Gone
Disclaimer: questa
storia è veramente veramente lunga, supera le 13.000 parole.
Ed è davvero
drammatica e pesante. Vi basti pensare che io la chiamo Il Mostro.
Non voglio che nessuno
si senta obbligato a leggerla: se sei un mio lettore abituale e non te
la senti
di imbarcarti in una lettura così impegnativa, ti capisco e
non voglio che tu
ti senta forzato a farlo.
Pubblico questa shot
oggi, 26 settembre, perché nella mia story line oggi
è l’anniversario della
morte di Ives. Per me, che sono un po’ la sua mamma,
è un giorno doloroso.
Grazie anche solo per
aver aperto la storia e letto questo trafiletto. E se vorrete seguirmi
in
quest’avventura, spero di riuscire a passarvi anche una
minima parte delle
emozioni che ho provato io mentre scrivevo.
Gone
Angels with silver
wings
Shouldn't know suffering
I wish I could take the pain for you
If God has a master plan
That only He understands
I hope it's your eyes He's seeing through
[Depeche Mode
–
Precious]
Spalancai l’uscio e le mie pupille si scontrarono
con la
penombra che imperava nella stanza; le tende erano tirate e dalla
finestra
socchiusa filtrava una leggera e afosa brezza, che però non
riusciva a
dissipare l’opprimente odore di malattia.
Il cuore mi martellava nel petto, come ogni volta che
mettevo piede nella piccola zona giorno di casa mia. Cercando di non
fare
rumore, avanzai di qualche passo e presi un profondo respiro.
Posai lo sguardo su Ives.
Lo trovai rannicchiato sul divano come al solito, avvolto
nella pesante e sudicia coperta che ormai era diventata sua, con una
siringa
sporca di sangue ancora stretta tra le dita sottili. Teneva gli occhi
chiusi e
i suoi lineamenti parevano fin troppo distesi; le ciglia scure e lunghe
erano
l’unico dettaglio che spiccava sul viso diafano e smunto,
alcune ciocche
corvine si erano posate sulla pelle talmente sottile da sembrare
trasparente.
Da quando ero entrato nella stanza, non aveva accennato a
muoversi e reagire.
Restai immobile a osservarlo per alcuni interminabili
istanti – il mio respiro accelerava, alcune gocce di sudore
mi scorrevano tra i
capelli e lungo il collo, avevo preso a mordermi convulsamente il
labbro
inferiore – e cercai di scorgere in lui anche solo un minimo
indizio che stesse
ancora respirando.
Feci un passo avanti.
Deglutii a fatica.
Un altro passo.
Mi sporsi appena verso il mio amico e gli posizionai una
mano davanti al viso; il suo fiato, seppur leggero e quasi
impercettibile, mi
solleticò la pelle.
Tirai un sospiro di sollievo e un macigno che non sapevo
di avere sul petto si dissolse; riempii i polmoni d’aria e
tentai di placare
l’ansia che mi scorreva nelle vene.
Ives era ancora vivo.
Scostai un ciuffo di capelli che gli era piovuto sul viso
e i miei polpastrelli entrarono per un attimo in contatto con la sua
fronte:
era tiepida.
Decisi di prendermi qualche altro istante per stare
accanto a lui; attento a non svegliarlo, mi sedetti sul bracciolo del
divano e
mi posai una mano sul petto: il cuore continuava a battere
all’impazzata e
avevo il fiato corto.
Scene del genere erano ormai all’ordine del giorno
e, per
quanto mi mostrassi forte e tranquillo agli occhi di tutti –
Ives compreso –, venivo
assalito da un terrore folle ogni volta che dovevo rientrare a casa.
Tutti i
giorni, aprendo quella maledetta porta, temevo il peggio: mi preparavo
a
trovarlo privo di vita e dovergli dire addio.
Sospirai e posai nuovamente lo sguardo su Ives, mentre un
dolore sordo mi invadeva il petto. Ormai era solo questione di tempo,
lo
sapevamo entrambi, e lui non voleva che accelerare il processo: da
quando aveva
scoperto di avere l’AIDS non aveva voluto assumere nessuna
medicina – nemmeno
per alleviare i sintomi – e aveva preso a farsi ancora
più spesso, con dosi
sempre più abbondanti, nell’illusione che
l’eroina lo facesse star meglio e
nella speranza di porre fine al suo dolore e andarsene per sempre.
Ogni giorno, quando entravo nel piccolo soggiorno e
trovavo il pavimento disseminato di siringhe e incarti vuoti, mi veniva
voglia
di prenderlo a schiaffi e sputargli in faccia quanto fosse egoista:
voleva
togliersi la vita il prima possibile per smettere di soffrire, ma non
si
domandava mai se qualcun altro ci sarebbe stato male? Non gli importava
di tutti
coloro che gli volevano bene?
Poi mi costringevo a prendere un profondo respiro e
calmarmi: non avevo il diritto di giudicare come Ives aveva deciso di
vivere i
suoi ultimi istanti. Ormai non c’era più niente da
gridare, nulla per cui
combattere: il suo destino era segnato.
Era troppo tardi.
Sospirai e mi alzai a fatica.
Facendo attenzione a non sporcarmi e non ferirmi, sfilai
la siringa dalla mano di Ives e la gettai via; sistemai la coperta in
modo che
non sfiorasse il pavimento, poi riempii un bicchiere d’acqua
e lo poggiai a
terra accanto al divano, in modo che al suo risveglio lo trovasse a
portata di
mano. Non ero certo la persona più affettuosa al mondo e non
ero affatto
portato per prendermi cura di qualcun altro, ma volevo far capire ad
Ives che,
anche se stavo tanto tempo fuori casa e non ci incrociavamo mai, poteva
contare
su di me per qualsiasi cosa.
Mi soffermai per un ultimo istante a osservare Ives.
Sembrava quasi paradossale che un ragazzo come lui, col viso e
l’anima da
bambino, si fosse cacciato in una situazione del genere. Pareva ancora
troppo
giovane e innocente per conoscere il dolore, la dipendenza e la morte,
eppure
nei suoi ventun anni aveva sperimentato la sofferenza di una vita
intera.
Non lasciarmi, Ives.
Mi allontanai, come facevo sempre quando stargli vicino
mi faceva troppo male; afferrai una delle mie chitarre elettriche da un
angolo
della stanza e mi rintanai in camera mia.
Ogni volta che venivo assalite da emozioni troppo grandi
per essere espresse, sentivo il bisogno di riversarle tutte nella
musica.
° °
°
Coi gomiti appoggiati sul davanzale, aspiro l’ultima boccata
di fumo e lancio uno sguardo al cielo plumbeo sopra di me, gli occhi
ancora
affaticati dal sonno. L’autunno è cominciato da
qualche giorno e il suo
grigiore si è già abbattuto su Los Angeles,
spazzando via anche gli ultimi
granelli d’estate.
Come a voler presagire l’arrivo di una tormenta.
Schiaccio il mozzicone nella tazzina da caffè che utilizzo
come posacenere e mi allontano dalla finestra spalancata, prendendo un
respiro
profondo.
Stamattina mi sono svegliato in preda all’ansia, come spesso
mi capita in quest’ultimo periodo. Non è da me.
Mi devo dare una calmata e mantenere il controllo della
situazione, non posso permettermi di andare alla deriva insieme ad
Ives. Gli ho
promesso che sarei stato la sua roccia fino alla fine.
Mentre lascio la mia camera e mi dirigo verso il piccolo soggiorno,
percepisco ancora quel groppo in gola che non mi ha abbandonato dal
momento in
cui ho aperto gli occhi. Oggi sarà una giornata di merda, me
lo sento.
L’ambiente è immerso nella penombra e, anche se
non posso
scorgerlo chiaramente, suppongo che il mio amico stia ancora dormendo.
Mi
dirigo a passo leggero verso la credenza con l’intento di
prendere qualcosa per
colazione – onestamente mi si contorce lo stomaco alla sola
idea di mangiare –,
ma sono costretto a fermarmi di botto non appena il mio sguardo cade
sul
divano, generalmente occupato da Ives.
Non può essere.
“Cazzo” sputo fra i denti, mentre il cuore comincia
a
pulsarmi nelle orecchie e l’adrenalina mi riempie le vene.
Ives non c’è.
Col respiro spezzato e un mare di imprecazioni impigliate in
gola, raggiungo il bagno in poche falcate per controllare se il mio
amico si
trova al suo interno. È l’unica spiegazione
possibile, non c’è nessun altro
posto in cui si sarebbe potuto recare.
La porta è spalancata e la stanza, inondata dalla luce
grigiastra di fine settembre, è deserta.
“Ma porca puttana” sbotto con disperazione,
passandomi una
mano tra i capelli corti e fradici di sudore.
Torno presso il divano, afferro la coperta che vi è posata
sopra e la scaravento a terra, scalcio via istericamente il cimitero di
siringhe, fazzoletti sporchi e lacci emostatici sparsi
tutt’attorno – l’unico
segnale del fatto che Ives si trovasse qui fino a poco fa.
Come cazzo è possibile che sia sparito? Dove può
andare a
cacciarsi un ragazzino talmente magro e debole da non riuscire a
reggersi in
piedi?
Mi lascio cadere sul divano in preda allo sconforto e mi
passo le mani sul viso. Devo uscire di qui, andare a cercarlo, scovare
qualsiasi indizio che mi porti a lui. Non può essere fuggito
molto lontano…
È allora che lo noto.
Piccolo e bianco, ripiegato
in due e poggiato sul bracciolo del divano: un biglietto.
Annego una risata nell’ansia mentre lo afferro e lo dispiego.
Vorrei avere Ives davanti per poterlo riempire di insulti:
cos’è questa
pagliacciata, una sorta di caccia al tesoro? Mi sta forse prendendo per
il
culo? Direi che non è il caso di farmi preoccupare
più di quanto non lo sia
già.
Ma ogni traccia di rabbia e perplessità scivola via,
lasciando
posto a un’opprimente angoscia, non appena poso gli occhi
sulla scritta sbilenca
che marchia quel pezzetto di carta.
Ti ho disturbato
fin troppo, è arrivato il momento di andare
via. So di essere un inutile fardello e non voglio mai più
farti del male.
Non esistono le
parole giuste per ringraziarti di tutto ciò
che hai fatto per me, Ethan.
Ti amo come si
può amare solo un gemello, come si ama un
frammento della propria anima. Ovunque andrò, qualunque
sarà la mia fine, resterò
per sempre il tuo fratellino.
Ives
Il mondo comincia a
vorticarmi attorno, i polmoni bruciano
al centro del petto come in preda a un incendio.
No, non può essere. È uno scherzo.
Non se n’è andato.
Stringo quel fottuto bigliettino tra le dita fino a
macchiarlo di sudore e frustrazione, mentre dentro di me comincia a
montare una
rabbia indomabile.
Come ha potuto anche solo pensare di essere un peso per me?
Come ha potuto lasciare questa casa, andar via da solo senza dirmi
niente?
E come ho potuto io non accorgermene? Avrei dovuto
sorvegliarlo di più, essere presente e fare di
più per lui; invece, come un
codardo e uno stronzo, ho cominciato a evitarlo e a rientrare a casa il
meno
possibile, bloccato dalla paura di vederlo morire tra le mie braccia da
un
momento all’altro.
Altro che roccia, sono solo uno stronzo egoista.
Mi alzo, lancio il bigliettino a terra con violenza e sferro
un calcio al divano. Sono incazzato. Con Ives, con me stesso, pure con
gli
oggetti inanimati.
Devo ritrovarlo. Devo correre da lui e stargli accanto fino
al suo ultimo respiro, anche se mi si dovesse squarciare il petto per
il
dolore.
Mi avvio verso il telefono, sollevo la cornetta e compongo
freneticamente il numero di Davi. Detesto chiedere aiuto e ammettere di
non
sapere come fare da solo, ma lui è l’unico che
può veramente darmi una mano,
grazie a tutti i suoi contatti.
“Pronto?” risponde mio fratello in tono piatto dopo
qualche
squillo.
“Cazzo, Davi… Ives è sparito, porca
puttana!” esplodo in
portoghese con voce roca; solo allora, dopo aver pronunciato quelle
parole, mi
rendo conto dell’assurdità di questa situazione.
Non sta succedendo davvero…
“Okay, Ethan, calmati” ribatte Davi nella nostra
lingua
madre, col suo solito tono calmo e pacato.
“Mi dovrei calmare? Ives è moribondo ed
è scappato da casa
mia lasciandomi un biglietto d’addio, e io mi dovrei
calmare?! Io ti giuro che
quando lo troviamo, se sarà ancora vivo, lo
ucciderò con le mie stesse mani!
Ah, ‘fanculo… non so cosa cazzo fare!”
sbraito. Tremo di rabbia, talmente forte
che la cornetta rischia di cadermi di mano.
“Ethan! Smettila di urlare e datti una calmata, altrimenti io
riattacco e tu ti attacchi al cazzo” mi interrompe mio
fratello fermamente. “E
spiegami meglio cos’è successo, così
magari ti posso aiutare.”
Prendo un paio di respiri profondi. “Cosa vuoi che ti dica?
Stamattina mi sono alzato, sono andato in soggiorno e lui non era sul
divano,
era sparito. Non c’era in bagno, non c’era in
nessun fottutissimo angolo della
casa… e mi ha lasciato un biglietto in cui mi diceva che se
ne andava. Devo
trovarlo, era in condizioni pietose e non…”
“Chiamerò un po’ di gente e la
metterò sulle sue tracce.
Ives è uno dei miei clienti fissi, può essere che
abbia contattato qualcuno dei
miei ragazzi perché gli vendesse una dose. Magari qualcuno
l’ha visto, chiederò
un po’ in giro. Ti mando Josh a casa, okay?”
afferma in tono pacato.
Davi sembra avere sempre la situazione sotto controllo, il
solo sentirlo parlare è in grado di rassicurarmi e alleviare
appena la mia
ansia. So che per me – e di conseguenza per Ives –
farebbe qualsiasi cosa.
Esito per un istante prima di porgli la domanda che mi
frulla in mente; odio mostrarmi vulnerabile, ma in questo momento mi
sembra di
cadere a pezzi. “Tu non puoi venire qui, Davi?”
mormoro infine.
“Non posso, devo concludere un affare con un pezzo grosso
entro stasera, è venuto in città dal Messico.
Però tienimi aggiornato.”
Mi trattengo dall’impulso di buttar giù la
cornetta e
lanciare un grido di frustrazione. “Difficile la vita dello
spacciatore, eh?
Non puoi mai esserci quando serve” sputo fuori con sarcasmo.
Dall’altro capo del telefono scorre qualche istante di
silenzio. “Non sono parole che diresti a mente lucida, Ethan.
Devo andare, ti
mando Josh.”
Detto ciò, riattacca.
Sospiro e sistemo la cornetta al suo posto. La mia
affermazione non deve essergli piaciuta tanto: Davi fa tutto il
possibile per
me, vive immerso nell’illegalità e nel mondo della
droga per tirare avanti e
mantenere anche me, e sicuramente non piace nemmeno a lui dovermi stare
lontano
in una circostanza del genere.
Ma come al solito quando mi incazzo divento impulsivo e dico
cose che non penso.
Telefono a Oliver. Nessuna risposta. Logico: oggi è
martedì,
è al lavoro.
Telefono ad Alick e lui risponde al terzo squillo. Gli
spiego brevemente ciò che sta accadendo e lui, senza perdere
altro tempo, mi promette
che sarà qui il prima possibile e chiude la chiamata.
Mi avvio verso la finestra del soggiorno, la spalanco e scosto
bruscamente le tende – questa stanza non vedeva un raggio di
luce da anni, da
quando Ives ha occupato il mio divano e ha cominciato a bucarsi
– e mi guardo
attorno in preda allo sconforto.
Ogni centimetro di questo posto parla di Ives: sulla
spalliera del divano è abbandonata una sua maglietta nera e
stropicciata, il
suo basso è chiuso dentro la custodia e poggiato su una
sedia, sul tavolo
staziona un piccolo quadernetto in cui il mio amico annotava idee per
le sue
canzoni e accenni a testi e poesie. La sua essenza mi viene sbattuta in
faccia
con forza, eppure risulta già così distante,
ricoperta da una patina di
polvere; è come se Ives, pur vivendo in questa casa, se ne
sia andato già da
tanto tempo.
Sto impazzendo.
Ancora prima di accorgermene, mi ritrovo con una bottiglia
di Jack Daniel’s tra le mani e l’alcol che mi
incendia la gola. Faccio bene a
tenerne una scorta in casa; in questo momento ho davvero bisogno di
qualcosa
che mi aiuti a rilassarmi.
Ma stavolta non basterà un po’ di whisky a placare
la
tempesta che ho dentro.
“Mentre venivo qui ho fatto un bel giro completo del
circondario per controllare che Ives non fosse nei dintorni”
spiega Josh,
gesticolando e sistemandosi in continuazione il cappellino che ha in
testa. “Ho
sentito qualche altro spacciatore della zona e nessuno sembra averlo
visto.
Insomma, mi sembra assurdo! Nelle condizioni in cui è, mi
pare incredibile che
passi inosservato e che nessuno si accorga che qualcosa non
va!” esclama poi,
mettendosi in piedi e cominciando a camminare avanti e indietro per la
stanza.
È visibilmente preoccupato. Oltre che essere un subordinato
di mio fratello e lo spacciatore ufficiale degli Storm It Down, Josh
è un caro
amico della band e ha ricoperto anche il ruolo di roadie in alcune
occasioni:
ci ha visto crescere e avere successo, ci ha supportato e aiutato in
tutti i
nostri concerti, ci ha seguito negli spostamenti fuori città
e ci è stato
accanto anche durante la nostra distruzione. Non mi sorprende affatto
che Davi
abbia deciso di avvertire lui per primo e di spedirlo a casa mia.
Mi passo una mano sulla fronte e sposto lo sguardo su Alick
che, con le ciocche ricce e scure che gli piovono sul viso, tiene lo
sguardo
basso e non osa proferire parola. Non so cosa gli passi per la testa in
questo
momento, ma intuisco che stia facendo i conti con i suoi sensi di
colpa: da
quando ha saputo della malattia di Ives, il nostro batterista si
è pian piano
allontanato da noi e soprattutto da lui, probabilmente senza nemmeno
rendersene
conto. Non lo biasimo, è sempre stato un ragazzo troppo
sensibile.
Ma ora che Ives è sparito, è come se
l’incubo di tutti noi
si fosse concretizzato all’improvviso.
“Sentite, dobbiamo fare qualcosa. Io non ho la minima
intenzione di restare qui con le mani in mano mentre Ives se ne va in
giro
chissà dove” affermo, mettendomi in piedi e
afferrando le chiavi della macchina
poste sul piano del tavolo.
“Non sarebbe meglio che almeno uno di noi restasse
qui?”
Alick prende la parola all’improvviso e solleva una mano,
come a volermi
fermare.
Fisso lo sguardo nei suoi enormi occhi scuri e ci rifletto
per qualche istante.
“Alick ha ragione. Metti caso che Ives voglia tornare qui:
non possiamo lasciarlo da solo. E poi serve qualcuno che risponda al
telefono e
prenda tutte le comunicazioni che arriveranno” concorda Josh,
fermandosi
accanto a noi e incrociando le braccia al petto.
Guardo alternativamente l’uno e l’altro senza
sapere cosa
ribattere. Da una parte riconosco che abbiano ragione, è
necessario che almeno
uno di noi rimanga in casa, ma al contempo non so se sarei capace di
restare
ancora chiuso in quella che è diventata la mia prigione. Da
ore mi trovo qua
dentro a scervellarmi e sfiorare con lo sguardo tutti gli oggetti che
appartengono ad Ives, a dannarmi e chiedermi cos’avrei potuto
fare per evitare
tutto ciò.
“So a cosa stai pensando. Ma no, io non rimango da solo a
casa di un’altra persona” si tira subito indietro
Alick, leggermente a disagio.
“Non sia mai che ti accusi di avermi rubato un bicchiere
d’acqua… ma fammi il favore, parli come se fossi
uno sconosciuto” borbotto
ironicamente, pentendomene subito dopo. Ormai sono un fascio di nervi,
mi
spazientisco non appena mi rivolgono la parola.
“Però, Ethan, non ha tutti i torti. Forse
è meglio che tu
rimanga qui e non ti prenda altre responsabilità, per fare
delle ricerche in
maniera efficiente serve qualcuno che possa ragionare a mente
lucida”
interviene Josh in tono pacato, cercando di mantenere una conversazione
civile.
“E io non sarei in grado di ragionare a mente lucida?
Perché
ho bevuto un po’ di Jack Daniel’s?”
comincio ad alterarmi, affilando lo sguardo
e raddrizzandomi sulla sedia.
“Ethan…” Josh solleva gli occhi al cielo
e fa cenno di
lasciar perdere, poi si volta verso Alick e gli lancia uno sguardo
d’intesa.
Mi mordo il labbro per evitare di ribattere: dopotutto hanno
ragione. Devo smetterla di essere egoista e pensare a ciò
che voglio fare, se
Ives dovesse rincasare è giusto che mi trovi qui.
Alick si mette in piedi e i miei amici si dirigono verso la
porta d’ingresso.
“Ehi, Ethan” mi richiama Josh mentre abbassa la
maniglia,
voltandosi per incrociare il mio sguardo. “Andrà
tutto bene, lo troveremo. Per
qualsiasi cosa, ho il cercapersone appresso: lascia un messaggio
là.”
Mentre lui e Alick escono da casa mia, vorrei gridare che
nulla va bene da anni e che continuerò a
stare di merda finché Ives
soffrirà, ma le forze sembrano avermi abbandonato e le
parole, insieme alla
disperazione, mi rimangono incastrate in gola.
Allungo una mano, afferro la bottiglia quasi vuota e prendo
l’ennesimo lungo sorso. Vorrei soltanto smetterla di pensare.
I secondi si susseguono interminabili, uno dietro l’altro,
scanditi dal pesante ticchettio dell’orologio appeso alla
parete. E io resto
immobile, all’erta, con gli occhi chiusi, una mano sulla
fronte e il gusto del
Jack Daniel’s sulle labbra –
all’improvviso non sembra più così
buono, mi dà la
nausea.
È solo mezzogiorno e io ho l’impressione di non
dormire da
settimane. Mi sento spossato.
D’un tratto il trillo del telefono squarcia l’aria,
facendomi balzare in piedi. Mentre mi precipito ad afferrare la
cornetta, i
battiti impazziti del mio cuore pungono nel petto come spine.
“Chi è?” sbotto con voce roca.
“Ethan…” mi chiama la voce di Davi.
“L’hanno trovato? È vivo?”
incalzo subito, sedendomi sul
pavimento. Mi gira la testa.
“Non l’hanno trovato, ma l’hanno visto
stamattina presto.
Non è tanto, ma almeno sappiamo che direzione ha
preso.”
“E chi è il genio che ha incrociato Ives mentre
andava in
giro per strada come uno zombie e non ha pensato di avvisarmi? Lo sa
tutta la
fottuta città che viviamo insieme!” mi inalbero,
sempre più allibito e
spazientito.
“Los Angeles è piena di eroinomani e di
senzatetto, sai
meglio di me che poteva benissimo passare inosservato.”
Poggio il capo alla parete accanto a me. “Davi, per
favore…”
“Lo stanno già cercando ovunque. Ti prometto che
farò
setacciare ogni angolo della California se sarà
necessario.”
Mi alzo e metto giù senza aggiungere altro. Più
passa il
tempo, più l’angoscia mi contorce le viscere e mi
annienta.
Scruto per un attimo l’orologio: mezzogiorno e dieci. Forse
dovrei mettere qualcosa sotto i denti. Mi viene da ridere e da vomitare
al sol
pensiero.
Mi avvicino al divano – il luogo in cui ha albergato Ives
per più di tre anni – e mi accorgo di quanto sia
vuota questa stanza senza di
lui. Mi mancano i suoi occhi azzurri e assonnati che seguono tutti i
miei
movimenti, mi manca il suo sorriso appena accennato quando mi sedevo
accanto a lui,
mi mancano perfino i suoi colpi di tosse trattenuti a fatica per non
darmi
fastidio.
E se non dovessi rivederlo mai più? E se non facessi in
tempo a dirgli addio?
Mi lascio scivolare sul divano e non me ne fotte niente se è
sudicio, impregnato di malattia, di sudore e di eroina,
perché tutto ciò fa
parte di Ives; poso la testa sulla spalliera nel punto in cui la posa
sempre
lui, chiudo gli occhi e prego affinché, ovunque si trovi in
questo momento,
riesca a sentire i miei pensieri.
Ives, dove sei?
Non mi muoverò da questo divano finché lui non
tornerà da
me, perché questo tessuto lurido e consumato mi fa sentire
più vicino al mio fratellino.
E se mi dovessi ammalare, se dovessi prendermi l’AIDS, non
m’importa:
preferisco morire per un motivo serio che morire di dolore.
Se solo mi ricordassi come si piange, lo farei.
Ma sono così stanco e spossato che non mi va di
pensarci…
Tutto è azzurro.
L’aria, il cielo, il pavimento, ogni cosa
è avvolta da
una leggera polverina celeste. È lo stesso colore degli
occhi di Ives, brilla
come le sue iridi quando sorride, riempie tutto di sfumature turchesi.
Davanti a me vedo emergere una figura cangiante, i raggi
di un sole color ghiaccio si riflettono sulla sua pelle diafana e fanno
luccicare le ciocche lisce e corvine, scure come la notte.
È Ives. Mi sorride, di quel sorriso luminoso che
l’ha
sempre caratterizzato e che è in grado di far impallidire le
stelle, ed emana
una dolcezza che mi fa esplodere il cuore di sollievo.
D’istinto allungo una mano nella sua direzione e lui
fa
lo stesso; le nostre dita si intrecciano, ma le sue sembrano fatte di
nulla,
come la nebbia azzurrina che ci circonda.
Come fosse uno spettro.
“Ives, vieni qui” lo supplico, cercando
invano di
attirarlo a me. È sfuggente, è come infilare le
dita in una nuvola.
Ma non ce n’è bisogno: Ives si accosta a
me lentamente, i
suoi occhi azzurri sono dentro i miei e mi infondono una gran calma.
Accenna un
sorriso, abbastanza ampio per mettere in mostra le fossette sulle
guance, e una
ciocca ribelle gli piove sbarazzina sulla fronte. Sembra un bimbo
innocente e
buono, proprio come il giorno in cui l’ho conosciuto.
“Grazie.” La sua voce mi accarezza le
orecchie con
dolcezza.
Poi si sporge appena verso di me e lascia che le nostre
labbra si sfiorino. Dura un istante, come un battito d’ali, e
percepisco quel
contatto come un soffio.
Poi tutto sparisce, si dissolve in una nube celeste.
E io piango, come non ho mai fatto prima, con i
singhiozzi che mi sconquassano il petto, le mani che mi coprono il viso
e le
lacrime che mi scorrono tra le dita. Piango, perché
all’improvviso mi sono
ricordato come si fa.
E quando sollevo nuovamente lo sguardo per cercare Ives,
lui non c’è più.
Mi sveglio di soprassalto e mi poso una mano sul petto.
Non capisco come ho fatto ad addormentarmi.
Non capisco che razza di sogno ho fatto.
E non capisco se dovrei vergognarmene.
Mi guardo attorno con aria circospetta. Dov’è
Ives? L’hanno
trovato? Ho il cuore in gola e temo che lo vomiterò fuori da
un momento
all’altro.
Poi il mio sguardo si ferma sulla porta d’ingresso e capisco
come mai mi sono svegliato: l’uscio è aperto,
Alick e Josh stanno facendo il
loro ingresso in silenzio.
Balzo in piedi e mi piazzo davanti a loro, inchiodandoli con
lo sguardo. “E Ives?” ringhio, la voce impastata
dal sonno e dall’alcol.
“Ethan, senti…” prende la parola Josh,
sospirando ed
evitando di incrociare il mio sguardo.
“Mi volete dire cosa cazzo avete scoperto?” grido,
spostando
lo sguardo su Alick: il mio amico non accenna ad alzare il capo, ma
osservandolo
con attenzione mi accorgo che ha gli occhi rossi di pianto.
Perché stava piangendo? Dov’è
Ives?
“L’abbiamo trovato” afferma Josh in tono
piatto.
Lo afferro per una spalla e lo costringo a guardarmi negli
occhi; le sue iridi nocciola sono torbide. “Come
sta?”
Lui si morde il labbro. “Perché non ci sediamo e
ne parliamo
con calma?”
Lo strattono per la maglietta; sono così incazzato che
potrei strangolarlo a mani nude se non parla immediatamente.
“Col cazzo! Dimmi
dov’è Ives e come sta!”
Lui sospira e si divincola dalla mia stretta.
“Era… nello
sgabuzzino di una bettola in cui stanotte hanno dato una festa. Si
dev’essere
infiltrato in mezzo alla confusione generale e…
Ethan… non ce l’ha fatta. Se
n’è andato per sempre.”
No.
È uno scherzo.
Non è vero.
Semplicemente non può essere.
Un mondo senza Ives non può esistere.
Mi viene quasi da ridere, perché sembra tutta una grande
barzelletta.
E invece non c’è un cazzo da ridere ed
è tutto vero,
compreso il vuoto che sento dentro la testa e al posto del cuore.
È tutto vero, anche il fatto che mi sto sgretolando pian
piano.
Le mie certezze crollano.
Il mondo crolla tutto attorno a me.
Mi guardo attorno: è tutto uguale a prima, eppure
è tutto
sbagliato. L’aria è più fredda, le luci
brillano di meno.
Alick piange e mi dà fastidio, perché io invece
non piango
affatto. E che diritto ha lui di soffrire davanti a me, che sto male il
doppio
di lui?
“Ethan” mi chiama la voce di Josh, ma la sento
così lontana
che non sembra nemmeno reale.
Da più di due anni, dal momento in cui ad Ives è
stato
diagnosticato l’AIDS, avevo la certezza che questo momento
sarebbe arrivato. Ho
cercato di prepararmi, di accettarlo, di farmene una ragione ed
elaborarlo.
Allora perché adesso fa così male?
Perché mi sento
completamente annientato?
La verità è che, qualunque cosa tu ti racconti,
quando
arriva la batosta ti toglie il respiro. Ti schiaccia.
“Ethan… forse è il caso che ti siedi da
una parte” mi
suggerisce Josh posandomi una mano sul braccio, ma me la scrollo di
dosso con
un movimento brusco.
Rabbia.
Ecco cosa provo.
E la porto fuori, tutta. Comincio a imprecare, a bestemmiare
contro quel dio in cui nemmeno credo, perché non so neanche
con chi
prendermela.
Stringo i pugni finché le unghie non mi si conficcano nei
palmi, digrigno i denti finché non ho
l’impressione che mi si stiano per
frantumare.
Sferro un pugno alla porta.
Poi la apro di scatto e scendo di corsa le scale. Ho
assolutamente bisogno di uscire e di non sentire più quelle
quattro mura
stringersi attorno a me, ho bisogno di respirare aria pulita nella
speranza che
basti a riempirmi i polmoni.
Una volta sull’asfalto, sollevo lo sguardo verso la coltre
di nubi grigiastre e anche quelle mi sembrano finte, parte di un sogno.
Ho bisogno di rompere qualcosa.
Mi avvicino alla mia auto, quella che Davi mi ha regalato
per il mio sedicesimo compleanno, e lascio una scarica di pugni sulla
carrozzeria. Grido, do calci, mi infiammo, mi incendio, distruggo,
graffio,
sfogo tutta la mia frustrazione finché i muscoli non
iniziano a bruciare per
quanto guizzano, finché le nocche non mi si sfasciano e il
rosso diventa
l’unico colore all’interno del mio campo visivo.
Finché la mia auto non si accartoccia sotto la mia rabbia.
Finché i frammenti di vetro non mi si conficcano sotto le
suole delle scarpe.
Finché non mi rendo conto che nulla di tutto ciò
farà
tornare indietro Ives.
Allora, col fiato corto e un dolore sordo che mi invade le
vene, indietreggio di qualche passo fino ad appoggiare la schiena al
muro.
Non so cos’ho fatto, ma qualunque cosa sia, non è
servita a
trovare un senso alla morte di Ives.
Morte.
Non può essere successo davvero. Sembrava così
lontano, impossibile.
Alick e Josh mi raggiungono timidamente – devono avermi
seguito e aver assistito a tutta la scena.
“Se questo ti è servito per stare meglio,
okay” afferma Josh
in tono comprensivo.
“Stare meglio?! Ma che cazzo stai dicendo?
In
ventidue anni di vita non mi sono mai sentito così di
merda!” gli urlo contro
con tutta la forza che mi è rimasta in corpo.
“Ethan, ascolta… abbiamo chiamato anche Oliver,
sta
arrivando. E quelli dell’ospedale hanno già
informato anche la famiglia di
Ives, cioè, la zia. Se ti senti di vederlo, possiamo
accompagnarti in obitorio”
spiega Alick con la sua solita calma, nonostante abbia la voce roca per
il
pianto.
Obitorio?
No.
Non ci penso nemmeno.
Una strana e indescrivibile paura mi invade e mi mozza il
respiro. Proprio io, Ethan, che mi vanto di avere sangue freddo da
vendere,
sono terrorizzato dall’idea di entrare in un fottuto ospedale
e trovarmi
davanti il cadavere del mio migliore amico. Proprio io, che sono
cresciuto per
strada, ho visto la morte in faccia tante volte e ne sono sempre stato
circondato.
Ma non ce la faccio. Mi sento un vigliacco, ma stavolta è
troppo.
Salgo nuovamente al mio appartamento, afferro le chiavi
dell’auto
e mi carico la chitarra classica in spalla.
Prima di uscire, mi guardo attorno per un’ultima volta: la
coperta di Ives è ancora scaraventata a terra ai piedi del
divano, il suo
quadernetto è poggiato sul tavolo e il suo basso
è abbandonato su una sedia, in
un angolo.
Questo luogo mi annoda la gola.
Richiudo la porta con forza, scendo le scale e, superando
Josh e Alick senza nemmeno rivolger loro uno sguardo, mi chiudo in
macchina e
getto la chitarra sul sedile del passeggero. Spero che la mia auto sia
ancora
in grado di accendersi e viaggiare, nonostante le condizioni pietose in
cui
l’ho ridotta.
Mentre avvio il motore, noto i miei due amici fare qualche
passo avanti con aria preoccupata.
“Non sei nelle condizioni di guidare, Ethan!” cerca
di
fermarmi Josh.
“Non rompete il cazzo. Ho bisogno di stare solo.”
E, così
dicendo, premo sull’acceleratore e sfreccio via.
Devo riordinare i pensieri per i fatti miei.
I've
never knew what
it was to be alone, no
'Cause you were always there for me
You were always home waiting
And I'll come home and I miss your face so
Smiling down on me
[Alter
Bridge – In
Loving Memory]
° °
°
Lasciai scorrere le dita sulle corde della chitarra,
concentrato sul brano che stavo eseguendo. Ormai era diventata la
norma:
tornavo a casa, attaccavo la chitarra all’amplificatore e
suonavo per Ives.
Nonostante la malattia lo stesse inghiottendo giorno dopo
giorno, sentire la mia musica era l’unica cosa in grado di
far brillare ancora
i suoi occhi azzurri, di riempirli di vita ed entusiasmo. E
così suonavo per
lui finché aveva voglia di sentirmi, finché non
mi facevano male le dita.
Quel giorno avevo deciso di eseguire Samba Pa Ti
perché sapevo che Ives adorava sentirmi suonare Santana;
quando ci eravamo conosciuti,
ero in fissa con Abraxas, stavo imparando tutto
l’album a memoria e Ives
mi si sedeva accanto, in silenzio, ad ascoltarmi per ore. Era
instancabile.
“Tu sei un pochino come Santana,” mi
diceva spesso,
“riesci a dire con la chitarra tutto quello che non riesci a
dire a parole. È
per questo che mi piace tanto sentirti.”
Pronunciava quelle parole con la leggerezza tipica dei
bambini, ma per me, che avevo fatto della chitarra la mia
più grande passione,
significavano tutto.
“Ethan.”
La voce di Ives mi riportò alla realtà
e, senza smettere
di suonare, sollevai lo sguardo per rivolgergli un’occhiata
interrogativa.
Lo trovai così sbiadito, ma i suoi occhi azzurri
luccicavano
appena di lacrime.
“Mi dai un abbraccio?”
Sgranai gli occhi, colto totalmente alla sprovvista.
Mi conosceva da più di dieci anni e sapeva
perfettamente
quanto detestassi i contatti fisici troppo stretti e in particolare gli
abbracci. Non sapevo cosa rispondergli: quella semplice domanda era
stata
capace di mettermi profondamente a disagio.
Ives sbatté per un attimo le ciglia; gli si leggeva
negli
occhi che necessitava davvero di quel gesto, dell’affetto che
non era mai
riuscito a ricevere e dare. Era così dolce e sensibile, e in
quel momento – in
cui si sentiva vulnerabile e percepiva la vita scivolare via da lui
– cercava
ancora con più smania qualche briciola di calore umano.
Ma purtroppo io ero un insensibile pezzo di merda e
ancora una volta non riuscivo a essere ciò di cui aveva
bisogno; non contavo
più le volte in cui avevo visto scorrere sul suo viso il
desiderio di
abbracciarmi, ma si era sempre trattenuto per non darmi fastidio.
Mi sentivo terribilmente in colpa.
Ives sarebbe potuto morire quel giorno stesso e io non
l’avrei
lasciato andare senza dargli ciò che desiderava.
Quel pensiero mi colpì con talmente tanta violenza
da
farmi riscuotere all’improvviso.
Tentando in tutti i modi di reprimere il naturale istinto
di allontanarmi, mi alzai con cautela, posai la chitarra in un angolo e
mi
accomodai timidamente sul divano. Non abbracciavo qualcuno da
così tanto tempo
che non sapevo più come si facesse; mi limitai a lanciare al
mio amico
un’occhiata di sbieco mentre annegavo nel mio stesso
imbarazzo.
Ives non esitò un istante e mi si
avvicinò, per poi
stringersi forte a me con tutta la – poca – forza
che aveva in corpo.
Mi bastò quello per sentirmi soffocare e
sprofondare nel
disagio: Ives si era gettato addosso a me quasi con disperazione,
cercando la
mia vicinanza.
Tuttavia, in quel mare di fastidio, avvertii qualcosa di
diverso, che mai avrei pensato di poter provare: un moto di tenerezza,
uno strano
e tiepido pizzicore nel petto. Per quel granello di dolcezza, avrei
messo da
parte il mio orgoglio e il mio disprezzo. Lo dovevo ad Ives.
Gli circondai le spalle con un braccio, in quella maniera
goffa di chi non è abituato; Ives mi posò la
testa sulla spalla e nascose il
viso nella mia maglietta – il suo corpo era tutto un tremito.
Era come un bimbo in cerca di protezione e affetto, aveva
atteso talmente tanto quell’abbraccio – da mesi,
forse anni – e ora che l’aveva
ottenuto non riusciva a smettere di stringermi e singhiozzare.
Mi si spezzò il cuore. Sentirlo così
fragile e indifeso
tra le mie braccia faceva ancora più male
dell’inadeguatezza che provavo dentro
me.
Come avevo potuto vederlo ogni singolo giorno negli
ultimi tre anni e non essermi accorto che aveva bisogno soltanto di
questo?
Lasciai che si appigliasse a me e lo tenni stretto con
delicatezza – avevo quasi paura di romperlo, io che ero forte
e grosso e
così rozzo. Lui pianse sulla mia spalla per minuti
interi, mentre io lottavo
contro l’impulso di ritrarmi. Pian piano, quasi in maniera
inconsapevole, mi
accorsi che la sensazione sgradevole scivolava via insieme al tempo;
non mi
opposi nemmeno quando Ives, leggermente più calmo e col
respiro che si regolarizzava,
cercò la mia mano per stringerla forte. Le sue dita erano
così sottili e fredde
da mettermi i brividi.
Lo sentii rilassarsi, ancora col capo posato sulla mia spalla;
le sue ciocche ispide e corvine mi accarezzavano appena la pelle. Non
riuscivo
proprio a capire come fosse possibile, ma sembrava trovare davvero
conforto in
quell’abbraccio; nonostante le guance rigate di lacrime e il
colorito insano,
il suo viso ora pareva così sereno.
“Vorrei morire così, adesso” lo
sentii mormorare mentre stringeva
un po’ più forte la mia mano, prima di sprofondare
in un sonno profondo.
Si era letteralmente addormentato tra le mie braccia.
Si trattava della situazione più bizzarra e
surreale in
cui mi fossi mai trovato.
Lasciai trascorrere alcuni minuti; il silenzio regnava
sovrano nella stanza e mi permetteva di ascoltare il respiro leggero e
regolare
del mio amico.
E mi ritrovai a pensare che Ives rappresentasse la parte
più buona di me.
Non sarei mai stato capace di spiegare ciò che ci
univa e
nessuno l’avrebbe mai capito. Ma, di qualsiasi cosa si
trattasse, era sempre in
grado di portare fuori il meglio dal disastro che ero.
° °
°
Oggi il mare sembra più torbido del solito: il suo azzurro
si sporca del grigio del cielo, borbotta cupamente presso la riva e
ogni tanto
si altera un po’ di più al soffio del vento,
sgridando la sabbia con strilli
sordi.
È lo specchio del mio stato d’animo.
Sfido lo sciabordio delle onde col suono della mia chitarra.
Mi fanno male le mani per tutti i pugni che ho tirato, è un
pizzicore
fastidioso che mi distrae almeno in parte dalla mia voragine interiore.
Mi sono rifugiato in una spiaggia deserta perché il mare
è
l’unico luogo in cui la mia anima sembra placarsi e trovare
sollievo. Mi sono
seduto e, lasciando che il vento mi frustasse addosso la salsedine, ho
cominciato a guardare l’infinito davanti a me.
In fondo sono solo un granello di sabbia in mezzo a tanti. E
come può un misero granello di sabbia cambiare un destino
che forse era già
scritto?
Riverso sulle sei corde tutti i miei sensi di colpa, tutte
le mie domande.
Mi ero ripromesso di proteggere Ives come un fratello minore
– quasi come un figlio – e non ne sono stato in
grado: sono stato io a permettergli
di comprare la sua prima dose di eroina da mio fratello, non sono
riuscito a
fare niente per aiutarlo quando ho visto la sua dipendenza peggiorare,
non gli
sono stato accanto nel modo in cui meritava quando ha scoperto che la
sua vita
si sarebbe presto spezzata.
E infine non ero insieme a lui quando ha esalato l’ultimo
respiro. Se n’è andato da solo, in uno squallido e
freddo stanzino, con un ago
conficcato in vena. Nessun ultimo abbraccio, nessuna carezza, nessun
addio.
Mi viene quasi da ridere quando ripenso a quanto mi sia
stato grato in questi anni. Per che cosa, poi? A che è
servito fare tutto ciò
che potevo, se nemmeno quello è stato abbastanza?
Mentre torturo la mia chitarra e ripercorro tutte le canzoni
che gli ho suonato mentre stava male, mi tornano in mente i fotogrammi
dei
momenti vissuti assieme, di tutti i sorrisi che mi ha regalato anche
quando gli
costava fatica e di tutte le volte che mi ha fatto promettere che non
avrei mai
smesso di suonare, nemmeno quando lui non ci sarebbe più
stato.
Osservo le onde che si infrangono sulla battigia e mi
domando dove si trovi Ives in questo momento, se esista un luogo in cui
la sua
anima possa continuare a brillare. Non credo
nell’aldilà, nel paradiso, nella
vita dopo la morte e tutte quelle altre stronzate, ma in questo momento
mi
ritrovo a sperare che almeno una di queste stupide teorie sia vera.
Perché
pensare che Ives abbia smesso di esistere per sempre fa troppo male.
All’improvviso mi torna in mente un dettaglio che avevo
completamente dimenticato: il sogno. Il ricordo mi colpisce
così forte che
smetto per un attimo di suonare e trattengo il fiato senza rendermene
conto.
È come se con quell’ultimo saluto il mio amico mi
abbia
voluto dire addio a modo suo. Ha fatto irruzione nei miei sogni con
quella
naturalezza e quella spontaneità in grado di spiazzare
chiunque e mi ha
ringraziato per l’ultima volta, come se la sua anima avesse
voluto passare da
me prima di volare via.
Forse dovrei vergognarmi del fatto che il mio subconscio
abbia elaborato un simile pensiero – nella realtà
non mi sarei mai sognato di
avvicinarmi ad Ives in quel modo –, ma la verità
è che non mi importa niente di
ciò che è giusto o sbagliato. Terrò
per me quell’immagine e quel bacio a fior
di labbra per sempre.
È l’ultimo saluto tra me e Ives. Lo sappiamo solo
io e lui.
Smetto definitivamente di suonare e mi stendo nella sabbia,
socchiudendo gli occhi e lasciando che i granelli chiari mi pizzichino
la
pelle. Oggi non c’è nemmeno un po’ di
azzurro in cielo.
Is he already gone?
Can we call him back again?
Is he already gone?
Will I find him in the end?
[Disturbed
– Already
Gone]
Parcheggio l’auto fuori da casa di Davi e scendo con calma,
afferrando anche la custodia contenente la chitarra.
Il buio ha avvolto la città da più di
un’ora ormai e io sono
in condizioni pessime: sulle mani mi si stanno formando delle croste
enormi, ho
la maglietta inzuppata di sangue e di sudore, ho la pelle secca per la
salsedine e i capelli pieni di sabbia. Avrei bisogno di una doccia, ma
il mio
stato psicologico è doppiamente devastato di quello fisico e
non ho nessuna
intenzione di rientrare nella casa che ho condiviso con Ives, per
ritrovare
tutte le sue cose ancora al loro posto, come se nulla fosse.
Suono il campanello e attendo.
Davi mi ha detto un milione di volte di non recarmi a casa
sua: la polizia, o addirittura gli agenti federali, potrebbero piombare
da lui
da un momento all’altro e arrestarlo. Nel caso si presentasse
quest’eventualità,
mio fratello non sopporterebbe che finisca nei guai insieme a lui; per
questo
cerca di non rendere troppo palese il legame di parentela che ci unisce.
Lo fa per proteggermi, lo so, ma oggi me ne fotto. Anzi, se
entrasse uno sbirro e mi piantasse una pallottola in testa, mi farebbe
un
favore.
Davi socchiude l’uscio dopo quello che sembra un minuto
buono e mi fulmina con i suoi occhi neri e severi, identici ai miei.
“Perché
non mi hai chiamato? Sarei venuto io da te” sibila.
“Non rompere il cazzo” ribatto in tono piatto,
prima di
spingere la porta e intrufolarmi in casa sua. Mi reco a passo spedito
verso il
soggiorno, in cui trovo Serena – l’attuale ragazza
di Davi – e Josh accomodati
sui divani.
Non appena mi vede entrare, il mio amico si alza e viene
verso di me con un’espressione preoccupata e al contempo
sollevata dipinta in
viso. “Ethan…”
“Sì, sono sempre io. Hai visto che non ho
sfasciato la
macchina in un incidente stradale e non mi sono rotto l’osso
del collo? Anche
se forse avrei preferito così” borbotto,
ricordando quanto fosse restio a
lasciarmi andare via da solo.
“A proposito di macchina” interviene mio fratello,
comparendo
alle mie spalle e poggiandosi allo stipite della porta.
“L’hai ridotta proprio
male. Mi sa che dovrò regalartene
un’altra.”
Mi volto e incrocio il suo sguardo. Sa benissimo che non
deve chiedermi come sto e non deve affrontare l’argomento
finché non sarò io a
farlo, mi conosce perfettamente.
Gliene sono davvero grato.
“Sentite, so che forse non è il caso,”
prende la parola
Josh, attirando la mia attenzione con un cenno, “ma Alick e
Oliver erano in
pensiero per te. Posso dir loro di passare di qui? Così
magari ti vedono e
stanno più tranquilli…”
Sollevo subito una mano per fermare il suo flusso di parole.
“Non se ne parla. Non voglio raduni di gente che piange e si
dispera: meno
gente vedo e meglio sto” metto in chiaro mentre mi butto con
malagrazia sul
divano.
“Hai bisogno di qualcosa in particolare?” mi
domanda Davi.
Di fare chiarezza nella mia mente. Non so nemmeno io cosa
provo, sono così confuso e spaesato…
“Di qualcosa di forte da bere.”
Senza spiccicare parola, Serena si alza dalla sua postazione
e scompare in cucina, probabilmente con la scusa di procurare qualcosa
per me. Ma
sicuramente ha capito di essere in più, ammesso e non
concesso che si renda
conto di ciò che le capita attorno. Non sembra una tipa
molto sveglia.
“Beh… almeno posso avvisarli che sei qui e sei
tutto intero.
Posso usare il tuo telefono, Davi?” chiede Josh.
Mio fratello annuisce appena. “Lo sai già: lo
trovi in
corridoio.”
Quando anche Josh lascia la stanza, incrocio lo sguardo di
Davi e non so cosa lui scorga nel mio, ma si avvicina e si accomoda nel
posto
occupato dall’altro ragazzo fino a poco fa.
“A te non fotte niente” affermo dopo qualche
pesante attimo
di silenzio.
“In che senso?”
“Per te è soltanto l’ennesimo cliente
che si ammazza con la
tua roba. Ormai sei abituato a questa merda.”
Davi sospira. “Non è facile come credi. Quando
eravamo
ancora in Brasile e ho cominciato come un piccolo spacciatore per
guadagnare
qualche soldo, sembrava tutto uno scherzo, quasi un divertimento. A me
servivano i contanti e così riuscivo a ottenerli. Poi siamo
riusciti a
scappare, io mi sono ritrovato a dover mantenere te e i tuoi fratelli e
così ho
continuato, perché non avevo altra scelta e non potevo
rischiare di rimanere al
verde. Arrivi a un punto in cui questo giro ti inghiotte:
c’è un sacco di gente
che ti vuole morto, un sacco di gente che dipende da te e altre persone
ancora
vogliono chiuderti dietro le sbarre, e quando te ne accorgi
è troppo tardi e
non ne puoi uscire indenne. Io non sono contento che migliaia di
ragazzi
muoiano di overdose per via della roba che vendo, ma ormai non ho
alternative.”
Osservo mio fratello e, forse per la prima vera volta, non
lo vedo come il supereroe che ha sempre la situazione sotto controllo:
è un
uomo di trentacinque anni col volto pieno di rughe per la
preoccupazione e la
stanchezza, che vive con la costante paura di essere arrestato e ha
troppe vite
sulla coscienza, talmente pieno di soldi da potersi comprare il mondo
intero ma
senza la possibilità di goderseli veramente.
Ora capisco perché vuole tenermi lontano dal mondo dello
spaccio.
Poggio la testa sullo schienale del divano e sospiro. “Io
non capisco. Non riesco proprio a trovare un cazzo di senso per
ciò che è
successo.”
Davi mi scruta in silenzio, attendendo che continui.
“Perché Ives? Perché dobbiamo vivere in
un mondo in cui i
buoni soccombono? Perché lui e non io?” sbotto
mentre la rabbia mi invade
nuovamente.
“Non c’è un senso, Ethan. È
inutile sprecare tempo ed
energie per trovarlo.”
“Ma cos’aveva fatto di male?” prorompo
nuovamente. “Forse si
poteva fare qualcosa per evitarlo, potevo…”
Davi mi sorride mestamente. “Ethan, smettila di ficcarti in
testa
certe stronzate. Sappiamo entrambi che hai fatto tutto il possibile per
lui.
Nessuno di noi può combattere contro un mostro come
l’AIDS, sarebbe stata una
battaglia persa. O pensavi forse di iscriverti a Medicina e trovare tu
una
cura?”
“Se ne avessi avuto le capacità, magari
l’avrei fatto.
Invece non ho saputo fare un cazzo, non sono riuscito a salvarlo
e… non gli
sono stato accanto nemmeno mentre moriva, porca puttana! Lui meritava
di
vivere, io no!”
Vedo gli occhi di mio fratello luccicare appena, come a
volermi comunicare che è davvero orgoglioso di me. Non so
perché, dato che sono
un fallimento totale, ma sono certo che il suo sguardo non mente mai.
Non a me.
“Abbiamo della tequila.” Serena fa il suo ingresso
nella
stanza e mi porge un bicchierino.
Lo afferro e mando giù il liquido tutto d’un
fiato. Solo
mentre stringo il vetro tra le dita mi accorgo di quanto sto tremando.
Io, così alto e forte, con le spalle larghe e i lineamenti
talmente marcati da sembrare cattivi, tremo come una foglia.
Davi ridacchia. “Cazzo, l’hai mandata
giù come fosse acqua!
Se vai avanti di questo passo, dovrò chiedere a Josh di
darti un passaggio fino
a casa!”
“No, forse non hai capito.” Mi faccio serio di
colpo e fisso
i miei occhi nei suoi. “In quella casa non passerò
più neanche una notte.”
Mi vergogno quasi ad ammetterlo, ma ho una paura folle di
rimettere piede nel luogo che per quasi quattro anni è stata
la casa di me e
Ives.
° °
°
Non appena incrociai gli occhi di Ives, mi resi subito
conto che qualcosa non andava quel giorno. Anche se non ci conoscevamo
da tanto
tempo, quel bambino era un libro aperto e avevo già imparato
a riconoscere i
suoi stati d’animo.
Di solito mi raggiungeva di corsa, con le guance tutte
rosse e il sorrisone sulle labbra. Quando questo non capitava
– molto raramente
– voleva dire che era successo qualcosa di così
grave da buttarlo giù.
Si avvicinò lentamente, si sedette sullo scalino
accanto
a me e tenne il capo abbassato, gli occhioni azzurri fissi sulle punte
delle
scarpe.
“Ciao” lo salutai come se niente fosse, ma
allo stesso
tempo gli lanciai un’occhiata interrogativa. Non ero il tipo
che riempiva la
gente di domande, e poi comunque Ives mi avrebbe raccontato tutto. Non
riusciva
a tenersi niente per sé.
“Ciao” rispose con un sospiro e non
aggiunse altro.
Aggrottai le sopracciglia. Non era proprio da lui
rimanere in silenzio.
“Cos’è quella
faccia?” indagai allora.
“No… niente.”
Cominciavo a preoccuparmi. Se non ne voleva parlare
nemmeno con me, a cui raccontava sempre tutto, doveva essere davvero
grave.
“Non è vero che non hai niente.”
“Dai, è una cosa stupida, non
è importante. E poi perché
hai cominciato a farmi domande? Hai detto che non ti
piacciono.”
Gli mollai un pugno sul braccio. “Smettila di fare
il
misterioso! Se è una stronzata, magari ti posso aiutare a
risolverla.”
Lui sospirò e si passò una mano tra i
capelli. “Ho
litigato con Maggie.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Ancora quella
troia?”
“Non chiamarla così! È sempre
mia sorella!” mi rimproverò
subito.
“Veramente è tua cugina. Comunque,
cos’ha fatto stavolta
la troia?”
“Ecco, ieri… io e te abbiamo fatto tardi,
e quando lei è
venuta al nostro punto di incontro e non mi ha trovato si è
arrabbiata
tantissimo, perché se non rispettiamo l’orario che
ci ha dato zia Maura è lei a
prendersi la colpa. Così quando sono arrivato al piazzale
lei era completamente
impazzita, mi ha urlato che eravamo già in ritardo di
mezz’ora e ha continuato
a gridare per tutto il tragitto verso casa. Mi ha detto che…
che ero uno stronzo
e che nessuno mi voleva bene, che nemmeno zia Maura mi vuole bene
perché sono
il figlio di una puttana e che dovevo morire come mia madre. Io ho
cercato di
spiegarle che non ho un orologio e non mi rendo conto
dell’orario, ma lei si è
arrabbiata ancora di più e mi ha preso per i capelli e mi ha
sbattuto al muro.
Guarda.” Ives tirò il lembo della sua t-shirt per
scoprire la spalla, su cui
spiccava un grande livido scuro.
Io ero senza parole. Come poteva quella stronza
prendersela con un bambino che aveva sei anni in meno di lei? Come
poteva dire
certe cose a un bambino di otto anni e farlo sentire in colpa per
qualcosa che
non dipendeva nemmeno da lui?
Mi veniva voglia di andare a cercarla e prenderla a
pugni. Ives forse non sarebbe mai riuscito a difendersi, era uno
scricciolo e
alla fine voleva bene a Maggie, non si sarebbe mai messo contro di lei,
ma non
era giusto che quella pazza la passasse sempre liscia.
“Che psicopatica del cazzo” commentai con
rabbia.
“E sai cosa mi ha detto oggi mentre stavamo uscendo?
Che
fa bene a lasciarmi in quella specie di piazzale pieno di spazzatura
dove di
notte fanno le sparatorie, così magari fanno fuori anche me
e lei è più
contenta.” Gli occhi celesti di Ives diventarono lucidi di
lacrime mentre parlava
e la voce gli si spezzò sulle ultime parole.
Strinsi i pugni. La cosa più grave era che il mio
amico
credeva a tutto ciò che Maggie gli diceva: riusciva davvero
a convincerlo che
fosse in più e che nessuno gli volesse bene.
“Senti, io non sono mai a favore di chi si mette a
frignare e a fare la vittima,” cominciai a dire dopo qualche
secondo di
silenzio, guardando Ives dritto negli occhi, “ma stavolta
è diverso. Perché non
racconti tutto a zia Maura?”
Lui scosse il capo. “No, non glielo dirò
mai, non voglio
fare la spia. Perché poi se la prenderebbe con Maggie e io
non voglio che lei
mi odi ancora di più. E poi… Maggie è
la sua vera figlia, io sono
capitato in questa famiglia per caso, perché mia madre
è morta… e non è giusto
che litighino ancora per colpa mia.”
Sospirai e mi sedetti nuovamente accanto a lui. Non
conoscevo bene la famiglia di Ives, ma lui me ne aveva parlato tanto e
io la
odiavo, tutta. Sua cugina faceva di tutto per farlo sentire di troppo e
gli
rinfacciava che le aveva rubato il posto di figlia unica e
più importante; sua
zia diceva di amarlo come fosse suo figlio, ma non c’era mai
e non si accorgeva
quando qualcosa non andava bene. E, nonostante tutto, lui continuava a
voler
bene a entrambe.
Era troppo buono.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi e lo trovai
triste e
imbronciato. Avrei tanto voluto aiutarlo, ma cosa potevo fare? Non ero
bravo a
fare discorsi, a dare consigli e tirare su la gente con le parole.
In fondo avevo soltanto nove anni.
° °
°
Piove.
L’acqua scroscia forte giù dai tetti e per le
strade,
ricoprendo il mondo di un freddo e sinistro grigiore. Qualcuno in vena
di
pensieri poetici potrebbe pensare che il cielo stia piangendo la morte
di Ives,
ma io – che sono molto più concreto –
sono dell’idea che questo temporale sia
soltanto una rottura di coglioni.
Se c’è una cosa che detesto più dei
cimiteri, sono i funerali.
Non sopporto di essere circondato da gente in lacrime e ipocrita
– spesso le
due cose combaciano.
La chiesa per fortuna è quasi deserta: Maura e Maggie
–
coloro che Ives chiamava famiglia – si
trovano sulla panca vicino
all’altare, mentre io, Alick, Oliver e una manciata di altri
ragazzi che
frequentano il nostro gruppo ci siamo sparpagliati alle loro spalle.
Qualcuno
si avvicina alla zia e alla cugina di Ives per porger loro le
condoglianze, mentre
io mi tengo in disparte ed evito pure di posare lo sguardo su di loro.
Le ho
sempre odiate.
Durante la cerimonia funebre rimango per tutto il tempo
nascosto in un angolo vicino all’ingresso, a osservare la
pioggia che scorre
sulle vetrate e a lottare contro l’impulso di andare dal
prete e tirargli un
pugno in bocca. Non fa che blaterare stronzate per quasi
un’ora, ripetere che Ives
è stato accolto tra le braccia di Dio e che ora
troverà la pace
nell’alto dei cieli.
Ma quale dio? Ora credo meno che mai nella sua esistenza, non
mi darebbe nessun conforto l’idea che
un’entità superiore si sia preso la briga
di spegnere con tanta crudeltà la vita di un ragazzo di
ventun anni. È più
facile pensare che nessuno abbia la responsabilità di
ciò che è accaduto,
perché se esistesse un colpevole, potrei salire fino in
paradiso per farlo
fuori con le mie mani e rivendicare il mio amico.
Dio è buono, dio è misericordioso, dio
ha voluto Ives al suo
fianco.
Dio è un ingrato e un egoista. Se davvero l’avesse
amato
come lui meritava, l’avrebbe lasciato vivere in pace.
Mi riscuoto soltanto quando Oliver richiama la mia
attenzione con un cenno, riportandomi alla realtà. Solo
allora mi accorgo che
la messa è finita.
Faccio per raggiungere lui, Alick e May – la ragazza storica
del batterista –, ma mentre mi incammino tra le file di
panche in legno mi
sento osservato. Impiego qualche istante per capire che Maura e Maggie
mi
stanno scrutando con disprezzo.
Digrigno i denti.
Ethan, calmati.
“Quello è il ragazzino che ha portato il mio Ives
sulla
cattiva strada” sento sibilare alla più anziana
con odio.
Allora non ci vedo più.
Alick, May e Oliver scompaiono.
Mi volto nella sua direzione e la raggiungo a passo lento ma
sicuro, cercando di contenere la rabbia.
Mi fermo e fisso negli occhi prima Maura e poi Maggie –
quest’ultima mi disgusta profondamente, con la sua faccia
pulita da brava
ragazza segnata dal pianto.
Torno a squadrare la zia di Ives e mi sorprendo di trovare
il suo sguardo così risoluto e infuocato, nonostante tutto
in lei lasci intuire
quanto sia devastata. “Sì, sono io. Colui che,
secondo il suo parere, ha
distrutto il suo nipotino e l’ha fatto drogare.
Si dà il caso, però, che
questo pessimo elemento sia stato l’unico stronzo a stare
accanto ad Ives fino
all’ultimo giorno, quando tutti gli altri l’avevano
abbandonato” ringhio.
Contenere la rabbia si sta rivelando più difficile del
previsto: le mani mi
tremano e sono costretto a serrare i pugni per non darlo a vedere.
“Ma con quale faccia ti presenti qui? È tutta
colpa tua se
mio nipote si trova dentro una bara in questo momento, tua e di tutti
quei
delinquenti da cui sei circondato! Pensi che gliel’abbia data
io la droga? Da
quando ha conosciuto te non ha fatto che cadere sempre più
in basso e
distruggersi!” mi accusa, il suo vocione profondo rimbomba
tra le pareti della
chiesa come a volerle impregnare di questa sentenza.
E mi fa rabbia, mi fa male. Perché in parte è
vero.
Ma come può lei, proprio lei, prendersi
il diritto di
far sentire in colpa me?
Mi avvicino di un altro passo, sento il viso andare a fuoco
per l’ira. “Mi stia bene a sentire: io non gli ho
ficcato un ago in vena, è
stata una scelta di Ives. E sa quand’è stata la
prima volta in cui si è bucato?
Il giorno stesso in cui lei gli ha trovato una dose di cocaina tra le
mani e
l’ha cacciato di casa per sempre. È facile
proclamarsi una madre amorevole e
riversare le proprie colpe sugli altri, ma il caso vuole che lei non
abbia mai
visto Ives negli ultimi quattro anni. E chi c’era al suo
fianco mentre la sua
dipendenza peggiorava? Chi gli è stato vicino quando gli
hanno diagnosticato
l’AIDS? Sempre io. Sotto quale tetto ha vissuto in tutto
questo tempo? Sotto il
mio. Quindi, fossi in lei, prima di additare il prossimo mi farei un
bell’esame
di coscienza.” Indietreggio di alcuni passi, profondamente
disgustato, e con la
coda dell’occhio mi accorgo che Maggie ha cominciato a
piangere e si è coperta
teatralmente il viso con le mani.
Dio, quanto vorrei strangolarla, quella puttana…
“E – provi un po’ a indovinare, signora
Mancini – chi c’era
accanto ad Ives mentre moriva?” riprendo la parola,
sollevando appena il tono
della voce. Se queste mura hanno sentito la sua versione, ora
ascolteranno
anche la mia. “C’ero io! La mia faccia è
l’ultima che quel ragazzo ha visto! E
guarda caso mi considerava la sua famiglia!”
Non è vero, sto mentendo. Non so nemmeno il motivo; forse
perché, davanti a un essere spregevole come questa donna,
non ammetterò mai di
non esserci stato fino alla fine. Voglio farla sentire in colpa,
sputarle in
faccia tutto il mio veleno e illudermi, anche solo per un istante, di
non aver
dato il mio contributo per spedire Ives nella tomba.
Gli occhi di Maura luccicano; per la prima volta da quando la
conversazione è cominciata, la vedo vacillare.
Improvvisamente il suo viso dai
tratti marcati non sembra più così duro, la sua
stazza non appare più tanto
imponente. “Mio figlio non era
così, l’hai trasformato” mormora.
“Non era suo figlio. E non l’ha amato
abbastanza”
puntualizzo.
Per un attimo l’occhio mi cade su Maggie, che continua a
singhiozzare – quant’è falsa –
e non accenna a spiccicare parola. Dev’essere
proprio una brava attrice per fingersi così disperata.
Quanto la odio…
“E tu cosa cazzo hai da piangere, troia?” esplodo,
muovendo
un passo verso di lei.
Ho ufficialmente finito la pazienza.
Lei si riscuote all’improvviso, solleva il capo e mi fissa
con quegli occhi verdi all’apparenza così sinceri.
“Cosa vuoi da me? Il mio cuginetto
se n’è andato e non ho nemmeno il diritto di
soffrire?” piagnucola con voce
rotta.
Mi lascio sfuggire una risata amara e priva di divertimento.
“Da oggi si scopre che è il tuo cuginetto?
Nella versione dei fatti che
conosco io, l’hai sempre fatto sentire una merda e gli hai
augurato di morire
un’infinità di volte. Dovresti festeggiare, ora
che il tuo sogno si è
realizzato!”
“Come ti permetti di parlare così a mia
figlia?” interviene
Maura con rabbia, afferrandomi per la manica della t-shirt e tentando
di
allontanarmi dalla ragazza.
“Ah, non ne sapeva niente, signora? Credo che la sua adorata
bambina abbia giusto un paio di cose da dirle. Per esempio, Maggie,
perché non
le racconti di quando hai minacciato Ives di soffocarlo con un cuscino?
O perché
non le spieghi che quando uscivate lo lasciavi da solo in un piazzale
pieno di
spazzatura e delinquenza per andartene a spasso con i tuoi amichetti,
mentre
assicuravi a tua madre che l’avevi tenuto d’occhio
per tutto il tempo? Quando
ho conosciuto Ives lui era in mezzo alla strada, giocava con travi
marce e
piene di chiodi arrugginiti… e aveva otto anni.”
“Ma io dopotutto gli volevo
bene!” strilla Maggie tra
i singhiozzi. È così finta, ha un modo
così studiato pure di asciugarsi le
lacrime e di scostarsi le ciocche di capelli dal viso, come se stesse
dando
spettacolo per un pubblico che esiste solo nella sua testa.
Maura è ammutolita, sposta lo sguardo da me a lei e sul suo
viso scavato dal dolore si è dipinta una smorfia di
incredulità.
“Dopotutto gli volevi bene, certo. Anche
dopo avergli
messo le mani addosso, averlo strattonato e lasciato un sacco di
lividi. Anche
dopo avergli rinfacciato di essere il figlio di una puttana, dopo
avergli messo
in testa di non fare davvero parte della famiglia in cui viveva e di
essere
sempre un gradino sotto di te, perché tu eri la vera
figlia di Maura
mentre lui viveva con voi solo per non essere lasciato per strada. Ives
aveva
l’autostima distrutta, pensava di portare solo dolore attorno
a sé, pensava di
non meritare affetto e di essere un inutile peso per chi lo circondava;
tutto
questo grazie a te che gli hai ficcato nel cervello certe stronzato fin
da
quando era ancora un bambino! E, di nuovo, a chi raccontava tutto
ciò? Al
sottoscritto.”
So che è da bastardi, ma godo come un matto nel vedere
l’espressione perplessa e irata di Maura: scruta la figlia
con intensità, con
occhi nuovi e pieni di risentimento. È palese che non sapeva
nulla di tutto
ciò.
Punto i miei occhi in quelli di Maggie, voglio che stia bene
attenta a ciò che le sto per dire. “Sai
perché non ha mai raccontato niente a
tua madre e ha sofferto in silenzio per tutti questi anni?
Perché, nonostante
tutto, ti voleva bene e ti considerava sua sorella,
non avrebbe mai
fatto niente per metterti nei guai. Giorno dopo giorno raccoglieva i
cocci del
suo cuore troppo grande e li rimetteva insieme per riuscire a
perdonarti,
mentre tu non facevi che distruggerlo di nuovo, sempre più
cattiva e
agguerrita. Che strano modo di dimostrare affetto, eh?”
Maura comincia a piangere silenziosamente.
Maggie abbassa il capo e io spero si stia vergognando per la
sua insulsa esistenza.
“Ethan, dacci un taglio!” interviene Oliver a un
certo punto,
comparendo alle mie spalle e tirandomi leggermente indietro per un
braccio.
Solo ora mi accorgo che i miei amici si sono avvicinati a
noi e hanno assistito a tutta la scena; probabilmente hanno cercato di
placare
la mia violenta sfuriata, ma io ero troppo concentrato e incazzato per
rendermene conto.
“Sparisci” sibila Maura rivolgendomi uno sguardo
pieno di
disprezzo, ma ora sembra molto meno risoluta e molto più
fragile di prima. “Ti
conviene toglierti di mezzo, prima che io ceda alla tentazione di darti
uno
schiaffo.”
Mi stringo nelle spalle. “Mi vuole dare un ceffone? Si
accomodi, se questo la farà stare meglio. Però
sappia che io me ne andrò da
questa chiesa con uno schiaffo e con la consapevolezza di essere stato
un buon
amico per Ives, e questo mi basta.”
Oliver sospira, segno che sta cominciando a spazientirsi e
che io sto tirando troppo la corda.
Guardo Maura e Maggie negli occhi per l’ultima volta e
sorrido appena, come a volermi prendere gioco di loro. “Bene,
ora levo le tende
e vi lascio al vostro esame di coscienza. Scommetto che ora avete un
sacco di
cose da raccontarvi… buona fortuna. E buona vita.”
Do loro le spalle con un moto di soddisfazione che mi
serpeggia nel petto.
Ma questa sensazione si dissolve qualche istante dopo,
mentre io, Oliver, Alick e May usciamo dalla chiesa in silenzio.
Il cantante non fa che scrutarmi con occhi pieni di
rimprovero e tristezza.
“Che cazzo hai da guardare?” sbotto, mentre la
pioggia
comincia a scrosciarmi addosso con impeto. Ovviamente non ho un
ombrello.
“Complimenti, hai rinfacciato a una donna distrutta dal
dolore e dal lutto tutti i suoi errori, l’hai fatta sentire
una merda e le hai
addossato colpe che non aveva. Adesso ti senti meglio?”
sbotta, diretto come
sempre.
Distolgo lo sguardo e mi passo una mano tra i capelli già
inzuppati d’acqua. No, cazzo, non sto affatto meglio.
Far sentire in colpa Maura e Maggie non ha reso me meno
responsabile o più bravo. Ringhiare, sbraitare e mentire
mi ha fatto
sentire uno stronzo e stare ancora peggio, perché
è come se in parte avessi
accusato anche me stesso.
E se sono scattato così, è solo perché
mi sono reso conto
che Maura non aveva tutti i torti ad additarmi e definirmi il
ragazzino che
ha portato Ives sulla cattiva strada.
Sospiro mentre ci dirigiamo verso la macchina di Oliver –
è
venuto a prendermi lui per andare al funerale, dato che la mia auto
è in
condizioni pietose.
Sono un pezzo di merda e un ipocrita. E se prima ero
arrabbiato, ora lo sono il doppio.
Ives non avrebbe voluto nulla di tutto ciò.
Mentre siamo in viaggio verso il cimitero – i miei amici ci
tengono a fare anche questa tappa – poggio il capo al
finestrino e le
goccioline gelide scorrono a pochi centimetri dal mio viso. Vorrei solo
scendere da questa fottuta vettura, allontanarmi da tutto e tutti,
entrare nel
primo bar che mi capita a tiro e ubriacarmi fino a perdere la ragione.
° °
°
“Sorridete! O, insomma… fate quello che
vi pare!” May
sorrise mentre ci osservava tramite l’obbiettivo della
macchina fotografica di
Oliver.
Ero poggiato al bagagliaio della mia auto e avevo assunto
un’espressione seria e imperscrutabile – da duro.
Alla mia destra, Ives si era poggiato a me e sorrideva
raggiante; accanto a lui, Oliver sfoggiava un paio di occhiali da sole
anche se
era notte e stringeva una sigaretta tra le labbra per darsi un tono. Al
mio
fianco, sulla sinistra, Alick si esibiva in una serie di espressioni
facciali
per trovare quella che più si addicesse al nostro scatto.
“Ma era necessaria fare proprio oggi questa foto?
Sono
distrutto!” esclamò il batterista, ravviandosi i
capelli ricci e lunghi dietro
le spalle.
“Dobbiamo avere un bello scatto da inserire sulle
nostre
locandine! Tutte le band famose ne hanno uno!”
ribatté Ives, gonfiando il petto
e mettendo su un’espressione fintamente altezzosa.
“Ragazzi, a me stanno per cadere le braccia, questa
cosa
pesa un quintale!” commentò May con una risata.
“Se non state fermi, non riesco
a mettere a fuoco!”
“Ecco, appunto: mettetevi in posa e facciamola
finita, mi
sto rompendo il cazzo di stare imbalsamato nella stessa
posizione” concordai in
tono divertito.
Ives mi lanciò un’occhiata contrariata.
“Che palle,
Ethan! Perché non sorridi? Davvero vuoi finire sulle pareti
di tutta la città
con quel muso lungo?”
“Perché ci pensi già tu a
sorridere per tutti e quattro”
lo sbeffeggiai.
Oliver scoppiò a ridere. “Mi si sta
consumando la
sigaretta! Datevi una mossa!”
Il flash della macchina fotografica ci riempì gli
occhi,
cogliendoci di sorpresa. Aggrottai le sopracciglia e lanciai uno
sguardo
scettico a May, che ormai rideva senza ritegno. “Non hai
davvero scattato, non
puoi averlo fatto!”
Ives scoppiò a ridere e fu costretto a sostenersi a
sua
volta alla mia auto. “Ethan, avevi una mano sul pacco! Non ci
credo, questa
foto finirà nella storia!”
Mi strinsi nelle spalle e ridacchiai. Beh, volevo
assumere una posa accattivante…
“Io avevo
la bocca
aperta!” protestò Alick, accostandosi alla sua
ragazza e puntandosi le mani sui
fianchi. “Se mi ami davvero, dammi quel rullino
affinché io possa
distruggerlo!”
“Non ci penso nemmeno!” May gli fece la
linguaccia, poi
si voltò verso Oliver. “Ne scatto
un’altra?”
“Se io sono venuto bene, no”
affermò il cantante,
sfilandosi gli occhiali da sole e portandosi indietro i corti capelli
biondicci
con una mano. “È arrivato il momento di brindare!
Ethan, fuori l’alcol!”
Mi chinai per raccattare le bottiglie di birra che avevo
preso prima di uscire dal locale e che avevo poggiato a terra; mentre
le
afferravo, notai due ragazze avvicinarsi a noi con degli enormi sorrisi
stampati sulle labbra. Riconobbi subito una delle due come Daisy,
l’attuale
ragazza di Oliver, mentre l’altra era una tizia che mi era
capitato di vedere
qualche volta ai nostri concerti ma con cui non avevo mai parlato.
Daisy, strillando e pigolando come suo solito, si
avvinghiò subito al suo ragazzo. “Amore! Siete
stati pazzeschi stasera,
divini!” Poi si voltò verso la sua amica.
“Lei è Sophie, una mia amica nonché
vostra grande fan!”
Sophie – alta, belle forme, lunghi capelli biondi e
occhi
da cerbiatto – si accostò a noi in preda
all’emozione. “Ragazzi, vi adoro!
Quando farete il vostro primo tour mondiale, voglio venire con
voi!”
Mollai le birre in mano ad Alick e May e mi accostai a
quell’intrigante donzella – non potevo certo
lasciarmi sfuggire un’occasione
così succosa. “Se ci sarà posto nel
van, perché no?” ammiccai con un
sorrisetto.
Lei arrossì e si sistemò una ciocca di
capelli dietro
l’orecchio.
“Sono qui le star?” Una voce familiare
esplose alle
nostre spalle, annunciando l’arrivo di Josh. Il nostro amico
ci raggiunse e
batté una pacca sulla spalla a ciascun componente della
band. “Avete spaccato
stasera, ragazzi! Wembley attende solo voi!”
“Hai portato la roba?” gli
domandò Ives, piegando appena
il capo di lato.
Josh ci sorrise. “Ho con me un bel gruzzolo di coca
per
spassarcela un po’!”
“Ehi, ma noi non dovevamo fare un
brindisi?” richiamò la
nostra attenzione Oliver, che teneva ancora Daisy stretta per la vita.
Constatai che le birre a nostra disposizione non
bastavano per tutti: eravamo stati raggiunti da un sacco di amici,
ragazze e
fan, era tutto un tripudio di complimenti e festeggiamenti.
Dopo qualche minuto io, Ives, Alick e Oliver ci
ritrovammo con una birra ciascuno tra le mani, allora ci posizionammo
in
cerchio al centro del marciapiede con tutti i nostri amici attorno a
noi.
Oliver sollevò la sua bottiglia. “Questo
è per
festeggiare l’ennesimo concerto degli Storm It Down portato a
casa!”
Sollevai a mia volta l’oggetto che stringevo tra le
dita.
“Devo dire qualcosa?”
Alick scoppiò a ridere. “Qualcosa tipo:
brindiamo per un
futuro pieno di successo, concerti…”
Inarcai un sopracciglio.
“Ah, che palle, Ethan!” saltò
su Ives, facendo scontrare
con le nostre la sua bottiglia. Mise su un enorme sorriso ed
enunciò: “Brindiamo
per la nostra band e per un futuro pieno di musica, per la nostra
amicizia che
va oltre lo spazio e il tempo, perché tutti noi troviamo
tanta felicità e tanto
amore!”.
Alle nostre spalle partirono alcuni fischi e grida di
approvazione, mentre le guance di Ives si tingevano appena di rosso.
“Che romanticone, il nostro bassista!”
commentò Oliver
con una risata, scompigliandogli i capelli come si fa coi bambini.
E in effetti, con quegli occhioni azzurri e innocenti, il
viso arrotondato e delicato e il ciuffo sbarazzino sulla fronte, Ives
pareva
proprio un bimbo. Incrociai il suo sguardo e mi sorpresi per
l’ennesima volta
della fiducia che vi si poteva scorgere: pensava davvero ciò
che diceva,
credeva davvero nell’amore e si aggrappava con forza ai suoi
sogni.
Gli sorrisi appena, stappai la mia birra e presi un lungo
sorso. Dato che attorno a noi tutti avevano ricominciato a
chiacchierare e
scherzare tra loro, mi sporsi appena verso di lui con fare complice.
“Sei
davvero così interessato a trovare il grande amore,
eh?”
Lui annuì con convinzione. “Ma
certo!”
“Allora perché non cominci la ricerca con
quella bella
moretta che non ha fatto che fissarti per tutto il concerto?”
Lui sgranò gli occhi, cadendo dalle nuvole.
“Quale? Dove?
Io non me ne sono accorto!”
Scoppiai a ridere e gli diedi una leggera e scherzosa
spinta, mentre lui arrossiva appena.
In cuor mio, anche se all’amore e altre stronzate
del
genere non ci credevo e non mi importava, speravo davvero che Ives
riuscisse a
trovarlo. Se lo meritava, ed ero certo che lui avesse tanto da dare;
sicuramente la donna che gli sarebbe stata accanto per tutta la vita
sarebbe
stata davvero fortunata.
Spostai lo sguardo su Alick, che teneva May stretta a
sé
e le sussurrava qualcosa all’orecchio, e poi su Oliver, che
rideva insieme a
Josh e qualche altro ragazzo, e mi sentii davvero appagato.
Suonavo nella band dei miei sogni insieme ai migliori
amici che mi potessero capitare e le cose avevano iniziato a girare per
il
verso giusto: le nostre date si moltiplicavano di continuo, calcavamo i
palchi
dei locali più in voga di Los Angeles, stavamo cominciando a
farci un nome e un
pubblico, presto saremmo potuti entrare in uno studio di registrazione
a
incidere le nostre prime demo.
Levai lo sguardo al cielo trapuntato di stelle e lasciai
che la brezza di ottobre mi scompigliasse i capelli. Non potevo essere
più
felice di così: mi sembrava di poterli sfiorare con un dito,
quegli astri
luminosi.
Tornai a guardare Ives.
“Allora…”
“Sì?”
“Andiamo dentro a cercare la moretta? Magari la
troviamo
con qualche amica e posso approfittarne anch’io…
sai com’è.”
Lui ridacchiò. “Che stronzo!”
Risi a mia volta, e non ci fu bisogno di aggiungere
altro.
° °
°
Riprendo pian piano i sensi e mi sento già immensamente
spossato. Non ricordo dove mi trovo, che ora e che giorno sia; non ho
nemmeno
il coraggio di aprire gli occhi.
Le uniche sensazioni che percepisco sono un dolore
lancinante alla testa, la gola secca e un sapore terribile in bocca.
Affino l’udito: attorno a me regna un silenzio strano e
teso, interrotto ogni tanto da qualche vociare e dal rombo di un motore.
Quando, dopo qualche minuto, trovo la forza e il coraggio di
riaprire le palpebre, apprendo che è pieno giorno e che sono
stravaccato sul
sedile della mia auto sfasciata. La brezza fresca di fine settembre
filtra dal
finestrino dalla parte del passeggero, che ho distrutto giusto qualche
giorno
fa e ora non si può più chiudere.
Cerco di raddrizzarmi a guardarmi attorno per capire in
quale zona della città mi trovi, ma un capogiro mi coglie di
sorpresa e sono
costretto a prendermi la testa tra le mani.
Cazzo, sto malissimo.
È l’ennesimo giorno di fila che mi risveglio in
preda ai
postumi della sbornia, dopo aver bevuto come una spugna la sera
precedente.
Ormai non ricordo più ciò che faccio, dove mi
reco, con quali persone trascorro
il mio tempo: mi stordisco fino a non pensare più.
Perché fermarsi a riflettere in questi giorni sarebbe troppo
straziante.
Sospiro, apro lo sportello ed esco sul marciapiede,
stiracchiandomi e sentendo i muscoli doloranti. Non mi fa bene dormire
sul
sedile di un’auto, rannicchiato su me stesso o disteso in
qualche posizione
innaturale.
Mi accendo una sigaretta e comincio a osservare la gente
attorno a me: tutti continuano a fare la loro vita, guidano
indisturbati le
loro vetture o passeggiano per strada come se niente fosse, e nessuno
sembra
far caso alla mia presenza.
Nessuno si accorge di quanto sia sbiadito il mondo.
Prendo una boccata di fumo e ripenso a tutte quelle sigarette
che ho fumato insieme ad Ives, a tutte le volte che abbiamo condiviso
l’accendino e ci siamo detti tutto senza nemmeno aprir bocca,
avvolti dalle
nuvolette dense che soffiavamo fuori dalle labbra. Ho
l’impressione che da un
momento all’altro il mio amico comparirà da dietro
l’angolo e mi dirà: ehi,
ho scordato a casa il pacchetto, me ne offri una?.
Non è possibile che non sia qui, al mio fianco. Lui che
c’è
sempre stato, con cui ho vissuto ogni avventura, ogni momento, dal
più banale
al più importante. È un’assenza che mi
toglie il respiro.
E ogni volta che un passante attraversa la strada, ogni volta
che una persona svolta l’angolo o sbuca dalla porta di un
edificio, mi illudo
che sia lui. Mi pare quasi di vederlo, che mi raggiunge col suo
sorrisone
entusiasta e gli occhi azzurri pieni di luce e di cose da raccontare.
Brillava troppo per essersi spento così. E dopo ventun anni
in cui non ha fatto che illuminare ogni angolo di mondo in cui
è passato, ora
ha lasciato un grande buio dietro di sé.
Mi siedo sul marciapiede e poco importa se mi trovo in mezzo
alla strada. Sollevo lo sguardo al cielo velato di nubi biancastre e mi
domando
se dietro di esse vi sia ancora il celeste dentro lo sguardo di Ives.
Non gli sarò mai abbastanza grato per essere stato la parte
più buona di me, l’altra metà della mia
anima e l’unica persona ad avermi dato
un motivo per aggrapparmi alla vita.
Nessuno gli sarà mai grato abbastanza per aver reso questo
mondo un luogo migliore.
You
were as kind as
you could be
And even though you're gone
You still mean the world to me
[Alter
Bridge – In
Loving Memory]
♠
♠
♠
Non so bene che dire.
Scrivere questa storia mi ha fatto malissimo, e sono così
tanto sopraffatta dalle emozioni che non riesco nemmeno a capire se ho
fatto un
buon lavoro o meno. Sicuramente la storia ha molti difetti, ma
l’ho scritta con
il cuore e con tanto dolore, dalla prima all’ultima parola.
Quindi va bene
così.
Parlare della morte di Ives è sempre complicato per me, ma
lo è ancora di più se dal punto di vista di
Ethan. Lui è probabilmente uno dei
personaggi che ne ha sofferto di più e immergermi nella sua
mente è stato
davvero devastante.
Ma, sapete, mi ha fatto anche bene. Penso che tramite la
scrittura si possano esorcizzare molti demoni che si ha dentro.
Ma bando alle ciance, mi sono dilungata fin troppo, quindi è
il caso che passi alle note di spiegazione!
Nella storia ho cercato di essere il più chiara possibile,
ma per chi non conosce la serie alcuni punti potrebbero non essere
molto
chiari.
Per esempio (chi sa già può saltare): Ives viveva
con la zia
Maura e la cugina, Maggie, perché sua madre Veronica
(sorella di Maura) una
settimana dopo averlo dato alla luce. Maggie definisce una
“puttana” la madre
biologica di Ives perché è stata stuprata ed
è proprio da questa violenza che è
nato il bambino, ma sta ben attenta da non farsi sentire da Maura
perché
quest’ultima nutre un grande rispetto per la compianta
sorella.
Altra cosa che forse non è chiara: quando Ives aveva
diciassette anni (nel novembre dell’85), Maura l’ha
colto in flagrante con una
dose di cocaina in camera sua e allora, presa da un moto di rabbia,
l’ha
cacciato di casa. Il ragazzo è quindi stato ospitato da
Ethan, che aveva un
appartamento suo pagato da Davi; comunque, per la disperazione di aver
deluso
la zia, il giorno stesso si è fatto per la prima volta di
eroina, cadendo
sempre più nella dipendenza.
Davi è appunto il fratello spacciatore di Ethan ed
è
riuscito a entrare in un giro molto importante. I due ragazzi sono
arrivati a
Los Angeles insieme ad altri due dei loro fratelli (Arthur e Olivia),
che però
poi si sono fatti una vita altrove.
Infine, gli Storm It Down sono la band dei ragazzi che
(almeno nel momento in cui è ambientata la storia) presenta
la seguente
formazione: Oliver alla voce, Ethan alla chitarra, Ives al basso e
Alick alla
batteria.
Chi ha letto le altre storie della serie, conosceva già
anche il personaggio di May; le new entry più importanti,
che sicuramente
compariranno più avanti in altre storie, sono Josh e Daisy.
Spero di essere
riuscita a delinearli un pochino, nonostante la situazione complicata!
E finalmente facciamo anche la conoscenza di Davi! Ormai
questo famoso fratello di Ethan era diventato una sorta di leggenda XD
ne
parlavo sempre ma non era mai apparso! E ora, anche se molto
marginalmente, l’abbiamo
“incontrato” ^^
Ah, a proposito: ovviamente i due parlano in portoghese tra loro
perché vengono dal Brasile!
Per quanto riguarda la scena in cui Ethan suona la chitarra
per Ives e poi lui gli chiede di abbracciarlo (avete visto??? Ethan,
l’uomo che
DETESTA gli abbracci, si è lasciato andare solo col suo
migliore amico
*_____*), viene citata Samba Pa Ti, una STUPENDA
canzone di Santana
totalmente strumentale. ADORO l’idea che Ethan la suoni,
perché lo immagino
proprio così quando imbraccia la chitarra: pieno di
sentimento e di
delicatezza!
Qui il link per ascoltarla: https://www.youtube.com/watch?v=timZoOs9ozo
Abraxas è, ovviamente, l’album
di cui il brano fa
parte.
Poi… a un certo punto Josh cita il cercapersone. Per chi non
lo sapesse, è un aggeggio diffuso soprattutto negli anni
Ottanta e Novanta
(prima del telefoni cellulari, insomma) che ti avvisava nel caso
ricevessi
qualche chiamata al telefono fisso e non potevi rispondere
perché eri fuori
casa. Chi cercava di contattarti aveva la possibilità di
lasciarti dei brevi
messaggi vocali (più avanti anche dei brevi testi, in stile
SMS). Dalle
autobiografie che ho letto, ambientate in quegli anni, ho appreso che
gli
spacciatori spesso lo avevano per tenersi rintracciabili dai loro
clienti.
Quando nella penultima scena nomino Wembley, mi riferisco al
famosissimo stadio di Londra in cui hanno suonato – e
tutt’oggi suonano – le
più importanti band del panorama musicale internazionale.
Infine (vi giuro che ora la pianto con queste note
chilometriche) ho realizzato il sogno di alcune persone, inserendo un
lievissimo accenno slash tra Ives&Ethan. Io non lo considero
nemmeno tale,
dato che faceva parte di un sogno e si sa che l’inconscio
gioca brutti scherzi,
ma ecco, mi sembrava una cosa ancora più straziante e
drammatica XD
In realtà l’idea mi è venuta leggendo
alcuni articoli
riguardanti Chris Cornell (cantante di Soundgarden e Audioslave) e
Chester
Bennington (cantante dei Linkin Park); per chi non lo sapesse, i due
erano
grandi amici ed entrambi si sono tolti la vita nel 2017.
Il primo a compiere il gesto estremo è stato Chris,
precisamente il 18 maggio; nei giorni seguenti, Chester ha reso
pubblica una
lettera davvero straziante, e un passaggio in particolare mi ha fatto
davvero
salire il magone e le lacrime agli occhi. Ve lo copio di seguito:
«Ho sognato i Beatles la notte scorsa. Mi sono
svegliato
con Rocky Raccoon in testa e davanti allo sguardo
preoccupato di
mia moglie. Mi ha detto che il mio amico era appena morto. La mia mente
si è
riempita di tuoi ricordi e ho pianto. […] Ho appena guardato
un video in cui tu
cantavi A Day In The Life dei Beatles e mi
è tornato in mente quel mio
sogno. Mi piace pensare che eri tu che mi stavi dicendo addio a modo
tuo.»
Questo dettaglio mi ha talmente devastato che ho pensato
dovesse succedere anche con i miei Ives e Ethan, mi faceva impazzire
l’idea che
Ives desse il suo ultimo saluto a Ethan in un sogno.
Chris e Chester erano davvero legati (tanto che quest’ultimo
si è suicidato il giorno in cui Chris Cornell avrebbe
compiuto gli anni) e il
loro rapporto mi fa inevitabilmente pensare ai miei amati OC.
Dovrebbe essere tutto!
Ringrazio chiunque sia stato così coraggioso e determinato
da spingersi fin qui, ringrazio Sabriel per il suo contest stupendo e
ringrazio
DI CUORE i miei Ives&Ethan, per rubarmi l’anima ogni
giorno e rendermi
felice di scrivere ♥
|