Ganimard può chiaramente avvertire il grado di
frustrazione e sfinimento che v’è dietro. «Ho
bisogno di sapere. Ne ho davvero bisogno» soffia, apparendo
stremato.
Allora
Ganimard sembra convincersi dell’idea di dover riassumere
l’accaduto per Lupin e a tale scopo raduna le idee e inizia a
dar loro forma e voce, lentamente ché non è sicuro di
quanto potrà essere veloce nel recepire le informazioni
considerata la pessima forma in cui versa.
«È
un bel guaio, amico Ganimard» considera Lupin, dopo aver
ascoltato con attenzione ciò che ha da raccontargli
l’Ispettore. «E non avete ancora trovato tracce di questa
gente?».
«No,
nessuna fino a ora. Ma dovete anche tenere presente che non mi ci
posso dedicare a tempo pieno, e quando lo faccio mi vengono dietro i
ragazzi della Sûreté» spiega conciliante.
«Sì,
che è come dire che investigate da solo» commenta Lupin,
senza nascondere i suoi dubbi.
Ganimard
vorrebbe protestare, ma non ne trova la forza perché sa che
sotto sotto è ciò che pensa anche lui stesso, dunque a
che scopo fingere offesa? Fa spallucce, rassegnato. «Ci ho
provato. Speravo che vi svegliaste un poco più in fretta»
ammette.
Lupin
incurva un sopracciglio. «Ah, ma guarda un po’ che
approfittatore. E io, povero illuso, che credevo ci teneste alla mia
pelle».
L’Ispettore
arrossisce e borbotta frasi smozzicate. «Mi sono espresso male»
tenta di giustificarsi. «Ho perfino pregato per voi»
bisbiglia, nella segreta speranza di non essere udito.
Invece,
per sua sfortuna, il ladro sgrana gli occhi e accenna un faticoso
sorriso. «Davvero?» soffia, apparendo emozionato.
Ganimard
si limita a grugnire e a desiderare di seppellirsi sotto diversi
metri di terra fertile.
«Sulla
Senna a frugare non ci posso andare per ora, visto che non riesco a
muovermi di un solo millimetro. Però se mi offrite qualche
dettaglio in più posso cercare di trovarveli lo stesso, o
almeno fare un poco di chiarezza su questa faccenda» promette
volenteroso.
«Sì,
è una buona idea» concorda Ganimard, annuendo convinto.
«Prima però mi serve una cosa».
«Vale
a dire?» si incuriosisce Lupin, cercando invano di
accostarglisi maggiormente.
«Un
nome con cui chiamarvi. Finora dormivate e avevo una buona scusa per
non saperlo. Ora che siete sveglio non ce l’ho più e mi
serve un nome da usare quando parlo di voi».
«Aspettate
un momento, quindi nessuno sa chi sono?» si sorprende Lupin.
«Lo
so io, ed è più che sufficiente».
«Dunque
è questo il motivo per cui mi trovo qui anziché alla
Santé».
Ganimard
storce il naso in una smorfia afflitta. «State forse cercando
di farmi sentire più in colpa di quanto non mi ci senta già
di mio? Perché, caso mai lo voleste sapere, sta funzionando
anche troppo bene».
Lupin
lo fissa con aperto stupore, poi piano scuote la testa. «Oh,
no, amico Ganimard. Non intendevo fare nulla di simile. Potete usare
Raoul, è il mio secondo nome».
L’Ispettore
annuisce, rigirandosi il nuovo nome nella testa e immaginando di
parlare di lui ad altre persone chiamandolo Raoul. Suona bene. «E
l’avevate mai usato?».
«Libero
di non crederci ma fino allo scorso anno ero Raoul, per lo meno in
società. Visconte Raoul d’Andrésy, per la
precisione».
«Niente
meno» bercia sarcastico Ganimard sollevando gli occhi al cielo.
«Se
sposi una ragazza nobile devi offrirle qualcosa che valga il cambio
di cognome. E comunque d’Andrésy è un cognome
appartenente all’aristocrazia francese. Lo portava mia madre…
prima di commettere l’errore di sposare mio padre»
riflette ad alta voce Lupin.
Nel
mentre Ganimard lo fissa pensieroso, cercando come può di
trattenersi dal porre domande inappropriate. Un lieve tremore nella
mano del ragazzo lo distoglie dai suoi crucci e lo riporta al
presente e al più impellente problema. «È il caso
che vi riposiate, ora; avete un aspetto tremendo» propone,
sperando di suonare gentile e non scorbutico come invece gli è
parso.
«Immagino
di sì. Avete detto che sono qui da una settimana?».
«Sei
giorni» precisa Ganimard, volendo sincerarsi della direzione
presa dai pensieri di Lupin.
«Non
lo so se potete, ma se riusciste a trovare il tempo e il modo, vi
pregherei di un favore» tentenna il ladro.
Ganimard
annuisce e rimane in attesa, ascoltando il respiro a tratti affannoso
del ragazzo. «Ditemi» aggiunge a mo’ di pacata
esortazione quando nota la sua indecisione.
«C’è
una donna. Lei è… È stata lei a prendersi cura
di me quando ero un bambino. In realtà lo fa anche ora che un
bambino non lo sono più da un po’ di tempo». Offre
un sorriso tremolante e incerto, spostando lo sguardo dalle mani agli
occhi dell’Ispettore.
«Credete
che sia preoccupata per voi? Volete che provi ad avvisarla?»
comprende Ganimard.
«Potete
farlo?» dubita Lupin, scrutando ancora nello sguardo del
poliziotto, esitante.
«Sì,
posso farlo. Ditemi dove la trovo» chiede l’Ispettore. Si
avvicina, forse sperando che le incertezze del ragazzo svaniscano con
la distanza. Troppo tardi si rende conto che per quel giorno
probabilmente non avrà alcuna altra informazione al riguardo,
dato che Lupin è sprofondato in un sonno pesante e, si augura,
riposante.
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