✿◉●•◦
Cantuccio
di Ever
Ebbene sì, sono
tornata!
Specifico subito che questa storia nasce, cresce e muore come mini-long, per cui
non sarà nulla di così lungo d'ammorbarvi -
qualcuno penserà "che sollievo", me lo auguro! ^^"
Come svarione iniziale, mi piacerebbe subito informarvi di
com'è nata questa idea. Premetto che è stato
più un colpo di testa che una vera e propria ispirazione. La
verità è pura e semplice: ho passato un periodo
davvero orribile, sotto ogni punto di vista. Da settembre a novembre
non ho fatto altro che mostrarmi in continua apatia, e persino la mia
"produzione" scritta ha risentito molto di questo mio stato mentale. Mi
ero fatta addirittura l'idea che forse scrivere non sarebbe stato
sufficiente a rimettermi in sesto, c'è una parte di me che
continua a pensarlo.
Eppure, eccomi qui. Forse perché la scrittura trova sempre
un modo per attrarmi a sé, in un modo o nell'altro.
Quindi questa storia vedetela come una specie di grido dell'anima,
sì. Mi piace definirla in questo modo.
Tengo a sottolineare che ho scritto questa mini-long con uno stile
molto "artificioso"; è qualcosa che può piacere e
non piacere, ma mi scuserete se, per una volta, scrivo qualcosa che
piaccia davvero a me, a scapito degli altri. E' un desiderio egoista,
me ne rendo conto. Ma avevo bisogno di farlo, per cui sono contenta di
averla scritta così com'è.
Come sempre, vi chiedo scusa se i protagonisti - soprattutto Hinata,
maledetto - vi appaiono OOC, anche se vi giuro che ho sprecato
settimane del mio tempo per riuscirlo a rendere il più IC
possibile - anche perché lo ammetto, senza di lui questa
storia non sarebbe mai nata.
Ringrazio chiunque legga questa storia, a prescindere dal fatto che si
fermi a dirmi cosa ne pensa. E' un po' il mio ricominciare, per cui
grazie davvero.
A presto,
• Ever •
PRELUDIO
Le mani scivolavano veloci
lungo i tasti del pianoforte a coda. Suonare era parte del gioco.
Ottantotto.
Ottantotto le volte in
cui aveva creduto di non farcela. Ottantotto i tentativi. Ottantotto i
fallimenti. Ottantotto le imprecazioni che gli ci erano volute per non
arrendersi.
Ottantotto i tasti su
cui viveva.
Respirò,
riprese del fiato che non gli serviva davvero. Egli suonava, era
sufficiente. D’altronde, chi diavolo se ne fregava di
respirare, quando poteva suonare della musica così?
Aveva gli occhi
chiusi, ma andava bene lo stesso. Non gli serviva guardare, per capire
cosa stesse suonando.
Gli bastavano le
orecchie. Un dono che gli era stato concesso, insieme alle dita
affusolate che danzavano sul bianco accecante dei tasselli di luci e
ombre, eterni rivali in uno scontro fatto di note alte e basse, binari
paralleli di una musica che non si poteva suonare, se non con il cuore.
Sorrideva, mentre la
melodia arrivava al suo attimo più importante. Era come una
droga, per lui. Una dipendenza da cui non era mai riuscito a
svincolarsi. Era preda di una bizzarra estasi, ed i Do maggiori riempivano la
sala, e i Do minori la svuotavano.
Riempire. Svuotare.
Un conflitto fatto di anime incapaci di poter afferrare quel briciolo
di libertà che solo la musica poteva concedere loro.
Profani. La gente che
sentiva, ma che non era più in grado di ascoltare.
Su quale musica
avrebbe mai potuto ballare, quella gente? Se l’era chiesto
molte volte, ma trovava solo risposte dai toni troppo cupi.
Perché quella era una musica che non sapeva suonare.
E ciò che
non si poteva suonare, non meritava d’esser ascoltato.
Le dita si fermarono,
l’indice della mano sinistra non premette il tasto da cui
s’animava il Si bemolle.
I timpani non
avvertirono il placido tepore degli applausi. Si voltò verso
il pubblico, l’indaco degli occhi
s’offuscò alla vista delle bocche lasciate
semiaperte per lo stupore.
Ritornò con
lo sguardo sulle sue dita: il primo tremava; le seconde non si
muovevano più.
♪
Il giovane copista
scese, accorto a che il gradino in ferro del treno non si facesse beffe
di lui – come al solito.
Scaricò a fatica la pesante valigia in pelle, prestando
attenzione al grande cartello posto all’ingresso
dell’edificio: probabilmente doveva essere la cartina della
stazione, ma egli non era granchè portato per le lingue.
S’accinse a
tradurre quel poco ch’era stampato in inglese – non
che se la cavasse meglio del tedesco –, ma le uniche due
parole che comprese furono uscita
e binario,
cosicché iniziò a guardarsi attorno nella
speranza di trovare colui che avrebbe dovuto prelevarlo.
— Signor
Hinata —, sentì chiamare da una voce in
lontananza, con un bizzarro accento perso in un connubio tra il
giapponese e l’austriaco. — Signor Hinata, guardi
qui!
Il giovane si
voltò in direzione di un uomo alto, dai folti capelli bruni
e un paio d’occhiali talmente grandi da sfumare i lineamenti
delicati del volto pallido e smagrito. Shōyō chinò
lievemente il capo, grattandosi nervosamente la nuca: probabilmente non
era stata una decisione granché ponderata, ma qualcosa
nell’affanno tormentato di quell’uomo sembrava
accendergli ben più d’un campanello
d’allarme.
—
Buongiorno, — rispose con titubanza, — la stavo
cercando.
— Domando
perdono, ma Vienna oggi è affollata come non mai!
— sbottò il bruno, sistemandosi gli occhiali sul
naso sudaticcio. — Le chiedo scusa per il ritardo. Prego, da
questa parte. — Gl’indicò la direzione
opposta a quella che Shōyō aveva avuto intenzione di prendere qualche
istante prima – il che sottolineava la sua poca
familiarità con le indicazioni – e gli fece un
cenno con la mano: — Lasci pure a me la sua valigia.
Il rosso fece come gli
era stato detto; in un’altra occasione avrebbe certamente
insistito per portarla da solo, dato che credeva pesasse troppo per un
tipo mingherlino come quell’accompagnatore, ma aveva sentito
dire ch’era un segno di profonda scortesia, in Europa,
rifiutare un aiuto.
— Se
possibile, — provò a dire, spaesato, —
lei chi è?
L’uomo si
voltò paonazzo verso il più giovane, sbraitando
un isterico: — Mi scusi, sono un maleducato! Era tanta la
fretta di venire qui a prenderla che ho scordato completamente di
presentarmi! La supplico di perdonarmi!
Shōyō rimase inebetito
per qualche istante, non comprendendo il significato di alcune parole
che, nella fretta d’esser pronunciate, apparivano come di
un’altra lingua – forse austriaco[¹],
o forse ostrogoto, egli non avrebbe saputo proprio dirlo.
— Il mio
nome è Ittetsu Takeda, sono il capo-maggiordomo di Mister
Kageyama.
Il copista
sbarrò lo sguardo, sorpreso e in parte rilassato
all’idea di trovarsi di fronte ad un suo compaesano.
— Quindi è giapponese anche lei?
—
Sì, ma ho vissuto pochissimo in Giappone. —
Uscirono all’aria aperta, attorno alla Stazione Centrale il
frenetico via vai di Vienna pareva inghiottire le strade di cemento e
il febbrile passare della gente appena arrivata coi treni.
L’uomo s’avvicinò ad una lussuosa
Mercedes carbonata, passando il pesante bagaglio ad un omone vestito di
nero che Shōyō intese come l’autista. — Ho seguito
i coniugi Kageyama qui in Austria quand’ero solo un infante,
poi mi sono preso cura di loro figlio.
— Quindi il
signor Kageyama non è mai vissuto in Giappone? —
domandò ingenuo il ragazzo, mentre s’accomodava
sul morbido sedile in pelle del veicolo.
— Esatto.
— Takeda sospirò, dando delle breve indicazioni al
conducente, poi riprese: — Ma nonostante questo, le posso
assicurare che dispone della conoscenza d’un giapponese molto
forbito.
— Non
sarebbe comunque stato un problema —, borbottò il
copista, pensando ch’egli non fosse ciò che si
sarebbe propriamente definito come un madrelingua. A
volte, se non vi avesse prestato attenzione, avrebbe sbagliato persino
a scrivere.
— Le sono
davvero grato per essere venuto, signor Hinata, —
continuò il maggiordomo, sorridendo placidamente,
— ultimamente non sono molti, coloro che accettano di
lavorare per Mister Kageyama.
— E
perché?
— Come posso
spiegarle senza che lei fraintenda? — rise l’uomo,
sistemandosi i ciuffi dei capelli che gli offuscavano la vista.
— Diciamo che ultimamente il padrone è di pessimo
umore, ecco tutto. È molto preciso, puntiglioso e pedante,
il che manda nel pallone chi decide di lavorare per lui. Non
è cattiveria la sua, solo…
— Beh, se
bisogna fare qualcosa, allora è importante impegnarsi a
farla bene, no? — chiese sorridendo il copista, lasciando il
suo interlocutore ingiustificatamente perplesso.
Dalle poche battute
che aveva scambiato con il ragazzo, Takeda era certo che appartenesse a
quella comune categoria di persone che il suo padrone disprezzava di
più: gaio, ingenuo, ottimista e con un bizzarro luccichio
nello sguardo che pareva annientare il bagliore dei raggi solari. Un
giovane trascrittore che probabilmente amava la vita e tutto
ciò che da essa avesse mai potuto ottenere. Per certi
aspetti, forse sarebbe stato più corretto avvertirlo di come
Kageyama rispecchiasse fedelmente il suo più antitetico
riflesso: cresciuto attraverso una rigida educazione tedesca, il
piccolo prodigio s’era avvicinato al pianoforte ad
un’età durante la quale il resto dei bambini si
dilettava a sognare. Tuttavia, i sogni di Kageyama non erano nei
cassetti, ma sugli ottantotto tasti del pianoforte a coda che suo padre
gli aveva regalato per il suo settimo genetliaco. Non passò
mai giorno senza che il suo padrone non si dilettasse
nell’imparare un nuovo spartito, e col passare del tempo il
bambino comprese che suonare una melodia già scritta lo
ammorbava, procurandogli noia e null’altro.
Cominciò a
comporre all’età di nove anni. Kageyama non aveva
bisogno di un maestro, poiché egli la musica non la
componeva; semplicemente, la trovava:
nel fruscio delle fronde dei salici, nell’odore penetrante
dell’humus autunnale, nel placido ronzio delle api durante le
infiorescenze dei gelsi. Tutto ciò che la gente normale
avrebbe definito come ispirazione,
per Kageyama era come uno spartito già scritto e che andava
solamente tradotto nella lingua della musica. Era un romantico, ma
senza che ne fosse a conoscenza.
Quel quieto
entusiasmo, ch’era sempre stato l’anima del suo
creare, divenne presto offuscato da una banale diagnosi medica che
veniva chiamata col semplice appellativo di distonia focale del musicista[²].
Non era nulla di complesso, né tantomeno mortale. A ben
pensarci, se una cosa del genere fosse capitata ad un’altra
persona, forse non avrebbe suscitato chissà che grave
avversità. Ma per Kageyama, che aveva vissuto la sua vita
solamente su quegli ottantotto tasti del pianoforte a coda, la
consapevolezza di non essere più all’altezza di
ciò che immaginava aveva rappresentato la totale perdita di
senno: aveva cominciato a saltare i pasti, non si presentava alle cene
organizzate dai facoltosi genitori, se la prendeva con la
servitù e per tutto il tempo rimaneva rinchiuso nel grande
salone dove c’era il pianoforte, strimpellando note
discordanti, le quali apparivano come il lamento ostile dei reietti del
Tartaro[³].
Takeda aveva osservato
il padrone perdere la passione e cannibalizzarla in
un’odissea per la perfezione, che tuttavia la malattia non
gli concedeva il beneplacito di raggiungere; era come osservarlo
correre verso un traguardo che s’allontanava ad ogni suo
passo, il che aveva reso il giovane talento ancora più
ostile nei confronti dei copisti che aveva cominciato ad assumere. Lo
aveva fatto perché, se non avesse più sprecato
tempo a riscrivere gli spartiti, forse i suoi muscoli lo avrebbero
graziato dall’impasse di non funzionare più come
avrebbero dovuto. Ma ogni volta che si ritrovava a leggere i
trascritti, le urla di Kageyama arrivavano fin sulla torre
più a nord della villa, facendo tremare l’intonaco
disossato degli scantinati e le povere serve che gli preparavano il
pranzo. C’era sempre qualcosa che non andava, un Do diesis
omesso o scritto male, una nota saltata, un semitono di troppo. Ma la
cosa che più irritava il prodigio non era l’errore
tout court, quanto piuttosto le banalità con cui i copisti
tentavano di giustificarsi: chi per sbadataggine, chi per noia o chi
per un eccesso di tracotanza avesse cercato di modificargli la melodia,
privandolo del sottile vanto della composizione, avrebbe finito per
pentirsi del proprio operato, perdendo il lavoro e –
attraverso continue mortificazioni – la dignità.
Il giovane copista
accanto a sé, probabilmente, avrebbe dichiarato forfait nel giro di
qualche giorno, se non ora. A Takeda non sembrava affatto un cattivo
ragazzo, ma s’era scoperto più d’una
volta incapace di giudicare apertamente il profilo caratteriale delle
persone. Forse persino Kageyama gli era sconosciuto, sebbene gli fosse
rimasto accanto per tutta la vita. Sperava solo che quella triste
messinscena che durava ormai da anni finisse, e che il giovane prodigio
desistesse dall’intento di chiamare a sé altri
trascrittori.
—
Com’è il signor Kageyama? —
domandò infine la voce sbarazzina del rossiccio.
Takeda
deglutì; forse non era un bene avvertirlo su ciò
che stava rimuginando. — Non è un signore, al
contrario. Credo che abbiate più o meno la stessa
età.
— Sul serio?
Credevo fosse più vecchio. — Lo vide portarsi una
mano dietro la nuca e sorridere spensierato. — Immagino di
essere più tranquillo adesso.
— E
perché?
— Beh,
perché lei l’ha chiamato Mister Kageyama. Per un
attimo ho pensato che fosse un vecchio panzone con la barba.
— Shōyō s’interruppe, portandosi una mano alla
bocca per quanto appena detto: — Cioè, con questo
non voglio dire che i panzoni con la barba siano delle brutte persone,
intendevo solamente che è piacevole pensare che sia una
persona della mia stessa età.
Il maggiordomo sorrise
impercettibilmente. Con ogni probabilità la persona al suo
fianco era una di quelle che straparlava quando si trovava in
situazioni di disagio o imbarazzo – il che, sicuramente, non
gli sarebbe servito per entrare nelle grazie del suo padrone.
Tuttavia, durante il
resto del viaggio, Takeda pregò in cuor suo che quel ragazzo
fosse diverso.
♪
La Mercedes sfrecciava
veloce sull’asfalto fumoso, inghiottito dal seducente
lastricato di foglie ingiallite e rossicce, così vagamente
rassomiglianti al colore che tingeva i capelli del copista, immerso
nella contemplazione della natura nel suo lapalissiano soccombere al
bussare violento dei primi freddi. La campagna viennese cedeva il passo
al lussureggiante e ben curato manto conifero di Sankt Pölten,
la cui vasta vegetazione di canneti accerchiava con le proprie poacee
gli stagni lacunosi e dall’odore ruspante, lentigginati dalle
piccole lenticchie d’acqua che parevano distendersi come un
tappeto sopra lo specchio d’acqua. Con l’inasprirsi
del periodo più algido era pressocché impossibile
scorgere, in quell’immensità, la massiccia
presenza faunistica ch’era appannaggio della bella stagione e
che in quell’istante probabilmente s’apprestava ad
abbandonarsi al dolce sonno del letargo.
Sankt Pölten
era una di quelle realtà che trovava la sua realizzazione
nel comune epiteto di ridente
cittadina, ma per Shōyō costituiva ben poca cosa rispetto
al frenetico brusio delle metropoli in cui era vissuto: Tokyo,
Hamamatsu, Sendai; erano tutte realtà così
immense che lambivano un concetto puramente astratto, lontano dalla
vista farlocca dello sguardo. Non si potevano toccare, quelle
città. Perché, banalmente, per lui erano troppo: le luci
sgargianti della notte nipponica, il continuo calpestio delle scarpe
sui marciapiedi sempre affollati, la ressa che si accalcava
all’ingresso dello Shinkansen, l’intermittenza
fastidiosa dei grandi tabelloni pubblicitari sui giganti di cemento e
vetro, così alti che, a volerne vedere la punta, ci si
sarebbe potuti smarrire nell’immensità del cielo
plumbeo.
Per Shōyō quella
vastità aveva posto un freno alla sua immaginazione,
poiché in Giappone non si poteva vedere alcuna linea
dell’orizzonte. E, dopo averlo capito, Shōyō s’era
lesto accorto che il serafico quanto banale concetto d’infinito a lui, in
realtà, spaventava. Per questo se n’era andato, e
l’opportunità di farlo era balenata davanti alla
sua persona sottoforma di una missiva in carta pregiata e che recava un
bizzarro sigillo in cera rossa.
Sankt Pölten,
a ben vederla, era una città che iniziava e finiva. Non era
piccola, ma neanche grande. Forse avrebbe potuto perfino vederla tutta
in un giorno – e la cosa, se vi avesse prestato
l’opportuna attenzione, non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
La macchina
passò veloce lungo la strada che costeggiava il lembo
acquifero del fiume Traisen, lasciandosi alle spalle il centro urbano
per tuffarsi ancora una volta nella rigogliosa e familiare campagna
austriaca, accarezzata dall’ondeggiare sereno dei prati
smeraldini e dai cirrocumuli lattiginosi che correvano veloci sul cielo
cianotico dell’autunno tardivo. In lontananza il copista
scorse l’austera presenza d’un grande villone dai
cancelli in ferro battuto, plasmati secondo la volontà
d’un buongustaio, mentre all’orizzonte
s’ergevano dei giganti torrioni in pietra, più
larghi che alti e che parevano minacciare coloro che, incautamente,
s’approssimavano all’edificio. Shōyō non
poté esimersi dall’apparir rigidamente intimidito,
e si strinse nelle spalle, facendosi più piccolo di quanto
già non fosse.
— Non si
preoccupi, — lo rasserenò il maggiordomo,
— è un po’ inquietante, ma accogliente.
Il copista non
rispose, certo che non fosse un buon momento per spiegare al suo
interlocutore che attributi come inquietante
e accogliente
non venissero mai deliberatamente usati nella stessa frase. Rimase in
silenzio, osservando i monumentali contrafforti che sorreggevano
l’edificio, della stessa tonalità
dell’argilla ancora fresca. Non poteva dire di non sentirsi
in soggezione, eppure quella costruzione, ch’era
così dissimile da tutte quelle che gli era capitato di
vedere in Giappone, lo affascinava, così come la vasta
pineta che sembrava avvolgere e proteggere la tenuta da occhi
indiscreti.
— Non
è come le case che c’erano in città
—, disse infine, perplesso.
— No, non lo
è, — convenne Takeda, sorridendo cordiale,
— perché questa è una villa gotica.
È stata costruita sul modello della Hermesvilla viennese[⁴].
Shōyō storse il naso:
non era mai stato una cima in storia dell’arte, figurarsi poi
trattare di architettura europea di cui a stento riconosceva i tratti
più caratteristici. Tuttavia, il copista odiava mostrarsi
impreparato su qualcosa, persino quando si fosse trattato di un
argomento a lui del tutto sconosciuto. E fu così che,
piuttosto incautamente, si ritrovò ad annuire come un
architetto che non avesse fatto altro che progettare ville per tutta
una vita.
— Capisco.
— In verità non comprendeva affatto, ma questo il
maggiordomo non poteva saperlo – né forse gli
sarebbe importato davvero.
L’autovettura
si fermò nell’eden antistante al grande ingresso
sfarzoso, ricco d’intarsi barocchi che ricalcavano lo stesso
motivo che fuggiva su per gli archi rampanti, perdendosi sulla mosaica
pietra dei torrioni più grossi. Shōyō chinò il
capo per ringraziare l’uomo che cordialmente gli aveva aperto
la portiera e rimase imbambolato di fronte alla marmorea fontana che
conquistava il suo sguardo nocciola: quattro eleganti cigni incastonati
nell’eterno attimo di librarsi in volo, mentre
l’acqua della sorgente scorreva tra le loro zampe palmate. Il
copista non s’arrischiava a definirsi certo un critico
d’arte, tuttavia era sempre stato uno di quei rari soggetti
sensibili alla bellezza in ogni sua più intima forma. Era
per siffatta ragione che non vi pensò due volte, prima
d’esclamare con sommo entusiasmo: — Ma è
meravigliosa!
I domestici, che
s’erano radunati attorno alla vettura per concedere la
riverenza al nuovo ospite, rimasero in silenzio scrutandosi
preoccupati: quel giovane ragazzetto basso e dai capelli insolitamente
arruffati doveva essere estraneo all’etichetta e al
cerimoniale ch’era monopolio della più alta
borghesia – e forse non era neppure mai stato ad una
galà o ad un ricevimento. Dunque risultava a tutti evidente
che quel copista, da solo,
risultasse già una nota ben più che banalmente
stridente.
— Buongiorno
a tutti —, disse infine, voltandosi verso di loro e
concedendosi ad un rigidissimo inchino col busto. — Chiedo
scusa per non essermi presentato. Mi chiamo Shōyō Hinata e sono un
trascrittore.
Uno di quelli
più anziani s’avvicinò al ragazzo,
scrutandolo con attenzione; nessuno tra i presenti era
granché avvezzo all’inglese – tanto
più a quel rottame di lingua con cui s’esprimeva
il giapponese – e comprendere cos’avesse detto
risultava ostico a molti di loro. Lo sguardo di Shōyō, ch’era
così intelligibile da poterci leggere sopra le pupille,
richiamò l’attenzione del capo-maggiordomo, il
quale ripeté con perfetto accento austriaco quanto era stato
appena annunciato dal giovane.
Al sentir pronunciare
le parole del domestico più autorevole, quegli altri
rasserenarono i volti e intiepidirono le smorfie arcigne, facendo un
decoroso inchino. S’erano così assuefatti
all’idea che anche quel moccioso sarebbe andato via presto,
che non s’erano neppure premurati di chiedergli cosa gradisse
per pasto: in fondo, nessuno di loro distingueva con chiarezza le
tradizioni orientali, né tantomeno quelle nipponiche. I
Kageyama potevano facilmente essere descritti come il più
laido rigetto delle proprie origini, e lo s’intuiva guardando
alla tenuta in rigido stile occidentale, privata in toto di quei
piccoli dettagli ch’avrebbero potuto manifestare il loro
malinconico sguardo al passato.
Il copista
entrò nel vasto salone, il cui pavimento era ricoperto da
pesanti quanto eccentrici tappeti persiani che risalivano sinuosi lungo
la maestosa scalinata al primo piano; un po’ più
in là della balaustra in ottone s’ergevano boriosi
dei pretenziosi candelabri d’oro, e sull’intero
locale torreggiava un lampadario adamantino, così sfarzoso
da oscurare il ricco soffitto ricamato da manieristici scorci
cavallereschi. Tutto, in quella regia, appariva assai borioso, come il
dito ingioiellato d’un patrizio puntato contro la sozzeria
della plebe.
Shōyō seguì
il maggiordomo su per le scale blasonate in marmo, sorridendo al
delizioso ticchettare delle suole in cuoio. Era piacevole come la
pioggia che picchiettava sui vetri: scandiva i secondi, e i minuti e le
ore, come un sempiterno orologio che gli ricordasse costantemente
quanti passi facesse.
—
Quest’ala del palazzo è riservata agli alloggi,
— iniziò Takeda, scortandolo per un lungo
corridoio affollato da pesanti armature lucidate a nuovo, —
qui vi sono le camere di tutti i servi che s’interfacciano
direttamente con Mister Kageyama. — Fece un ampio gesto con
la mano e indicò una scala più stretta che
conduceva al piano terra. — Da questa parte, invece, vi sono
le stanze della servitù addetta ai mestieri.
— Mestieri?
— ripeté Shōyō, che non era ben certo di
comprendere il significato di quella parola.
—
Sì, coloro che hanno precisi compiti da svolgere. Cuochi,
domestiche, sellai, scudieri, camerieri, vi sono molti compiti da
svolgere in una tenuta così vasta.
— Capisco
—, ribatté il copista, sorpreso. — E
perché al signor Kageyama serve tutta questa gente?
Se una simile domanda
gli fosse stata rivolta da qualcun altro, forse Takeda avrebbe potuto
apparir stizzito; eppure, osservando la limpidezza sul volto del suo
ospite, comprese che quel quesito non era affatto velato da sarcasmo o
da una sottile ironia: era ciò che avrebbe potuto chiedergli
un bambino, né più né meno.
— Mister
Kageyama è votato solo alla sua musica, sir Hinata.
Shōyō si strinse nelle
spalle e assottigliò le labbra nel vano tentativo di
trattenere una risata: non era affatto abituato a sentirsi dare del
sir, tanto più che non ne conosceva l’elegante
etimologia. Fu così che, stringendo i denti per non essere
maleducato, si ritrovò a dire: — Signor Takeda,
vede, potrebbe chiamarmi semplicemente Hinata? Non ho
granché familiarità coi titoli che usate voi
europei.
Takeda si
fermò, fissandolo sgomento. — Non potrei mai, sir.
È contro il protocollo.
—
Sì, però se siamo da soli il protocollo non
può dire niente, giusto? — rise il ragazzo,
massaggiandosi la nuca.
—
Certamente, ma dovrà abituarsi. — Takeda
sistemò meglio gli occhiali sul naso. Shōyō lo
notò solo in quell’istante, ma quel maggiordomo
doveva essere un tipo abbastanza puntiglioso, sebbene fosse cordiale.
— In questa casa tutti la chiameranno sir, è
nostro costume. La prego di non scambiare questa mia pedanteria per
arroganza, ma le cose vanno chiamate coi loro nomi.
Il copista non
replicò; avrebbe volentieri obiettato circa la sua natura di
cosa
– ché lui non si sentiva affatto inanimato
– ma soprassedé in merito alla precisazione,
limitandosi a seguire in silenzio il suo anfitrione.
Proseguirono lungo un
androne addobbato con grandi arazzi stilnovistici e pesanti cornici
d’ulivo, le quali custodivano i dipinti d’illustri
battaglie e di ninfe sulle sponde delle acque lacustri. E proprio
lì, rimbalzando tra i cassettoni dorati dell’alto
soffitto, Shōyō sentì giungere all’orecchio una
tenue melodia in Fa maggiore, ricca di temperamento seppur soffice
nella sua semplice composizione. Appariva distante e non si riusciva a
comprenderne l’origine, ma il copista – forse
più per istinto che per l’acutezza dei suoi
timpani – volse lo sguardo verso degli scalini in pietra
grezza che si perdevano nella chiocciola stretta della torre
più alta.
— Quelle
scale portano al salone del pianoforte. — Takeda sorrise,
mentre socchiudeva le palpebre al delicato ritmo di quella melodia.
— È la stanza dove Mister Kageyama passa la
maggior parte del suo tempo.
—
È lui che sta suonando?
—
Sì.
— Che musica
meravigliosa. — Shōyō non era una persona incline alla
falsità; quando una cosa gli sembrava bella –
nella stessa identica misura in cui gli appariva brutta – si
limitava a sottolinearne l’incanto, la magia. —
È come se fosse suonata dagli angeli.
—
Già. — Il maggiordomo, per chissà quale
sconosciuta ragione, stava ancora sorridendo.
♪
La figura slanciata
sedeva sul morbido pouf cenerino davanti al pianoforte, coperta da un
elegante abito in cotone leggero; il doppiopetto grigio fasciava il
corpo asciutto e le maniche del blazer coprivano l’epidermide
pallida delle braccia, ch’era tuttavia ben visibile sulle
mani grandi, perse nell’atto d’accarezzare i
sonanti tasti d’avorio. Le dita lunghe e curate sfioravano le
note come un amante ch’avesse atteso per tutta una vita di
poter toccare la donna da lui adorata, ed egli in quella mite supplica
sembrava celare un’appassionata dichiarazione, confidando al
re degli strumenti i suoi più segreti pensieri. Il volto
spigoloso e affilato pareva astretto dal liquefatto timbro melodico,
soffice, tuttavia così potente da riuscire a curvargli la
rigida bocca in un sorriso appena accennato.
Le palpebre serravano
le iridi d’un colore ignoto, senza mostrar affatto le rughe
tipiche degli incubi, bensì la placida levigatezza
ch’era appannaggio del bel sogno, mentre i capelli neri si
scontravano a tenzone con il cereo incarnato del viso rilassato.
Shōyō, rimanendo
rigido sulle gambe snelle, avrebbe potuto – avrebbe dovuto –
pensare a molte cose, eppur non s’espresse: l’unica
cosa che riusciva a contemplare, nell’idilliaco preludio
d’una melodia a lui sconosciuta, era la venusta grazia di
quelle dita e il leggiadro modo ch’esse avevano di lambire i
tasti del pianoforte, come dieci cavalieri che sfiorassero con le
labbra il dorso liscio delle mani cortesi delle fanciulle. Incantato,
il copista si sporse oltre l’uscio della balconata da cui
stava osservando il giovane compositore, finendo per sbattere il
ginocchio contro la rigida balaustra di ferro. In un contesto diverso,
probabilmente, avrebbe imprecato dandosi dell’imbecille, ma
s’accorse di non averne il tempo.
La melodia
s’interruppe, e si sentì trafitto da un gelido
sguardo cobalto che puntava dritto al corridoio più alto,
proprio nel punto in cui si trovava lui. Shōyō non ricordava
d’aver mai visto degli occhi così torbidi, pozze
d’oceano ch’apparivano alla stregua di fiamme
ferventi e arcigne, in quell’eteroclito ossimoro per il quale
l’acqua s’era fatta fuoco.
Trattenne il fiato, e
più non riuscì a deglutire. Rimase paralizzato
lì, in quell’eterna frazione tra la gioia della
dolce melodia ed il terrore per quel ragazzo, dimentico per un istante
della presenza del maggiordomo al suo fianco.
— Mister
Kageyama —, disse la voce calma di Takeda. — Questo
è il nuovo trascrittore.
Shōyō chinò
leggermente il capo, confondendo il gesto di rispetto nipponico con un
motivo ben più nefando: l’unica cosa che voleva,
in quel momento, era smettere di guardare quello sguardo iracondo e
austero che sembrava percuoterlo senza la necessità
d’alzare un singolo dito.
— Sei quello
venuto dal Giappone? — La voce imperiosa parve saettargli tra
i timpani, mentre la mente ripeteva la parola quello con lo
stesso disprezzo con cui sembrava esser stata pronunciata. —
Non lo sai che è maleducazione interrompere il pianista
mentre compone?
—
Non era certo mia intenzione —, si scusò il
copista, alzando il capo e tornando ad affrontare il volto severo del
suo interlocutore. — Ero solo curioso.
Takeda
s’ammutolì stringendosi nelle spalle, come se le
parole del ragazzo l’avessero scottato. Le pupille di
Kageyama si ridussero a due fenditure impenetrabili e furiose.
— Curioso?
Eri curioso?
— Shōyō s’irrigidì, serrando la
mandibola e attendendo la furia di ciò che avrebbe seguito
quella domanda retorica. — Si è curiosi quando si
va allo zoo a vedere degli animali in gabbia. Ti sembro per caso un
animale?
— No, non
direi.
— O forse ti
riferisci all’accezione più figurata di
curiosità, quella che gli ignoranti nutrono verso i colti o
i sapienti? Dì, è questo a cui ti riferivi?
— No.
— Shōyō serrò le labbra tremanti, a disagio.
— No, neanche questo.
Il pianista
incrociò le braccia al petto, curvando la bocca in una
smorfia pungente. — Allora dimmi, copista. Cosa intendevi con
il termine curioso?
Il ragazzo
deglutì, scoprendosi senza parole. In Giappone gli era
capitato molte volte di trovarsi di fronte a situazioni sgradevoli o
mortificanti, ma davanti a Kageyama ciò che provava era il
panico nella sua forma più acerba e soffocante,
l’impossibilità di reggere lo sguardo inquisitore
e la voglia di scappare via. Se fosse stata una persona diversa, Shōyō
gli avrebbe voltato le spalle e si sarebbe incamminato verso
l’uscita, sforzandosi di dimenticare quanto gli era stato
detto.
Eppure, non lo fece.
Rimase a fissare il pianista, la cui arcata sopraccigliare
s’era via via fatta più bassa e corrucciata. Erano
tante le cose che avrebbe voluto dirgli, ma non era mai stato
granché bravo a mettere ordine nella sua stanza, figurarsi
tra i suoi pensieri: l’oceano s’appropriava degli
occhi del pianista, ma faceva altrettanto con la mente di Shōyō,
ch’era sì vasta da non poterla solcare tutta con
una sola risposta. Così, l’unica frase che potesse
replicare dignitosamente a quella domanda fu: — Volevo vedere
le tue dita. Tutto qui.
Lo sguardo blu si
smarrì. Un istante, forse meno. Ma in quell’attimo
perso nell’eterno, le iridi del pianista tremarono e il cuore
si strinse, corazzandosi d’astio. — Vuoi prendermi
in giro? Ti sembra divertente? — Kageyama si voltò
verso Takeda, vomitandogli addosso: — Non ti sarai azzardato
a dirglielo!
— No,
signore —, replicò agitato il maggiordomo.
— Le posso assicurare che sir Hinata non ne è a
conoscenza.
Shōyō
inclinò la testa, perplesso. — Ma di cosa state
parlando?
— Ehi, tu!
— Ancora una volta il tono altero del pianista si rivolse a
lui. — Non immischiarti in cose che non ti competono. Sei qui
solo per trascrivere degli spartiti, per cui non ti azzardare a
rivolgerti a me dandomi del tu
o pensando di poterti considerare un mio pari. — Poi,
vedendolo spiazzato, aggiunse: — Siamo intesi?
Il rosso fece un cenno
del capo, ma non osò parlare. Erano troppe le cose a cui
s’era concesso di pensare, e in un secondo s’era
ritrovato ancora una volta smarrito nel vortice di domande che non
avrebbero avuto risposta, almeno non per quel giorno. Shōyō
seguì con lo sguardo il pianista voltar loro le spalle e
congedarsi senza neppur l’avvedutezza d’un saluto.
Probabilmente era quello il modo con cui era più avvezzo a
comportarsi con i suoi sottoposti.
— Quello,
sir Hinata, era Tobio Kageyama.
—
Sì, l’avevo capito.
Takeda aggiunse, con
insolita foga: — Fa sempre così con i nuovi
arrivati, non deve preoccuparsi. È una prassi, diciamo. Un
po’ alla volta smetterà d’arrabbiarsi,
vedrà.
—
Probabilmente per quell’ora mi avrà già
licenziato —, rispose impassibile il giovane, ridendosela.
— Sembra piuttosto antipatico.
— No.
— La voce del maggiordomo tradì un filo di
tristezza. — Le posso assicurare che non è sempre
stato così.
Shōyō tornò
serio, soffermando lo sguardo nocciola sulla ruga che solcava la fronte
dell’uomo accanto a sé. Non era un osservatore
eccezionale, tuttavia il copista comprese subito che il legame che
univa quel giovane maggiordomo al suo padrone non fosse un mero vincolo
professionale, quanto affettivo. Per certi versi, quello sguardo scuro
mangiato dagli spessi occhiali gli faceva pena.
— Ho capito,
signor Takeda —, disse infine, sospirando. —
Cercherò di farmelo andare a genio.
L’uomo
sbarrò gli occhi, sorpreso.
Non era mai accaduto
prima che qualcuno si fosse mostrato così indifferente verso
il disprezzo del pianista.
♪
Erano ottantotto.
Ottantotto cavalli
bianchi e neri che battevano gli zoccoli contro il legno dei
martelletti, facendone vibrare le corde. Da quel nitrire sfumato
parevano prender vita storie che non si potevano raccontare a voce,
melodie dal fascino travolgente che sarebbero state in grado di carpire
l’anima di chiunque vi prestasse l’orecchio.
Shōyō,
ch’era pur sempre umano e quindi, per diretta conseguenza,
vulnerabile al sottile magnetismo della bellezza, pativa gli effetti di
quell’ipnosi nascosta tra le dita di Kageyama, che appariva
allo sguardo come un incantatore ch’avesse in pugno il
più feroce dei basilischi: il copista ne rimase intontito,
vittima del bell’inganno; continuava a guardare le pallide
dita del pianista, chiedendosi se avessero il dono d’animar
di suoni persino ciò che non fosse uno strumento e, perso in
un limbo di pensieri ben lontano da ciò che avrebbe dovuto
fare in quel momento, s’accorse che la musica s’era
d’un tratto arrestata.
— Che stai
facendo? — si sentì domandare, sorprendendosi di
come la voce di Kageyama apparisse grave. — Perché
hai la testa fra le nuvole?
Lo sguardo blu
s’inasprì e, con esso, il suo proprietario;
costui, rigidamente ossessivo verso la copiatura degli spartiti, non
comprendeva le ragioni che avevano spinto il ragazzo ad interrompere il
certosino lavoro di trascrittura e, sdegnato, si ritrovò ad
afferrare il foglio che Shōyō stringeva tra le mani, accartocciandolo.
— Ehi!
— Il copista allungò un braccio nella vana
speranza di riottenere lo spartito, ma Kageyama lo cestinò
con un lancio rigido e nervoso.
— Sei
così bravo da concederti il lusso di vagheggiare?
— La voce dispotica del pianista si tinse di
un’astiosa vena sarcastica. — Vuoi che ti prepari
del thè, magari?
Shōyō non rispose
subito. Forse perché cercava di trovare una risposta
accettabile o, più realisticamente, perché non
era un soggetto capace d’includere a sé il
concetto di sottile ironia. Se ne rimase lì, a fissare lo
sguardo blu, e in un istante gli sopraggiunse alla mente una domanda
che sarebbe stato più saggio non pronunciare: —
Come fa uno che suona una musica così bella, avere uno
sguardo così cattivo?
Avrebbe potuto
rispondergli in molti modi, Kageyama. Avrebbe potuto dirgli
ch’egli, con quegli occhi, c’era nato e cresciuto,
vedendo sempre le stesse cose, gli stessi volti. Avrebbe potuto dirgli
che non sapeva far altro, con la vista, se non scrutare il mondo,
concependone i difetti. Perché era così che
funzionava con la musica: una nota stonata rovinava la sinfonia, ne
comprometteva la sua natura perfetta. Per uno che non aveva fatto altro
che vivere su ottantotto tasti, ciò che il copista aveva
chiesto risultava di difficile comprensione, perché
rasentava un concetto illogicamente astratto.
Gli occhi si
soffermarono un istante sul volto perplesso del ragazzo; non sembrava
intimorito dalla sua scenata, quanto piuttosto curioso di sapere cosa
gli avrebbe risposto. Era un soggetto parecchio stravagante, con la
zazzera scompigliata e le lentiggini che gli pitturavano la faccia,
conferendogli un colorito rosato che gli ricordava similmente il volto
paffuto dei neonati. Ma la cosa che più lo confondeva era la
sua totale mancanza di formalità: Shōyō era estraneo
all’etichetta e alle convenzioni dell’alta
borghesia, ma invece di trovarsi a disagio sembrava passare gran parte
del suo tempo ad osservare. Forse il copista faceva proprio questo, studiava. E, per la
prima volta, il pianista s’accorse di cosa volesse dire
essere libero.
Libero di andarsene,
libero di tornare, libero di viaggiare.
Per Shōyō la vita era
un’eterna giostra sulla quale correre: salire su una
carrozza, provare il dorso di un cavallo, pilotare un aereo. Le
emozioni che sentiva non finivano mai perché, nel tragitto
tra un’attrazione e l’altra, Shōyō viveva. E forse vi
sarebbero stati momenti in cui sarebbe caduto e si sarebbe sbucciato un
ginocchio, ma a lui tutto questo non sembrava affatto importare,
giacché gli sarebbe bastato mettere un po’
d’acqua sopra la ferita e soffiare, proprio come avrebbe
fatto un bambino.
Kageyama,
così alieno dall’ingenuità che gli era
stata sottratta da fanciullo, lo invidiava. Era strano,
perché nella vita non gli era mai mancato nulla, eppure nel
vedere gli occhi limpidi del ragazzo di fronte a sé si
ritrovò a pensare.
Anche
io. Anche io avrei voluto salire su quella giostra.
— Tu sei
solo un ragazzino stupido e senza talento. — Era
ciò che gli rispose, seppur non vi avesse prestato
attenzione. — Ti sei ritrovato per caso a fare il copista
perché pensavi fosse un lavoro semplice? Per questo te ne
stai tutto il giorno con la testa fra le nuvole, pensi di essere
così talentuoso da permetterti il lusso di distrarti? Hai
mai pensato, almeno una volta, che tu non fossi così
brillante come credi? — Avrebbe dovuto aspettare una
risposta, ma non lo fece, ch’era troppo furioso per arrestare
la colata di rabbia che gli spremeva i polmoni. — La
verità è che tu sei un moccioso viziato che non
è neanche in grado di reggere una penna se qualcuno non gli
spiega come si fa. Immagino che i tuoi genitori si siano accontentati
di ciò che avevano e hanno fatto il possibile per fare in
modo che potessi riuscire almeno in qualcosa.
Il copista
abbassò lo sguardo, mentre Kageyama cercava invano di
riprendere fiato. Non gli era mai capitato d’urlare in quel
modo. Neppure quando s’era trattato di licenziare i suoi
trascrittori, mai. S’era sempre limitato a dir loro che non
aveva più bisogno dei loro servizi.
Ma con quel ragazzo di
fronte a sé era diverso. Perché Shōyō lo
indisponeva col suo volto rilassato e felice, così
schifosamente allegro da spingerlo a chiedersi ogni volta cosa diavolo
avesse da sorridere. E più tentava di sminuirlo,
più lui appariva determinato a dimostrargli il contrario. Ma
la risposta che seguì poco dopo, il pianista non se la
sarebbe proprio aspettata.
— Penso che,
dopotutto, sarebbero stati felici di aiutarmi —, rise Shōyō. Rise. — A
mia madre piaceva molto la musica. Mio padre forse avrebbe fatto un
po’ di storie, ma sono convinto che anche lui alla fine
avrebbe accettato l’idea di vedermi fare il conservatorio.
Anche se non è mai riuscito a vedere un musical o una
sonata. Diceva che era roba per femminucce.
Vi fu silenzio, nella
grande stanza del pianoforte. Kageyama, che s’era sempre
vantato della sua singolare capacità di mostrarsi estraneo
agli accidenti del mondo, si ritrovò con la bocca socchiusa
e il fiato che riusciva a malapena ad entrare da quella stretta
fenditura. Gli occhi fissavano il volto del copista,
nell’attesa di veder comparire sul suo viso una smorfia
addolorata o delle lacrime. Ma Shōyō sorrise, mostrando i denti bianchi
e gli zigomi paffuti che gl’incorniciavano lo sguardo
luminoso.
Forse Kageyama aveva
solo compreso male. Forse non era affatto come aveva inteso.
— Perché parli di loro al passato?
—
Perché sono morti.
Il pianista
spalancò lentamente lo sguardo. Era diverso da come
l’aveva immaginato: egli, che aveva sempre avuto tutto, non
comprendeva bene cosa significasse la morte nella sua accezione
più concreta. Certo, se n’era fatto
un’idea, ma non credeva potesse esser concepita come qualcosa
di bello.
Allora
perché…
Alzò la
voce, mostrandosi più sconvolto di quel che avrebbe dovuto:
— E allora perché diavolo stai sorridendo, idiota?
Che c’è, li odiavi così tanto?
Questa volta fu Shōyō
ad apparire sorpreso, ma Kageyama non se ne spiegava affatto la
ragione. Poi lo vide sorridere ancora, e forse solo Iddio
poté capire quanto il pianista avesse voglia di sbatterlo
contro un muro e prenderlo a schiaffi. Dopotutto, solo un folle poteva
comportarsi in quel modo. O un giullare di corte.
— No. Io li
amavo. — Il sorriso del ragazzo si fece più tiepido e
i suoi occhi tremarono per un istante, luccicando come fiammelle.
— E non si può mai piangere quando pensi a
qualcuno che hai amato così tanto.
Il pianista
s’ammutolì e più non rispose.
Forse il pazzo, tra i
due, non era Shōyō.
NOTE:
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