bess
Nobody
can save me
now
Just
one more time
before I go
I'll
let you know
That
all this time I've been afraid
Wouldn't
let it show
Nobody
can save me now, no
Nobody
can save me now
[Imagine
Dragons –
Battle Cry]
15
dicembre 1992
Mi guardo attorno e constato che durante questi anni di
assenza non è cambiato niente: sulla porta
d’ingresso dai vetri sudici svetta
la solita insegna sinistramente illuminata da una luce grigiastra, su
cui a
malapena si possono leggere cinque lettere scrostate dal tempo: Alibi.
Sembra essere passata un’eternità da quando ho
messo piede per
l’ultima volta in questo locale: il luogo in cui ho trascorso
la mia
adolescenza, in cui mi sono bagnata per la prima volta le labbra con
l’alcol,
in cui ho fatto il primo tiro di sigaretta, in cui ho fatto a pugni con
la vita
e mi sono procurata i primi lividi.
Mentre spingo la pesante porta a vetri, all’improvviso mi
sento di nuovo una ragazzina incazzata col mondo che va a rifugiarsi
dai suoi
amici, incazzati e frustrati come lei. Chissà se qua dentro
troverò le stesse
persone di sei anni fa, chissà se le regole del gioco sono
rimaste le stesse.
Vengo avvolta da una nuvola di calore talmente pressante da
risultare fastidioso, frammista all’odore di tabacco stantio,
alcol e corpi –
ed è tutto così familiare, esattamente come lo
ricordavo; è come fare un salto
indietro nel tempo. Il solito vecchio stereo diffonde
nell’aria della musica
rock, sottofondo per il chiacchiericcio allegro dei clienti, e sul
palchetto
all’angolo sono ammassati alcuni amplificatori.
Mi guardo attorno e quasi resto a bocca aperta: nulla è
cambiato, nulla. Ci sono ancora i vinili dei
Rolling Stones e dei Pink
Floyd appesi alle pareti, c’è la vecchia lampada
in un angolo del bancone che
proietta la sua luce aranciata, ci sono i tavolini incrostati di birra
attorno
a cui gruppi di ragazzi dai capelli lunghi e ragazze dal trucco pesante
ridono
e affogano il loro dolore in bicchieri pieni d’alcol e
schiuma.
Faccio scorrere lo sguardo tra i volti che affollano il
locale in cerca di qualcuno di conosciuto; ho quasi paura di rivedere
uno dei
miei vecchi amici, sono passati così tanti anni che non
saprei nemmeno che dire
o cosa aspettarmi.
“Ehi ragazzina, levati dal cazzo!” sento gridare
alle mie
spalle, prima che qualcuno mi spinga con forza in avanti, rischiando di
farmi
perdere l’equilibrio.
Mi volto di scatto e incenerisco con lo sguardo l’artefice
del gesto: è un ragazzino che avrà
all’incirca sedici anni, con lo sguardo strafottente
e un sorrisetto da padrone del mondo.
“Ragazzina lo dici a tua madre,
stronzo” ribatto in
tono acido, prima di dargli le spalle e dirigermi in fretta verso il
bancone.
D’accordo che mi trovavo impalata di fronte alla porta e
ostruivo il passaggio,
ma c’è modo e modo di rivolgersi al prossimo.
Poggio i gomiti sulla lastra in marmo – quante persone hanno
tirato su strisce di coca su questo lurido bancone quando frequentavo
abitualmente l’Alibi! – e rifletto se sia il caso
di scaldare i motori con una
birra o passare direttamente a qualcosa di più forte, quando
una figura a
qualche metro da me attira la mia attenzione e mi ritrovo a osservarla
con la
coda dell’occhio. Si tratta di un ragazzo alto e asciutto con
indosso una
t-shirt nera – alla faccia del freddo di dicembre –
che mette in risalto le sue
spalle larghe ma non troppo imponenti; il suo viso, dalla carnagione
olivastra
e i lineamenti marcati, mi colpisce come un pugno nello stomaco, ma
sono i suoi
occhi ad annientarmi definitivamente e aprirmi una voragine nel petto.
Quegli
occhi enormi, talmente neri che l’iride si fonde con la
pupilla, così profondi
e imperscrutabili ma in cui io ho sempre letto un dolore troppo grande
per
essere espresso.
Quegli stessi occhi che ora, probabilmente annebbiati
dall’alcol, scorrono per un attimo su di me senza realmente
vedermi, mentre il
loro proprietario continua a chiacchierare con i suoi due amici, la
schiena
poggiata contro il bancone e un’intera bottiglia di Jack
Daniel’s stretta tra
le mani.
Ethan.
Oh, non è cambiato per niente. È sempre
stato un grande
amante del Jack Daniel’s.
A quel pensiero, le labbra mi si increspano in un sorriso
amaro. Dovevo immaginare che non avrebbe mai cambiato le sue cattive
abitudini…
quante volte gli avrò ripetuto che stava esagerando con
l’alcol?
È talmente tanto sbronzo che non mi ha riconosciuto. Non ci
posso credere.
Mi soffermo per un istante a osservare i due ragazzi con cui
sta chiacchierando. Uno dei due, dai capelli a spazzola biondo scuro,
lo
ricordo molto bene: si tratta di Oliver, il cantante del gruppo in cui
Ethan
suonava – suona ancora? – la chitarra, mentre
l’altro è un tipo minuto che
faceva parte della nostra cerchia ma con cui non ho mai avuto molto a
che fare,
mi pare si chiamasse Jeff.
Aggrotto le sopracciglia e scruto attentamente nelle
vicinanze. È davvero strano che Ethan non sia insieme ad
Ives, il suo migliore
amico; quei due erano inseparabili, quando li ho conosciuti si
spostavano
sempre in simbiosi e faccio fatica a credere che abbiano avuto qualche
discussione.
Ma in fondo che ne so? In sei anni possono cambiare tante
cose.
Stufa di stare nell’ombra – tanto Ethan non mi
riconoscerà
mai senza un piccolo aiuto – decido di agire: faccio qualche
passo avanti, piazzandomi
proprio accanto a lui, e mi schiarisco teatralmente la gola.
Il primo a posare lo sguardo su di me è Oliver, che sgrana i
suoi occhi verdi – avevo un debole per i suoi occhi da
ragazzina – con stupore.
“Tu?! Sto avendo un’allucinazione?”
“Dipende da quanta coca hai tirato su” ribatto
prontamente,
stringendomi nelle spalle.
Lui scoppia a ridere e mi batte una pacca sulla spalla. “Non
sei cambiata di una virgola, stronzetta!”
Jeff invece fa un passo indietro, quasi intimidito dalla mia
presenza. Ricordavo che non fosse un tipo molto loquace.
Quando finalmente incrocio lo sguardo di Ethan, lo trovo che
mi squadra da capo a piedi, confuso e annebbiato dall’alcol.
“Tu sei Bess”
afferma infine, lentamente, e anche la sua voce profonda e calda
è rimasta esattamente
come la ricordavo.
“Sì. E tu sei Ethan” constato io con
ovvietà, in tono sicuro.
In realtà sono molto più agitata di quanto do a
vedere.
“Ti stanno bene i capelli di questo colore”
biascica in tono
piatto; è palese che non sa come portare avanti la
conversazione, non sa che
dirmi. Del resto non è mai stato un tipo loquace.
D’istinto mi porto una mano tra le ciocche lisce.
“Ce li
avevo blu anche nell’86, quando sono partita. Vedo che la
memoria non è il tuo
forte.”
“Certo, è talmente sbronzo che è
già tanto se riesce ancora
a parlare!” interviene Oliver.
“Fottiti” ribatte prontamente Ethan, prendendo poi
un lungo
sorso dalla sua bottiglia.
“Comunque,” mi si rivolge nuovamente il biondo,
“come mai di
nuovo a Los Angeles? Com’era
l’Inghilterra?”
Mi stringo nelle spalle, come a voler liquidare l’argomento;
Oliver è quasi un completo sconosciuto per me, di certo non
mi confiderò con
lui. “Londra è una città un
po’ stronzetta: vuole farti credere di essere
normale, ma a una seconda occhiata capisci che è solo una
facciata. Comunque la
mia giungla è qui, in California.”
“Ammettilo, ti mancavamo troppo” soffia Ethan
strascicando
le parole, e il suo alito pesante di whiskey mi accarezza la guancia.
Rabbrividisco appena, cercando di non darlo a vedere, e mi
volto a osservarlo con le sopracciglia aggrottate; quelle non sembrano
nemmeno
parole sue. C’è qualcosa di veramente strano in
lui: lo conosco abbastanza bene
da sapere che regge molto bene l’alcol, quanto deve aver
bevuto per ridursi
così? Ricordo anche che detestava perdere eccessivamente il
controllo su di sé,
stava sempre attento a mantenere quel briciolo di lucidità
necessaria a capire
cosa stesse succedendo; in genere era lui a dover assistere Ives quando
si
sballava troppo e usciva fuori di testa.
“Cosa cazzo ti è successo, Ethan?”
mormoro tra me, talmente
piano che lui non sembra udirmi, mentre lo scruto bene in volto.
Davanti a me
non c’è più quel ragazzo sicuro di
sé e in grado di trasmettere un senso di
protezione con la sua sola presenza, ma c’è un
giovane uomo dalle iridi tristi
che implorano aiuto, e l’unico suo appiglio per non
sprofondare è una bottiglia
vuota per metà. Solo ora, leggendo quel viso contratto da
chissà quale pesante
preoccupazione, mi rendo conto che in sei anni è cambiato tutto.
“Ehi, Bess” mi richiama Jeff, riportandomi
bruscamente alla
realtà; il ragazzo sembra finalmente aver preso coraggio
dopo aver ascoltato
tutta la conversazione in silenzio. “Non hai ancora bevuto
niente, vero?
Possiamo offrirti qualcosa noi!”
“No, grazie, non serve” mi affretto a dire, poi mi
volto
nuovamente verso Ethan e con uno scatto fulmineo gli strappo la
bottiglia dalle
mani; lui cerca di opporre resistenza, ma è talmente
intorpidito che molla
subito la presa. “Almeno non lo bevi tutto da solo. Sei
già abbastanza ubriaco
così” affermo con un sorrisetto beffardo, prima di
prendere un sorso di Jack
Daniel’s.
Ethan aggrotta le sopracciglia scure e spesse, indurendo
ancora di più i suoi lineamenti. “Sei rimasta la
solita stronzetta, eh? Rendimi
la bottiglia” sibila in tono ostile.
“Quanto sei egoista, non vuoi condividere niente con la tua
vecchia amica?” lo punzecchio, ma in realtà sono
preoccupata dalla sua reazione
così irritata.
“Rendimela, cazzo” ripete, sollevando appena il
tono della
voce e muovendo un passo verso di me; siamo occhi dentro occhi, sento
il suo
fiato caldo sul viso e il suo odore forte e mascolino –
credevo di essermelo
dimenticato, invece è come se non fosse passato nemmeno un
giorno – mi pizzica
le narici.
“Altrimenti che mi fai?” lo sfido, portandomi la
bottiglia
dietro la schiena per impedirgli di arrivarci.
“Bess…” Mi afferra il braccio destro nel
tentativo di
raggiungere l’oggetto dei suoi desideri e mi strattona
leggermente, ma
contemporaneamente io mi volto per cercare di sfuggirgli e finisco con
la
schiena premuta contro il suo petto bollente e avverto il suo respiro
tra i
capelli.
Ma soprattutto col bacino premuto contro di me.
E sento il suo corpo reagire non appena entra in contatto
col mio.
E mi rendo spaventosamente conto che, nonostante siano
passati tanti anni, lo desidero esattamente come lui desidera me.
E mi sento nuovamente una dodicenne alle prime armi, che
fingeva di essere tanto sicura di sé ma si scioglieva tra le
mani del suo primo
ragazzo.
Dura solo qualche istante, poi Ethan si stacca da me quasi
disgustato – ha sempre detestato i contatti fisici troppo
affettuosi e le
effusioni – e, nello sciogliere il nostro strano abbraccio,
mi sfila la
bottiglia dalle dita ancora prima che io possa accorgermene.
“E che cazzo!” Mi volto per trucidarlo con lo
sguardo e lo
trovo che mi sorride sornione, con quell’espressione da
ragazzino impertinente che
mi ha sempre affascinato.
“Sono un ragazzo di strada, Bess. Sono un ladruncolo e in un
modo o nell’altro riesco sempre a ottenere quello che
voglio” afferma, prima di
scolare il restante whiskey in una lunga sorsata.
Sbuffo, lancio un’occhiata a Oliver e Jeff – che
hanno perso
subito interesse per noi e hanno preso a parlottare tra loro
– e torno a
concentrarmi su Ethan. Per la prima volta da quando lo conosco non so
bene cosa
dire e ho l’impressione di avere a che fare con uno
sconosciuto. O forse sono
soltanto confusa perché ho appena realizzato che entrambi
proviamo la stessa
attrazione di dieci anni fa.
Tutto d’un tratto lo vedo poggiarsi pesantemente al bancone
alle sue spalle e portarsi una mano alla tempia.
“Ethan?” lo richiamo, avvicinandomi e squadrandolo
con
attenzione: ha il volto arrossato e lo sguardo perso davanti a
sé. “Ecco, lo
sapevo che mandare giù tutto quel Jack in una volta ti
avrebbe fatto male.
Senti…” Mi mordo il labbro prima di continuare,
non so se sia la cosa giusta da
fare, ma ormai sono in ballo. “Come ci sei arrivato qui? Hai
una macchina?”
“Non ho un cazzo.”
Bene. “Se mi dici dove abiti, posso accompagnarti io a
casa.”
“Oh… fanculo.”
Sbuffo. “Benissimo, andiamo. Mi hai rovinato la serata, alla
fine non ho nemmeno ordinato da bere” lo rimprovero in tono
irritato, mentre
gli afferro il polso per trascinarlo via – senza il supporto
di qualcun altro,
sembra totalmente incapace di muoversi.
Intercetto Oliver, che intanto si è avvicinato a un tavolino
per chiacchierare con alcuni ragazzi, e gli faccio un cenno.
“Beve sempre così
tanto il tuo amico?” gli domando a gran voce.
Lui si stringe nelle spalle. “Certe volte è anche
peggio.
Dove lo porti?”
“A casa. Ma, dimmi una cosa…” Faccio una
breve pausa,
indecisa se porre quella domanda, poi prendo coraggio.
“Dov’è finito Ives?”
Le iridi verdi di Oliver si rabbuiano improvvisamente, come
se al loro interno si fosse scatenata una tempesta. “Ci si
vede in giro, Bess”
mi liquida in fretta lui, prima di distogliere lo sguardo.
Ahi.
Fuori fa un freddo pazzesco. Mi getto il cappotto sulle
spalle, ma mi rendo conto che Ethan non ha appresso nessun indumento
per
coprirsi; eppure, nonostante indossi soltanto una maglia in cotone e un
paio di
jeans, non sembra particolarmente scosso dal gelo della notte, complice
l’alcol
che lo scalda dall’interno.
Ma, non appena ci ritroviamo sul marciapiede, il suo volto
comincia a riacquistare un colorito normale e anche il suo sguardo
torna a
essere più lucido.
“Vivi sempre nell’appartamento a Laurel
Canyon?” domando,
mentre rovisto frettolosamente nella mia borsetta in cerca delle chiavi
dell’auto.
Ethan sta in silenzio, sembra che si stia pian piano
riprendendo e stia tornando alla realtà. Continua a tacere
– ora sì che lo
riconosco – finché non saliamo sulla mia auto, un
pick-up scassato di seconda
mano che ho preso non appena sono tornata a Los Angeles.
Metto in moto, accendo l’autoradio e mi volto verso Ethan:
lo trovo rilassato sul sedile del passeggero, con
quell’atteggiamento da
padrone di casa che gli è sempre appartenuto e lo fa
risultare così fuori luogo
su questo catorcio piccolo e malconcio.
“Allora? Vivi ancora nell’appartamento con
Ives?” incalzo
nuovamente. Se non mi dà l’indirizzo, non lo posso
accompagnare.
“No” ribatte bruscamente, poi mi comunica il nuovo
domicilio.
Nell’abitacolo, come era prevedibile, cala il silenzio, reso
meno pesante soltanto dalla musica in sottofondo. Mi concentro sulla
guida –
ancora devo ben abituarmi a pensare al contrario, dato che ho preso la
patente
in Inghilterra – e nel frattempo un milione di domande mi
affollano la mente:
vorrei sapere tante cose su Ethan, come mai ha cominciato a bere
così, che fine
ha fatto la sua band, come mai nessuno vuole parlare di Ives. E
soprattutto mi
domando in che modo si concluderà la nostra serata una volta
giunti a
destinazione, anche se forse la risposta è fin troppo ovvia.
Sento Ethan respirare piano al mio fianco, penserei che stia
dormendo se ogni tanto non lo vedessi con la coda dell’occhio
mentre sposta lo
sguardo da me alla città che si srotola fuori dal
finestrino. E vorrei tanto
sapere cosa gli frulla in testa, vorrei che buttasse fuori tutto
ciò che lo
tormenta – da sempre, da quando lo conosco, da quando i suoi
occhi erano troppo
seri per essere quelli di un ragazzino di quattordici anni.
“Cosa cazzo stai combinando con tutto
quell’alcol?” me ne
esco infine. Ecco, ho cominciato con l’argomento peggiore tra
tutti quelli che
potevo scegliere.
“Lo bevo. In genere si fa così con le bevande
alcoliche.”
“Che spiritoso.”
“Bess, non rompere il cazzo.”
Prendo un respiro profondo per calmarmi. “Quando sono
partita eri diverso. Suonavi la chitarra, ti divertivi, sognavi…
che
fine hanno fatto gli Storm It Down?” domando, scandendo ogni
parola – e
sperando di aver azzeccato il nome della sua band, è passato
così tanto tempo…
Mi fermo a un semaforo giusto in tempo per vedere Ethan
ghignare appena e una scintilla attraversargli gli occhi, è
qualcosa simile
alla rabbia. “Gli Storm It Down” ripete, come se
quelle tre parole gli fossero
estranee. “La band è morta. Ives è
morto, Bess. Overdose, 1989.”
E lo dice in una maniera così diretta, quasi distaccata, che
è come ricevere tante pugnalate.
Ives è morto.
Il ragazzino dagli occhi blu, sempre sorridente, che
aveva una buona parola per tutti.
Il migliore amico di Ethan.
Mi volto lentamente verso il ragazzo che sta alla mia
destra, e chi se ne importa se il verde è scattato e gli
autisti dietro di me
suonano il clacson come ossessi. “È uno dei tuoi
scherzi di cattivo gusto,
vero?”
Ethan sostiene il mio sguardo, ma sembra non vedermi
realmente. “È la verità. È
la fottutissima verità. È morto,
porca
puttana.” E calca talmente tanto la mano su quelle parole, le
mastica
rabbiosamente e poi le sputa in una maniera che fa quasi paura.
Non vuole far trasparire nessuna emozione, perché
preferirebbe morire a sua volta piuttosto che mostrarsi fragile, ma non
mi
sfugge la mano che stringe a pugno, abbandonata all’altezza
del suo grembo.
“Cazzo” riesco soltanto a commentare, mentre torno
a
concentrarmi sulla guida – effettivamente sto ostruendo il
traffico, se non mi
sposto subito qualche autista scenderà dalla sua macchina
per linciarmi.
Frugo nella mia mente in cerca di qualcosa da dire, ma ogni
frase di circostanza mi sembra inadatta. Ives non era un conoscente
qualsiasi
per Ethan, non era nemmeno un semplice amico; loro due erano legati
quasi come
due anime gemelle, riuscivano a comunicare senza aprir bocca, si
leggevano
quasi nel pensiero. Condividevano il sogno di diventare musicisti
famosi –
anche quello per Ethan sembrava sfumato –, condividevano il
futuro, i demoni,
la casa, la vita.
Per lui, ci scommetto, Ethan si sarebbe anche gettato in
mezzo alle fiamme.
E adesso si spiega tutto, si spiegano i suoi occhi spenti.
Insieme ad Ives, è morta anche una parte di lui.
“Lo amavi tanto, vero?” spezzo il silenzio qualche
minuto
più tardi. Che domanda idiota.
“Ives è il mio
fratellino” risponde lui senza
esitare, nel tono più fermo e tranquillo del mondo.
Quel verbo al presente mi devasta.
“Posso fare qualcosa per te?” Altra domanda idiota.
“Puoi riportarlo in vita?” chiede ironico, ma il
suo tono
assume un’inflessione lugubre.
So benissimo che non posso aiutarlo in alcun modo, è
distrutto e ogni particella del suo essere sembra gridare nessuno
può
salvarmi.
“Sai già la risposta” mormoro.
“Ma c’è un’altra cosa che puoi
fare per me.” E, detto
questo, mi posa con eloquenza una mano sul ginocchio.
E io mi sento di nuovo una ragazzina di dodici
anni alla sua prima volta.
Mi rigiro appena tra le lenzuola, mi stendo su un fianco e lo
osservo mentre fuma una sigaretta affacciato alla finestra, il bagliore
grigiastro di dicembre gli accarezza il viso bellissimo e provato,
insieme
all’aria gelida che si insinua nella stanza.
I capelli corti e scuri, divinamente scompigliati dalla
notte appena trascorsa, accentuano ancora di più i suoi
occhi grandi e
profondi, il naso allungato, le labbra sottili ma piene.
Lascio scorrere lo sguardo sul suo fisico slanciato, dai
muscoli ben definiti ma mai troppo imponenti, e mi chiedo come possa
essere
ancora così perfetto come lo ricordavo, dopo tutte le
batoste che ha preso
dalla vita. A vederlo così, con addosso soltanto un paio di
boxer neri, mentre
fuma lentamente e con movimenti misurati, pare che Ethan abbia
l’intero mondo in
pugno. Dà l’impressione di avere tutto sotto
controllo, di poter uscire da
questo squallido monolocale da un momento all’altro e
spaccare tutto, ammaliare
l’intero genere umano, uscirne vincente.
Ma, quando ieri notte ci siamo amati, io ho percepito tutta
la sua fragilità mentre si aggrappava a me con forza, mentre
mi faceva sua con
prepotenza e disperazione, si impossessava di ogni centimetro del mio
corpo
minuto senza chiedere permesso e scusa. Non abbiamo fatto
l’amore – nemmeno la
prima e unica volta in cui siamo stati insieme l’abbiamo
fatto – perché non
siamo fatti per la dolcezza; mi ha scopato, mi ha preso con rabbia, e
poi si è
allontanato da me perché detesta le carezze e i gesti
d’affetto.
A me va bene così, pure io volevo solo scopare. Ma la
verità
è che di Ethan mi importa più di quanto io stessa
voglia ammettere e, quando
l’ho visto rannicchiarsi su se stesso e seppellire il volto
nel cuscino, avrei
voluto accostarmi a lui e stringere quel corpo tremante e colmo di
dolore,
donargli un po’ di conforto, prendermene cura.
Un giorno gli chiederò perché detesta tanto
essere
abbracciato e coccolato, perché non ha mai concesso a
nessuna ragazza qualcosa
in più del semplice sesso.
Un giorno lo farò, ma non oggi.
Distolgo lo sguardo da lui e mi guardo attorno per la prima
volta, dato che ieri notte nella foga del momento non me ne sono
preoccupata.
Il monolocale è piuttosto spoglio, fatta eccezione per un
giradischi, uno
stereo, qualche chitarra elettrica e acustica ammassata in un angolo e
una mole
impressionante di cassette, vinili, CD, libri e riviste. Tutto in
questa stanza
sembra parlare di Ethan.
Poi la mia attenzione viene attirata da una valigia aperta e
piena per metà, abbandonata per terra accanto al comodino.
“Come mai la valigia?” domando, la voce ancora
impastata dal
sonno.
Ethan schiaccia il mozzicone sul davanzale, richiude la
finestra e comincia a raccattare qualche oggetto sparso per la stanza.
“Dopodomani parto.”
“Parti?” Mi metto a sedere sul materasso, facendo
ben
attenzione che le coperte non scivolino via dal mio corpo nudo. Fa un
freddo
impressionante, mi domando come faccia lui a stare tranquillamente
svestito.
“Hai presente Davi, il mio fratello maggiore? Quello che
spacciava.”
Annuisco: Davi era entrato in un giro importante prima che
io mi trasferissi a Londra, aveva un sacco di soldi e pagava anche
l’affitto
dell’appartamento di Ethan.
“Qualche giorno fa l’hanno arrestato. È
finita, siamo nella
merda.” Getta un libro e qualche disco nella valigia, in
mezzo ai vestiti
spiegazzati che vi sono già, poi si lascia ricadere ai piedi
del letto, attento
a non incrociare il mio sguardo. “Mio fratello è
stato chiaro: se l’avessero
beccato, io sarei dovuto partire immediatamente e stare via dalla
città almeno
per un anno. Ha dei buoni contatti e riuscirà a coprirmi e
cancellare ogni
collegamento tra me e lui, ma nel frattempo è meglio che io
me ne tenga alla
larga. Mio fratello mi ha salvato il culo tante volte, per questo non
mi ha mai
voluto coinvolgere nei suoi giri.”
“Cazzo. Dove andrai?” gli domando.
“Dopodomani ho l’aereo per il Brasile. Torno a
Bahia.”
Sgrano gli occhi. “In… Brasile? Ethan, tu non hai
più niente
lì! Dove vivrai, per strada?”
“Può essere. Cosa cambia?”
“Ma…”
“Mi stai davvero facendo la predica?” Ethan solleva
lo
sguardo di scatto e mi fissa con un’intensità
nuova. “Bess, io per strada ci
sono cresciuto. E poi che cos’ho da
perdere?” Fa un ampio cenno con la
mano all’ambiente circostante. “Cosa mi
è rimasto qui? Probabilmente a mio fratello
daranno l’ergastolo e non lo rivedrò né
risentirò mai più, nessuno deve capire
che ci conosciamo.”
Ci rifletto su un attimo e solo ora mi rendo conto della
catastrofe che è la vita di questo ragazzo: il suo migliore
amico se n’è andato
per sempre, i suoi sogni si sono infranti e si è ritrovato
senza un futuro,
l’unico membro della sua famiglia che poteva aiutarlo
è fuori gioco e di
conseguenza tutti i fondi monetari gli sono stati tagliati, non
può più vivere
nella città in cui è cresciuto. Tanti piccoli
macigni si sono accumulati sulle
sue spalle fino a formare una valanga troppo grande, che ora lo sta
schiacciando.
Adesso, mentre lo guardo, posso quasi percepire le sue
spalle incurvarsi.
“Appunto, arriverai in Brasile a mani vuote. Come pensi di
fare?” gli domando, seriamente preoccupata.
Lui scoppia a ridere, ma non c’è traccia di
divertimento
nella sua risata. “Non l’hai capito? Mi possono
anche piantare un proiettile in
testa a questo punto, non me ne fotte niente.”
“Ma non dire cazzate!” sbotto con rabbia. Mi viene
voglia di
pestarlo quando parla così. “Hai venticinque anni,
la vita te la puoi ancora
costruire. E sappiamo entrambi che ne sei in grado, sei sopravvissuto
praticamente a qualsiasi stronzata che la vita ti ha
proposto!”
“Che cazzo ne sai tu di me?” sibila e distoglie
nuovamente
lo sguardo, segno che ora si chiuderà nuovamente a riccio e
non parlerà più dei
fatti suoi. Mi devo già ritenere fortunata ad aver ascoltato
queste sue
confidenze.
Sospiro. “Hai ragione, non so niente di te. Ma promettimi
che questa non è l’ultima volta che ti
vedrò vivo.”
“Me la caverò. Come me la sono sempre
cavata” conclude in
tono piatto.
Se la caverà, da solo. Come se
l’è sempre cavata, da
solo. Perché è sempre stato
così, non ha mai avuto nessuno a cui
aggrapparsi, nessuno disposto a salvarlo: è sempre stato lui
l’angelo custode
dei più fragili, ma nessuno si domanda mai se pure agli
angeli qualche volta si
spezzano le ali.
Nessuno può salvarlo ora, nemmeno
stavolta, e lui è
troppo orgoglioso per chiedere aiuto. Nessuno può salvarlo,
perché preferirebbe
sprofondare nell’abisso piuttosto che ammettere di non
farcela con le sue
forze.
“Sei davvero un coglione, Ethan. Ti posso
abbracciare?”
“No.”
Certo che no, sono soltanto una delle innumerevoli ragazze
che si è portato a letto.
Lo osservo e mi lascio sfuggire un sorriso: anche lui per me
è soltanto uno dei tanti. O meglio, lo sarebbe se non fosse
così dannatamente
diverso dal resto del mondo, così ricco di sfaccettature e
misteri, così Ethan.
♠
♠
♠
Cari lettori
della serie e non, sono felicissima di aver
scritto la mia prima storia dal punto di vista di Bess! Chi segue
assiduamente Needles
e chi ha letto la mia ultima minilong, l’ha vista comparire
come personaggio
più o meno marginale ed effettivamente anche qui si muove in
funzione di Ethan
^^ ma avremo modo più avanti di indagarla meglio –
o più indietro, a seconda di
come si evolverà la storyline XD
Qui troviamo
un Ethan ancora distrutto dalla morte di Ives, la
persona che ha amato come si può amare solo un fratello, e
si è lasciato andare
al degrado, non combinando niente nella sua vita e continuando a farsi
mantenere dal fratello spiacciatore. Ma ormai la
“pacchia” è finita e Davi è
stato arrestato, quindi la vita di questo poveretto verrà
stravolta di nuovo…
non so voi, ma io sono molto preoccupata per il mio bimbo T.T
Per coloro
che non conoscono la serie – giudice compresa –
spero che la storia sia comunque comprensibile, ho cercato di dare il
meglio di
me nella caratterizzazione e di spiegare tutti i riferimenti!
Lascio
giusto un paio di notine per rendere ancora più
chiara la situazione ^^
Ethan dice
di dover tornare in Brasile perché lui, come
tutta la sua famiglia, è brasiliano ed è nato a
Bahia; tuttavia è fuggito
insieme a tre dei suoi fratelli (compreso Davi lo spacciatore) quando
aveva
solo cinque anni, per sfuggire da un padre violento e cercare un futuro
migliore. È da allora che non ci torna, ma intanto non ha
mantenuto i contatti
con nessun dei suoi parenti che abitano in Brasile e non ha nessun
punto di
riferimento.
Per quanto
riguarda la band, gli Storm It Down, è stata
fondata da Ethan (chitarra) e Ives (basso); la formazione
d’oro, attiva
soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta, comprendeva
anche OIiver alla
voce e Alick alla batteria ^^
Penso di
aver detto tutto!
Ringrazio
chiunque sia giunto in fondo e soprattutto
ringrazio Artnifa per il bellissimo contest, che mi ha dato la
possibilità di
dar vita a questa storia! :3
Alla
prossima!!! ♥
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