Salve
^_^
Ritorno ad aggiornare questa raccolta dopo una lunga pausa di cui mi
scuso umilmente con i lettori che mi hanno seguito, augurandomi che
almeno l'attesa sia valsa la pena e questa shot vi piaccia.
Non sto qui a soffermarmi e a giustificarmi sulle svariate cause
concomitanti che mi hanno allontanato dalla scrittura (che ho comunque
portato avanti su altri fandom), piuttosto ringrazio quanti si sono
preoccupati di chiedermi, incoraggiarmi e farmi avere il loro
apprezzamento.
Ho scelto di proposito la soluzione delle shot missing moments (che in
origine avrebbero dovuto essere semplici flash) piuttosto
che cominciare una long, ben sapendo e temendo che in questo
periodo non avrei potuto dedicami con la dovuta cura e
concentrazione su una storia più complessa,
perciò spero comprendiate le mie future latitanze ^.^"
Questa volta ho voluto riagganciarmi ad un episodio che reputo tra i
più importanti del manga e che per fortuna è
stato trasposto anche parecchio bene nella versione animata, ovvero
l'incontro di Kaori con Sayuri. Alla fine la nostra eroina fa una
scelta ben precisa, ma reputo quasi impossibile che non abbia avuto
qualche dubbio. E Ryo? Anche lui aveva preso seriamente la faccenda.
Insomma, ho cercato di ricamare sul dopo, mi auguro di non aver scritto
banalità e di non risultare noiosa.
In fondo troverete qualche nota su delle citazioni che ho voluto
inserire.
Grazie infinite ancora a tutti i lettori, alla prossima!)
VIII
– Detestabili abitudini
Il volo delle 9:30 della Japan Airlnes con destinazione New York era
partito in perfetto orario e dell’enorme Boeing 767-300 non
rimaneva altro che la flebile scia biancastra rilasciata dai suoi
ruggenti motori, che stava ormai dissolvendosi nell’azzurro
sbiadito del cielo ottobrino.
Kaori, ancora avvolta nell’anonimo soprabito che copriva il
vestito più costoso ed elegante che avesse mai indossato
negli ultimi anni, non riusciva a staccare lo sguardo lievemente
inumidito da una nostalgica sensazione di mancanza da quelle soffici
nuvole che si muovevano lente e leggere, quasi come galleggiassero
sopra di lei, assumendo forme effimere e fantastiche.
Altri velivoli rombavano sulla pista di decollo
dell’affollatissimo aeroporto internazionale di Tokyo-Narita,
principale scalo per chi arrivava dall’estero o lasciava il
Giappone imbarcandosi verso mete lontane che lei finora aveva potuto
soltanto sognare di visitare attraverso la televisione, il cinema o le
riviste. Di viaggi lunghi o in paesi stranieri non ne aveva mai
affrontati, non ne aveva avuta la stringente necessità,
né aveva mai provato il desiderio impellente di abbandonare
l’immensa città in cui viveva da sempre, di cui
amava imprescindibilmente le secolari tradizioni e i numerosissimi
contrasti.
Senz’altro non era la prima volta che si trovava ad osservare
quel frenetico via vai di gente indaffarata in procinto di salire a
bordo di quei giganti dei cieli, per dovere, affari o piacere. Era
capitato abbastanza spesso di accompagnare qualche cliente con cui
aveva stretto, anche se per pochi giorni, un cordiale rapporto di
amicizia, eppure mai prima di allora si era immedesimata tanto
profondamente nelle emozioni che avevano potuto dominare
l’animo di qualcuno che si trovasse a lasciare a tempo
indeterminato la propria terra d'origine, non come le stava succedendo
da che aveva scambiato l’ultimo affettuoso saluto con Sayuri
Tachiki.
Tra lei e quell’affabile, brillante e forse un po’
troppo apprensiva giornalista si era instaurato quasi subito un legame
molto particolare, quasi familiare. Un simile grado di
solidarietà femminile non era cosa comune, anzi non
ricordava di averlo mai sperimentato in maniera tanto immediata con
nessuna delle altre giovani donne per cui si era messa a disposizione,
aiutandole a uscire da qualche brutta circostanza.
In compagnia di quella giovane coetanea si era sentita un po’
meno sola e bistrattata, un po’ più sicura delle
sue capacità, apprezzata, ma anche protetta. Lei
l’aveva voluta trattare come fosse sua sorella, aveva
ripetuto più volte quell’amorevole appellativo, in
un modo talmente spontaneo e convincente che il suo animo aveva
dubitato fosse la pura e semplice verità. E forse lo era.
Aveva imparato che certe sensazioni non avevano bisogno del supporto di
prove tangibili e razionali per essere comprese.
Sin da quando aveva scoperto di essere stata adottata, sebbene i suoi
parenti putativi non le avessero mai fatto mancare nulla e
l’avessero cresciuta con amore, aveva vagheggiato di poter
conoscere qualcuno della sua famiglia biologica, ma ormai tante cose
erano cambiate e, a differenza di quanto aveva immaginato in passato,
avere avuto la possibilità concreta di incontrare qualcuno
con cui condivideva un vincolo di sangue non aveva avuto
l’effetto devastante di una palla da demolizione, andando a
sconvolgere tutta la sua esistenza. Anche se aveva trascorso quasi
tutta la notte a rimuginare sulle sue ambigue frasi e sui suoi
amorevoli slanci, valutando l’opportunità di fare
i bagagli e seguirla.
Malgrado la reciproca promessa di tenersi in contatto, sapeva
già che la grande distanza e gli impegni quotidiani di
entrambe sarebbero stati un ostacolo non indifferente. Se soltanto
avesse avuto il coraggio di dire di sì, di lasciarsi
semplicemente tutto ciò che conosceva e per cui continuava a
vivere e a lottare ogni maledetto giorno alle spalle, a
quell’ora avrebbe potuto trovarsi accanto a sua sorella
maggiore, a parlare amabilmente del più e del meno e a
guardare il mondo da un oblò, come uno di quei tanti
passeggeri animati da sogni, speranze, progetti. Avrebbe potuto
incominciare una vita diversa, costellata da tante incognite magari, ma
mitigata dal conforto della sua premurosa presenza.
Invece, tra reticenze, dubbi, aggressioni e rapimenti, quella settimana
era volata via, proprio come quel Boeing, e lei alla fine aveva
preferito restare ancorata all’incognita più
grande e avvincente di tutte, quella che occupava interamente la sua
mente e il suo cuore.
«Hai intenzione di restare qui tutto il giorno a contare gli
aerei che decollano?», le si rivolse Ryo, con una certa
insofferenza punteggiata di indolente ironia.
Kaori chiuse per un attimo le palpebre inspirando a fondo, per poi
voltarsi lentamente nella sua direzione: «Non sei obbligato
ad aspettarmi. Puoi anche tornartene da solo»,
bisbigliò distendendo un debole sorriso intriso di
malinconia che in lui ravvivò quel persistente senso di
colpevolezza a fior di pelle.
Anche Saeko, che si era fermata poco più indietro a
parlottare con lo sweeper, avvertì una latente tensione
promanare dal momentaneo allontanamento di quei due e si
sentì di troppo: «Io vi lascio, ragazzi. Ho una
sfilza di scartoffie che mi aspettano in ufficio»,
alzò acutamente il tono per richiamare
l’attenzione di entrambi, che parevano del tutto assorbiti
dai propri logoranti tarli.
Ma, appena ebbe girato i tacchi, percepì la leggera
pressione di una mano sulla schiena: «Allora ti
accompagno!», si offrì inaspettatamente Ryo,
sfoggiando un ghigno da allupato. In un paio di falcate si
accostò alla socia: «Ci vediamo dopo»,
la salutò concisamente, lasciandole le chiavi della sua Mini.
La ragazza le raccolse annuendo appena, senza alcuna delle sue
smisurate reazioni di sdegno o di gelosia, e lui dovette camuffare la
propria sorpresa, pur persuadendosi che fosse del tutto normale che lei
avesse bisogno di stare un po’ con se stessa. La mezza
rivelazione di un’insospettabile parentela avrebbe messo in
crisi chiunque.
Quella mattina, quando aveva scoperto che la loro ultima speciale
cliente era andata via praticamente di nascosto, lo aveva buttato
giù dal letto facendo un gran baccano, dandogli a mala pena
il tempo di vestirsi e supplicandolo insistentemente di accompagnarla
perché ci teneva a dirle addio di persona. Per qualche
minuto aveva pensato che fosse solo un timido pretesto, che in
realtà volesse partire anche lei con Sayuri, ma non aveva
provato a pronunciarsi né a favore né contro la
sua decisione finale, perché in fondo non si era mai sentito
in grado né in diritto di giudicarla. E perché si
fidava ciecamente della sua sincerità. Era troppo
affezionata, dannatamente corretta. Se quella fosse stata la sua
intenzione, non avrebbe esitato a confidarglielo.
Appurare che non avesse preso alcun borsone con sé aveva
smorzato quella strana fitta che gli si era comunque annidata nelle
budella. Così aveva guidato infrangendo il limite della
velocità massima consentita, pur di esaudire il suo semplice
desiderio.
E, invece di ringraziarla per avere scelto ancora una volta di restare
al suo fianco, al fianco di un assassino anziché della sua
vera sorella, per tutto il tragitto aveva solo saputo inanellare
osservazioni banali sul paesaggio extracittadino e sulle condizioni
atmosferiche, oltre a fare battute stupide su quello splendido abito
tutto pieghe che lei aveva voluto rindossare, così distante
dal suo modo di essere, dalla donna grintosa e restia
all’esaltazione della sua femminilità che era
diventata o che era sempre stata.
«Non pensi che Kaori avrebbe avuto bisogno di te?
È molto fragile in questo momento»,
tornò a pungolarlo Saeko, mentre si stavano avviando al
parcheggio dell’aeroporto.
«Fragile? Si vede che non la conosci bene. Kaori è
tutto fuorché fragile», si lasciò
scappare apertamente lui, rimuginando che, col suo stato
d’animo così instabile, percorrere da sola in auto
tutti quei chilometri sarebbe stato infinitamente più sicuro
che doversi andare a ficcare in un treno, gomito a gomito con un
campionario di umanità varia, sconosciuta e potenzialmente
molesta. E poi, in quel viaggio di ritorno non avrebbe saputo come
riempire di nuovo tutto quello spinoso silenzio che si sarebbe insidiato tra loro
senza sparare altre stupidaggini.
«Se lo dici tu …»
Avvertendo l’occhio smaliziato della poliziotta scrutarlo con
accondiscendenza da sotto il lungo ciuffo, affrettò con
nonchalance il passo, avvistando la sua sfavillante Porsche 930 turbo
che spiccava come una rara primula rossa tra tutte le altre modeste
automobili parcheggiate ordinatamente in quel vasto spiazzo.
Quell’autovettura sportiva era più bassa, anche se
solo di qualche centimetro, della sua Austin Mini, e Ryo dovette
piegarsi parecchio per potersi accomodare sul sedile, benché
una volta dentro, poté notare come non soltanto la
carrozzeria, ma anche tutti gli interni fossero sempre impeccabilmente
tirati a lucido. Vantaggi dell’essere figlia di una buona
famiglia, si disse, invidiando un po’ il lusso emanato da
ogni millimetro quadrato di quel bolide, che però per i suoi
affari sarebbe stato sin troppo appariscente.
«Dai, che aspetti? Me li vuoi fare sentire questi fantomatici
300 cavalli?», la sfidò con enfasi sfottente,
quando la bella ispettrice si fu seduta con una mossa felina al posto
di guida inserendo le chiavi.
Saeko si compiacque: «Allacciati la cintura», lo
esortò provocatoria, schiacciando contemporaneamente su
frizione e acceleratore per una roboante partenza a tavoletta.
Era già quasi metà mattinata e i morsi della fame
cominciavano a manifestarsi prepotenti, ma lei non si sentiva ancora
dell’umore propizio per rincasare e affrontare il motivo
principale per cui aveva rinunciato ad allontanarsi. La faceva un
po’ vergognare che, nonostante avesse assistito alle loro
tante accese e violente litigate, Sayuri fosse comunque riuscita a
leggere oltre in quei pochi giorni. E ancora di più che lei
stessa si fosse tradita così ingenuamente di fronte alla sua
insinuazione.
D’altra parte, anche se non ne avevano mai discusso sul
serio, era certa che Ryo non si sarebbe opposto ad una sua eventuale
partenza. Dopotutto si era offerta lei di diventare la socia di quello
sciagurato, lui in quegli anni non l’aveva mai costretta a
restargli accanto, né le aveva fatto capire che fosse
indispensabile. Anzi, avrebbe scommesso che alla sua prima esitazione
non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a tagliare la corda, andandosene a
scodinzolare da quella fatalona, che probabilmente gli aveva
già rifilato un altro dei suoi casi più rognosi,
convincendolo con qualche smanceria ad accettare.
Infastidita da questi pensieri, Kaori trascinò i piedi un
po’ indolenziti da quelle scarpe nuove dalla suola rialzata
dentro il Cat’s eye, venendo accolta da un caldo e
rasserenante aroma di caffè. Il grazioso locale stava
lentamente cominciando ad ingranare, grazie alla qualità e
varietà dei prodotti, adatti a soddisfare anche i gusti
più difficili, e alla scarsa concorrenza riscontrata nella
zona, vantando già una ristretta ma fedele clientela di
tutte le età che vi trascorreva il tempo libero, chi
sorseggiando e chiacchierando in compagnia, chi in solitudine,
leggendo, disegnando o scrivendo per hobby o per lavoro.
Quel giorno c’era più gente del solito,
probabilmente anche per via del vento freddo e impetuoso che aveva
cominciato a flagellare le strade del quartiere.
Il risuonare del campanellino agganciato sopra la porta fece accorrere
l’amichevole proprietaria, sempre propensa a regalare un
luminoso sorriso di benvenuto a chiunque varcasse la soglia della sua
caffetteria: «Hey, Kaori! Che piacere! Era da un pezzo che
non ti facevi vedere!» esclamò Miki con una punta
di rimprovero che fece spuntare una piccola ruga tra le sue
sopracciglia perfettamente disegnate.
L’ex mercenaria dopo la loro breve collaborazione
l’aveva sin da subito presa in simpatia e spesso non esitava
ad invitarla a fermarsi anche oltre l’orario di chiusura,
esonerandola perfino dal pagare degli extra menù che le
faceva assaggiare in anteprima.
«Mi dispiace, hai ragione. Abbiamo avuto degli incarichi
piuttosto impegnativi», si discolpò con sincero
rammarico, adocchiando se vi fosse un tavolino libero in qualche angolo
appartato, giacché tutti gli sgabelli allineati davanti al
bancone erano già occupati e non voleva disturbare nessuno,
tantomeno destare l’impressione di ricevere un trattamento di
favore rispetto agli altri clienti.
«Saeba ti fa trottare, eh?», intuì la
giovane barista, non nascondendo un certo disappunto nei riguardi del
grezzo sweeper che le era bastato conoscere per qualche giorno per
giudicare un singolare caso umano. «Vedrai che con una bella
tazza di cappuccino, ti sentirai meglio! », le
schiacciò l’occhio, raccogliendo intanto sul
vassoio i resti di altre consumazioni lasciati dagli avventori che si
erano accomiatati.
Kaori si sistemò sulla poltroncina: «Non
è che avreste anche qualcosa da inzuppare? Non ho potuto
fare colazione stamattina …», balbettò
impacciata, sperando che il brontolio della sua pancia non si
avvertisse troppo, anche perché non voleva elemosinare nulla.
«Certamente!», le assicurò sorridente
Miki, intenerita dal suo ritegno a formulare quella piccola richiesta.
«Falco?», richiamò quindi il suo
compagno di vita e di lavoro, il quale, tutto dedito a lucidare delle
stoviglie appena lavate e al contempo a squadrare dalla testa ai piedi
chiunque entrasse, quasi come avesse un metal detector incorporato
negli occhiali scuri, cadde nell’equivoco quando
udì la voce della ragazza pronunciare alternativamente:
«Pasticcino? Biscottino?»
Il cranio calvo dell’uomo s’infiammò
all’istante, il suo corpo divenne rigido come un ammasso di
marmo e la tazzina che stava asciugando si frantumò tra le
sue grandi dita.
«Facciamo per il cornetto con la crema al
cioccolato», decise ingolosita Kaori, dopo aver spulciato con
interesse il ricco elenco di dolci e vivande, suddiviso tra
specialità giapponesi, europee e anglosassoni.
Umibozu si sbollentò, capendo di aver frainteso le parole
dell’amata che frattanto tornò al suo fianco
chiedendogli di riscaldare il pan dolce nel fornetto, così
da fargli riacquistare la giusta fragranza, mentre lei tornò
a prestare attenzione alle ordinazioni di altri clienti.
In quel contesto pacifico e accogliente un omone grande e grosso con
una tempra granitica forgiata dal fuoco di tante battaglie poteva
sembrare una nota stonata, ma sotto il tocco gentile e delicato di Miki
il burbero e sgraziato soldato in ritiro sembrava un orso ammansito.
Tra i due ex guerriglieri c’era un continuo scambio, fatto di
discrezione e sintonia, si compensavano e, nonostante la loro
considerevole differenza di corporatura, nessuno intralciava o
sovrastava mai l’altro. Dai loro gesti trapelavano rispetto e
affetto. Era evidente che si conoscessero da anni e che si amassero
molto.
Kaori trovò quell’immagine terribilmente romantica
e pensò che fossero davvero belli da vedere insieme,
checché ne pensasse qualcuno. Di
contro si domandò come apparissero dall’esterno
lei e quel cavallo pazzo di Ryo, come fosse possibile che qualcuno ogni
tanto insinuasse fossero una coppia, quando non facevano altro che
azzuffarsi e insultarsi a vicenda, pur condividendo qualche sparuto
momento di complicità.
«Ma che bel vestito!», commentò Miki
ammirata, tornando a portarle una tazza fumante accompagnata da un paio
di croissant.
Lei quasi fu tentata di rimettere il cappottino che aveva appena fatto
scivolare sulla spalliera della sedia: «Oh, grazie. Fosse
stato per me, non lo avrei mai comprato. Non mi ci vedo
proprio», balbettò imporporandosi e abbassando il
mento sul petto, anche se in fondo pensava che quella raffinata mise
meritasse un po’ di ribalta prima di finire inesorabilmente
appesa nel dimenticatoio del suo armadio ripieno di felpe e pantaloni.
«Ma che dici? Ti sta benissimo!»,
controbatté l’amica, trattenendosi dal chiederle
di alzarsi in piedi per poterla rimirare meglio, «Non
è vero, ciccino?», cercò invece
l’appoggio del suo compagno che a quel nomignolo diede in
escandescenze, mugugnando versi incomprensibili prima di svanire nel
retrobottega.
«Se non ti piace, allora perché lo hai
messo?», s’intromise l’altra barista, non
senza un pizzico di acidità, sparecchiando un tavolo
lì vicino.
«Kasumi!», la richiamò severamente
l’ex soldatessa, lanciandole un’occhiata di
rimprovero.
L’espressione di Kaori divenne sognante mentre soffiava sulla
schiuma del cappuccino: «È un regalo. Di una
cliente», specificò avvertendo gli sguardi curiosi
e interrogativi delle due donne, ma preferì non dilungarsi
in altri dettagli e lasciò che le sue intime riflessioni si
mescolassero al soffuso chiacchiericcio che permeava
l’ambiente.
Un irruento trambusto precedette l’ingresso di un altro dei
frequentatori abituali del bar.
«Miki! Kasumi! Il vostro abbagliante splendore anticipa la
primavera!», ciangottò buttandosi a pesce sulle
due avvenenti more, venendo tempestivamente frenato dal solito vassoio
su cui si impresse un calco dei suoi lineamenti.
«Umi … La tua bruttezza invece mi ricorda che
Halloween si avvicina», farfugliò indispettito
Ryo, tastandosi il naso tumefatto sotto il ghigno sadico e divertito
del pelato e le occhiate sconcertate e intimorite di altri clienti che,
adducendo varie scuse, cominciarono ad evacuare il locale come fosse
scoppiato un incendio.
L’incorreggibile seduttore allora si affannò a
tentare di rassicurare e abbordare qualche ragazza particolarmente
appetibile offrendole da bere, pur consapevole di non avere sufficiente
contante in tasca, ma nessuna volle cedere alle sue esuberanti avances.
Impermalito da quel disonorante fallimento, si accasciò di
peso su uno sgabello girevole, giochicchiando con le bustine di
zucchero e dolcificante, osservando con un sorrisetto sghembo il suo
amico/rivale lustrare il bancone acconciato con quel ridicolo
grembiulino.
Era l’emblema dell’elefante costretto a muoversi
dentro una cristalleria. Non avrebbe mai capito come un uomo riottoso e
tutto d’un pezzo potesse cambiare tanto le sue abitudini e
convinzioni per una donna, anche se la donna in questione fosse
così deliziosamente affascinante e determinata come Miki.
«Comunque Kaori è di là»,
tuonò Umibozu, innervosito da quel suo muto sbeffeggiarlo,
accennando ruvidamente ad un angolo in fondo al locale.
Naturalmente lui l’aveva vista benissimo, ancora prima di
entrare. Detestava essere guidato da quell’impulso
inspiegabile di sapere se lei stesse bene, data la sua propensione, a
causa di quel connubio esplosivo di ingenuità e
avventatezza, a non rimanere mai troppo lontana dai guai. Per non farsi
scoprire era sempre costretto a ricorrere a svariati sotterfugi, ma
solo così poteva essere sicuro che quel loro strano rapporto
continuasse in qualche modo a funzionare, senza sfociare in
qualcos’altro, qualcosa di molto scomodo, altamente
sconsigliabile e difficilmente gestibile.
Fece un giro di 180° gradi sullo sgabello, ostentando una
faccia stupita e contrariata cui lei rispose con due occhi scontrosi e
accusanti: «Che cosa ci fai tu qui?!», vociarono in
coro.
La socia ingerì l’ultimo pezzo di cornetto,
pulendosi la bocca con un tovagliolo: «Quello che fanno le
persone normali», sostenne ovvia, indicandogli le briciole
della colazione che aveva appena finito di consumare. «Tu
invece, ovunque vai, offendi la morale e disturbi la quiete
pubblica!», parlò con pungente biasimo, alzandosi
di scatto e affibbiandosi frettolosamente il soprabito.
«Sono rimasto digiuno anch’io
stamattina!», le rammentò immusonito Ryo,
parandosi davanti a lei, le braccia incrociate sul petto tronfio di
offesa.
Kaori gli piantò le mani addosso, scansandolo in malo modo
di lato per passare: «Levati di torno! Sei una
persecuzione!», sbraitò con un moto di stizza,
correndo fuori dalla caffetteria.
«Accidenti! In questo periodo del mese diventa proprio una
belva inavvicinabile!», commentò trasecolato lo
sweeper, grattandosi la nuca formicolante di sconcerto per quella sua
sfuriata inaspettata e alquanto spropositata. Era una di quelle
circostanze in cui faticava a capire come prenderla, perché
sostanzialmente non riteneva di avere commesso qualche abominevole
misfatto di cui farsi perdonare. Si ritrovò a pensare che
forse, invece di restare muto e indifferente, avrebbe dovuto
incoraggiarla a salire su quel volo, ma che la sua mancata partenza non
fosse dipesa interamente da lui. Non le dava nessuna ragione per
continuare quella burrascosa collaborazione.
«Saeba, si può sapere cosa le hai combinato questa
volta?», l’intimazione di Miki gli
arrivò come un fucile carico puntato tra le scapole, e
voltandosi si accorse che anche gli altri due che avevano assistito a
quell’assurda scenata lo stavano fissando con acredine,
trovandosi peraltro senza più clienti.
Non aveva alcuna intenzione di spiattellare i fatti propri e magari dar
loro occasione di criticarlo ancora di più,
perciò se ne uscì con uno dei suoi soliti
sciocchi motti di spirito.
«Io?! Niente di niente! Quella matta sragiona! Il povero Ryo
stavolta è innocente come un angioletto!»,
esclamò pervicace, sollevando un palmo come stesse prestando
giuramento dinanzi ad un tribunale pronto a condannarlo.
Quei tre severi giudici però avevano già deciso
che fosse colpevole, anche in assenza di prove contrarie. Umibozu lo
raggiunse, acciuffandolo malamente per il bavero dello spolverino:
«Qui non sei gradito», gli alitò
trucido, trasportandolo fino alla porta.
«Toglimi le due dannate manacce di dosso!»,
bofonchiò Ryo scalciando e divincolandosi da lui,
«Non sei tu a cacciarmi, sono io ad andarmene. Il servizio
è pessimo!», ci tenne a precisare boriosamente,
ripromettendosi di pareggiare i conti per quello sgarbo, ma meditando
che fosse preferibile per un po’ restare alla larga da quel
posto e forse anche dalla sua irascibile partner. Così, come
un cane randagio, si mise a vagare su e giù per le
frastornanti vie cittadine, passando in ricognizione i suoi luoghi
preferiti, sperando di incappare in qualche elettrizzante situazione
che lo distraesse da tutto quell’esacerbante rimuginare a
vuoto.
Riposto anche l’ultimo bicchiere accuratamente risciacquato
nello scolapiatti, Kaori concluse il recupero delle faccende domestiche
tralasciate in quegli ultimi due intensi giorni. Aveva cominciato a
dare una sistemata all’appartamento tanto per svagarsi, non
sentendosi abbastanza energica né dell’umore
adatto da indossare una tutina e fare un po’ di ginnastica o
andare a correre al parco, anche perché la temperatura non
era delle più invitanti e quel sole velato le metteva
addosso una pesante svogliatezza.
Il suo intento era impiegare quel tempo libero a fare qualcosa di
utile, che in ogni caso nessun altro si sarebbe preso la briga di fare
al posto suo, ma anche nel ripetere quelle azioni meccaniche e abituali
nella sua mente risuonavano le considerazioni e le osservazioni
critiche di Sayuri, il suo sguardo compassionevole e preoccupato nei
riguardi del suo stile di vita contrassegnato
dall’instabilità e dal pericolo e di quella
discutibile convivenza con un uomo tanto irrispettoso e deplorevole
come Ryo Saeba.
Ripulendo le tracce di sapone da barba e dentifricio che chiazzavano il
lavandino del bagno, si era detta che in quegli anni probabilmente
aveva sbagliato su più punti con lui. Era stata troppo
tollerante, servizievole, permissiva, su troppe cose, soprassedendo su
certe sue cattive abitudini da maschilista, pur non lesinando di
rinfacciargli quanto la urtasse il suo comportamento da cavernicolo.
Annoiata dalla sua urlante assenza e dal reiterarsi senza risoluzione
di quelle riflessioni, accese la TV e si buttò sul divano.
Premendo un tasto a caso s’imbatté in una caustica
commedia americana appena iniziata e girata, neanche a farlo apposta,
proprio nella sfolgorante New York. Intrigata dapprima solo
dall’ambientazione, si soffermò a guardarla. In
alcune dinamiche tra i personaggi le sembrò quasi di
potercisi rivedere, o comunque di potersi identificare almeno in parte
nella combattiva e schietta protagonista, una brillante e caparbia
ragazza di belle speranze, refrattaria a sottostare a compromessi pur
di fare carriera nel difficile mondo degli squali della finanza1.
Innocentemente immaginò se stessa muoversi con autorevolezza
in quei tailleur sagomati dai colori austeri, a digitare numeri e
lettere restando dietro una scrivania, a concludere transazioni da
migliaia di dollari e magari anche ad innamorarsi, ricambiata, di un
fascinoso e ricco agente di borsa.
Immediatamente ripensò alla sua disastrosa esperienza nella
redazione del “Weekly news”, a quanto fosse stata
maldestra e casinista, inimicandosi tutti quelli con cui aveva avuto a
che fare, e si convinse di non avere alcuna attitudine per il
ripetitivo e serioso lavoro d’ufficio. Dopo il diploma aveva
interrotto gli studi e non si era mai più chiesta se avrebbe
ritrovato la volontà e l’abnegazione adeguate per
riprenderli o per cercare un’altra occupazione che fosse
davvero nelle sue corde. Inoltre era da mettere in conto che sarebbe
stata comunque scavalcata da altre concorrenti, più giovani
o più preparate di lei.
A dirla tutta, a lei quello di cui si occupava piaceva e molto.
Inizialmente era stata una decisione più istintiva che
ponderata, ma col passare degli anni aveva maturato una vera e propria
dedizione per quel lavoro, talvolta ai limiti della
legalità, così interessante, altruistico,
stimolante, che non si era ancora stancata di imparare e di ricevere
ringraziamenti per l’aiuto che contribuiva a dispensare. La
riconoscenza che sprizzava dai sorrisi di chi riuscivano ad aiutare
spesso valeva anche molto più dei compensi effettivi.
Percependo il basso brusio del televisore, Ryo capì che la
sua socia fosse rientrata e cercò di far cigolare il meno
possibile la porta d’ingresso, proponendosi di salire
difilato nella sua camera e aspettare che fosse lei a cercarlo. Ma,
avendo sete, deviò verso la cucina e si accorse che
c’erano diversi fogli sparpagliati sul tavolo della sala da
pranzo, volantini pubblicitari, bollette di cui non volle verificare
l’importo, una cartolina colorata e la brochure di
un’agenzia di viaggio che organizzava trasferte oltreoceano.
Un calpestio in avvicinamento lo sospinse a fiondarsi sul frigo, per
non farsi sorprendere a curiosare tra quelle carte.
«Già di ritorno?», lo raggiunse Kaori,
facendo capolino con un’espressione neutrale. Ormai stava
diventando sempre più difficile eludere i suoi sensi, almeno
quando erano in casa. Conosceva troppo bene i vari rumori e forse anche
la sua aura.
«Ci vivo anch’io qui, sai»,
biascicò seccato, aprendo una lattina di coca cola.
«E poi è quasi ora di cena. Come mai non hai
ancora preparato niente?»
La ragazza lo sorpassò, riaprendo il frigorifero per
prendere un vasetto di yogurt alla fragola: «Non mi va. E in
ogni caso non ti piace mai nulla di quello che cucino»,
borbottò con blanda permalosità, infilando un
cucchiaino in bocca e ancheggiando imperturbabilmente, nei suoi
fascianti fuseaux fucsia, verso il soggiorno.
«Beh, ma … Non sono mica così
schizzinoso! Mi sono sempre adeguato!», fu la balbettante
smentita di Ryo, che cadde miseramente inascoltata. Quel suo
atteggiamento respingente cominciava a procurargli un fastidioso
formicolio allo stomaco. O probabilmente era soltanto affamato.
Rovistò inutilmente non trovando avanzi di cibo di alcun
tipo in giro, e a ragion veduta: si spazzolava sempre tutto!
Mentre schiacciava la lattina ormai vuota, i suoi occhi furono
riattirati dal quel mucchio di fogli e buste apparentemente dimenticati
sul tavolo. La presenza in particolare di quell’opuscolo con
fotografie di città americane e tariffe aeree, con
ciò che avrebbe potuto significare, gli infuse un improvviso
senso di disagio. La sua verace coscienza però gli
suggerì che, tenendo conto di tutto lo schifo in cui era
stata coinvolta finora, avrebbero potuto esserci finali molto peggiori
di quello e che non poteva stare a sindacare una decisione tanto
sensata, per certi versi inevitabile. Non poteva negarle la
felicità.
Si sarebbe riadattato alla vita sbandata e solitaria che conduceva
prima di essere travolto da lei, e poi sarebbe stato più
libero di non dover sottostare a orari, regole, costrizioni ...
Un retrogusto amarognolo gli impregnava il palato, neanche quella
bevanda dolciastra e gassata era bastata a scacciarlo. Nascondendo il
depliant del tour operator sotto gli altri volantini, scorse di nuovo
quella cartolina colma di cuoricini e fiorellini cui aveva prestato
scarsa attenzione. Leggendola riconobbe il mittente e in lui
cominciò a concretizzarsi una specie di idea, o forse solo
di illusione. Quel posto sarebbe stato adatto ad una come lei. Non
sarebbe stata troppo lontana da lui, ma comunque abbastanza distante
dalla malavita.
Assumendo la sua migliore faccia da poker, entrò in
soggiorno, le mani affondate nelle tasche, sbirciando alla finestra:
«Hai più avuto notizie di quei
ragazzini?»
«Ragazzini?», barbugliò lei dubbiosa,
credendo di aver sentito male.
«Sì. Quelli di quell’orfanotrofio
… com’è che si chiamava?»,
continuò a divagare lui, ostinandosi a darle la schiena.
Kaori si tirò sulle ginocchia, appoggiando il busto contro
la spalliera del divano: «Quale dei due?», gli
domandò fingendosi confusa, intuendo già che lui
doveva aver visto quella tenera cartolina arrivata per posta.
«Casa fiorita?2».
Ryo si voltò, battendo il pugno sul palmo della mano
opposta, come se lei gli avesse risolto chissà quale
dilemma: «Non ci sei più andata. Si staranno
chiedendo se sei ancora viva … »,
asserì irriflessivamente, correggendosi subito dopo per
quella battuta di cattivo gusto. «Voglio dire …
Poverini, penseranno che ti sia dimenticata di loro».
Lei cercò di sondare il suo sguardo sfuggente rivolto alle
crepe del tetto. Quando cominciava a parlare in quel modo ermetico,
doveva sempre spremersi le meningi per tentare di capire cosa mai gli
stesse passando per quel cervello contorto che si ritrovava e quasi mai
le sue ipotesi si rivelavano esatte.
«Domani è sabato. Non dovrebbero esserci
scocciature. Potremmo andarci e vedere come stanno», si
sciolse a proporre esplicitamente il socio, punzecchiato dal suo
cipiglio fisso e inquisitorio su di lui.
Kaori titubò sbalordita: «Eh? Tu ti stai
offrendo, di tua
spontanea volontà, di accompagnarmi da un branco di mocciosi
petulanti?», lo interpellò incredula e divertita,
pensando che forse voleva semplicemente darle uno spunto di riflessione
perché restasse lì, in quella città,
in cui non esisteva soltanto lui.
Ryo fece spallucce, non scomponendosi affatto davanti a quegli occhi
vispi e brillanti che forse si erano già avveduti del suo
espediente: «Ci ho investito anch’io una parte dei
miei guadagni nella ricostruzione di quell’istituto,
ricordi?»
La ragazza si riadagiò sui cuscini,
ricominciando ad armeggiare con il telecomando:
«Sì, si può fare», gli
accordò quale fosse una gran concessione. In
verità aveva già in programma di rispondere a
quell’invito, adorava passare del tempo con quegli sfortunati
birbantelli e rammentava bene che anche Ryo in mezzo a loro tornava
bambino ed era incapace di resistere ai loro giochi e alle loro moine.
«E adesso dove vai?», sussultò
insospettita, sentendolo sgusciare via alle sue spalle.
«A cercare qualche anima pia che mi riempia il
pancino», replicò pietosamente lui.
Kaori distese le gambe, scattando in piedi: «Scemo,
aspetta!», lo richiamò sospirando pazientemente e
dirigendosi spedita in sala da pranzo.
Lui appese lo spolverino e la seguì, accomodandosi sulla
panca nell’attesa che lei s’ingegnasse a cucinargli
qualcosa per mettere a tacere quel persistente brontolio. Assalito da
uno strano nervosismo, automaticamente tirò fuori dal
taschino il pacchetto di Lucky Strike e l’accendino, ma si
guardò bene dal proseguire. Lei lo aveva sempre pregato di
non fumare a tavola e quello era uno dei pochi compromessi cui si era
piegato.
Ogni tanto era tentato di darle una mano, ma, non sapeva neanche lui
spiegarsi per quale ragione, la possibilità che lei potesse
ringraziarlo per quell’insolita cortesia lo inibiva anche
solo dal muovere un dito.
«Un giorno ci andrai, Kaori», si decise a rompere
quella carenza di parole, picchiettata dal suo tramestio con padelle,
taglieri e utensili da cucina.
«Uhm?», mormorò lei distrattamente,
continuando a sbattere con un frustino qualcosa di cremoso dentro una
scodella.
Ryo si schiarì la gola, bevendo a canna da una bottiglia di
birra: «Sono sicuro che con la tua tirchieria riuscirai a
mettere da parte abbastanza yen per andare a trovare Sayuri»,
affermò incoraggiante, osservando di nuovo le immagini
patinate della così detta Grande Mela che campeggiavano su
quella guida turistica.
Lei allora capì da dove gli fosse scaturita
quell’affermazione. Aveva voluto prendere quel
dépliant per sentirla in qualche modo più vicina.
E per adesso le bastava così.
«Io credo sia più facile che avvenga il
contrario», mormorò serena, voltandosi con la
ciotola tra le braccia, un sorrisetto birichino
nell’avvicinarsi a lui, «Sempre che nel frattempo
qualche amico farfallone non faccia cambiare idea anche a
lei …», chiosò allusiva, dandogli un
colpetto di frusta sulla punta del naso e sporcandolo con la pastella
che aveva appena preparato per la tempura.
«Ma che fai, stupida!?», si ripulì
indignato lui, ignorando quell’ammiccamento e
schivando altri schizzi di farina rappresa, «Chiamami
quand’è pronto», si allontanò
accigliato, portandosi una sigaretta tra le labbra che si tesero
impercettibilmente all’insù.
1 Il film che ho immaginato Kaori
stesse guardando è "Una donna in carriera" (1989) di Mike
Nichols, con Melanie Griffith, Sigourney Weaver e Harrison Ford.
2 L'orfanotrofio "Casa
fiorita" è presente solo nell'anime, precisamente
nell'episodio doppio "Il più bel regalo di Natale" (2x37 e
2x38); alla fine viene demolito dai cattivi e i due City Hunter si
propongono di pagarne la ricostruzione; l'altro orfanotrofio "La casa
del sole" è invece presente negli episodi "Non toccate la
memoria di Jeff" (2x27 e 2x28), da cui la domanda di Kaori
per capire a quale dei due si riferisse Ryo.
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