I
tre giorni che li separano dalla data del matrimonio sono frenetici.
Appena arrivata a Huim la ragazza aveva temuto che le ore sarebbero
scorse lente, quasi interminabili nell’attesa che il giorno
delle
nozze arrivasse, permettendo a lei e a Seth di iniziare una nuova
vita lontano dalla casa comune.
La
realtà si rivela ben diversa. La mattina del primo giorno,
Nisha
viene a bussare di buon’ora, chiamandola a gran voce. Quando
Annabel rotola giù dal letto e apre la porta, quasi si
scontra con
la donna, che l’attende con il pugno alzato, in procinto di
bussare
di nuovo, e l’aria combattiva. Alle sue spalle Kalika si sta
strofinando gli occhi, i capelli neri raccolti in una treccia
approssimativa e un’espressione decisamente
assonnata.
“Forza!”
sbotta Nisha, senza nemmeno prendersi il disturbo di salutarla.
“Basta dormire, che dobbiamo iniziare con i preparativi per
il
matrimonio!”
Annabel
boccheggia, indecisa se mandarla al diavolo o se ubbidire come un
bambino che riceve un ordine dalla maestra. Basta uno sguardo degli
occhi infuocati della vecchietta per farla però desistere da
ogni
intento bellicoso, e Annabel incontra sconsolata lo sguardo di
Kalika, che scuote appena il capo.
Non
è il caso di protestare, dunque. La giovane azzarda soltanto
un’occhiata in direzione di Seth, che la sta osservando con
aria
confusa da sotto le coperte. “Il mio
fidanzato…”
Nisha
la zittisce con un cenno imperioso della mano. “Ai giovanotti
ci
penserà Mada. Voi due venite con me.”
Pettinandosi
come può i capelli con le dita, Annabel segue la donna al
piano
inferiore, con Kalika che le sta silenziosamente alle calcagna.
Mentre scendono le scale di legno registra distrattamente che la
giovane mora si muove senza fare il minimo rumore, quasi i suoi piedi
non si posassero sui gradini di legno, ma li sfiorassero
appena.
Nisha
le guida attraverso la stanza nella quale si sono radunati il giorno
prima e le conduce in un locale piccolo, quasi interamente occupato
da un tavolino quadrato. “Sedute” ordina loro,
indicando con un
dito gli sgabelli posti attorno a esso.
Le
due ragazze obbediscono e la donna le lascia sole, uscendo con passi
frettolosi dalla stanza. Appena la porta si richiude alle sue spalle,
Kalika si sporge verso l’altra giovane. “Secondo te
cos’è
questa storia?” le chiede in un sussurro. È la
prima volta che le
rivolge la parola e Annabel nota che ha una voce sottile e un accento
che ammorbidisce le consonanti.
Ad
Annabel non piace parlare con gli estranei, quindi si limita a
scrollare le spalle e a mormorare un non
so
volto
a scoraggiare ogni altro approccio. Non che Kalika le sia antipatica:
è solo che preferisce starsene sulle sue e non perdersi in
discorsi
inutili che non servono a nulla se non a far passare un po’
il
tempo. Nisha tornerà presto e loro scopriranno
perché sono state
portate in quella stanzetta. A che serve fare congetture?
E,
in effetti, la vecchietta ritorna una manciata di minuti più
tardi,
reggendo tra le mani un vassoio di legno su cui sono posate due tazze
piene di un liquido denso e ambrato, due fette di torta e alcune
zollette di zucchero. “La colazione” annuncia
posando il vassoio
sul tavolo.
Annabel
prende una delle due tazze e se la porta al naso, annusandone il
contenuto. “Cos’è?” chiede,
rivolta a Nisha.
“Latte
con estratto di cicoria” replica la vecchia, e la ragazza
posa
immediatamente la tazza sul tavolo, trattenendo a stento una smorfia
di disgusto.
Nisha
nota però il suo gesto e spinge nuovamente la tazza verso di
lei.
“Bevi!” le ordina. “Qui non si spreca il
cibo.”
Annabel
la fulmina con lo sguardo. Non è abituata a sprecare il
cibo, lei:
sa che è prezioso, sa che anche il più misero
filone di pane ha un
costo e sa che il denaro è difficile da guadagnare. A Yuba,
un’ora
in fabbrica le fruttava quindici denari, un filone di pane abbastanza
grande per sfamare lei e Seth per un paio di giorni ne costava otto:
più di mezz’ora passata ad avvitare viti talmente
piccole che a
fine giornata gli occhi le bruciavano. Questo non significa
però che
sia disposta a mangiare qualsiasi cosa le venga messa sotto il naso.
Sta
per replicare quando Kalika lascia cadere una zolletta di zucchero
nell’altra tazza e poi ne sorseggia prudentemente il
contenuto.
“Non è male” dice poi, cercando i suoi
occhi.
Annabel
esala lentamente dal naso, poi prende tre
zollette
di zucchero - le piacciono i dolci - e le fa scivolare nel latte,
sollevando dei piccoli schizzi di liquido ambrato. Malgrado
l’idea
di bere quella roba le dia il voltastomaco, riconosce che è
troppo
presto per intraprendere una battaglia sulle piccolezze.
Tutto
sommato, la bevanda è meno terribile di quanto si
aspettasse. Dolce
- ma è colpa dello zucchero - e con un retrogusto amaro che
ricorda
vagamente quello del caffè. Ha bevuto di peggio.
Mentre
le due ragazze sbocconcellano la torta che è stata loro
offerta,
Nisha spiega quale siano i preparativi per il matrimonio su cui si
devono concentrare:
è tradizione
che durante la cerimonia nuziale gli sposi si scambino dei piccoli
gioielli fatti a mano. Un ciondolo, un bracciale, degli orecchini.
La
vecchia porta loro tutto il necessario - corda, spago, perline e
ganci metallici - e le due giovani si mettono al lavoro. Kalika si
affanna per creare un ciondolo appena dignitoso, ma Annabel trova che
l’impegno non sia gravoso. Ha una buona manualità
e il compito la
diverte. Con dita abili, la ragazza assembla un braccialetto di cuoio
e perline rosso corallo. Forse è una cosa sentimentale, ma
il colore
le ricorda i boccioli di giglio che Seth le ha regalato il giorno del
loro primo appuntamento e le sembra giusto restituirgli il dono il
giorno del loro matrimonio.
Annabel
non si ferma spesso a riflettere sui sentimenti, ma le sembra che ci
sia una strana poesia in quel gesto e quella notte permette a Seth di
fare l’amore con lei, anche se la stanza di Kabir e Kalika
è
separata dalla loro da una parete sottile e lei non può fare
a meno
di pensare che, se non stanno attenti, gli altri due ragazzi
potrebbero sentirli. Ma non è importante, alla fine dei
conti: lei
vuole bene al suo fidanzato e non ha ragione di vergognarsi di nessun
aspetto dell’amore che li lega.
Il
secondo giorno le due giovani lo passano in compagnia di Shiera. I
suoi modi sono più delicati di quelli di Nisha, la sua voce
è più
sottile e meno rauca, eppure ad Annabel quella donna non
piace.
Si
scopre a guardarla con sospetto, incapace di concentrarsi su
ciò che
la vecchietta sta cercando di insegnarle. Poiché in quel
posto si
vive di pesce e Annabel non sa come si faccia a pulire una trota o a
cucinare un’anguilla, Shiera le mostra come incidere il
ventre del
pesce utilizzando un grosso paio di forbici dalla punta acuminata. La
ragazza è però distratta: ha notato che i sorrisi
incoraggianti che
la vecchia le rivolge non raggiungono mai i suoi occhi, e la cosa la
turba. La punta della forbice sfugge al suo controllo e Annabel si
punge un dito: una ferita piccola, ma profonda, dalla quale zampilla
un fiotto di sangue scarlatto. La giovane lo guarda scivolare sul
ventre pallido e immobile del pesce, allargandosi su di esso fino a
scivolare all’interno dello squarcio che lei stessa ha inciso
nella
sua carne. Quella commistione di vita e morte, di sangue umano e
sangue animale tocca qualcosa nelle profondità del suo animo
e
Annabel sente che un presagio le serra la gola.
D’istinto,
la ragazza lascia cadere il pesce sul tavolo, resistendo a stento
alla tentazione di scagliarlo lontano da sé.
“Non
è niente” le dice Shiera, avvicinandosi a lei con
un rotolo di
garza. “Basterà fasciarlo, poi potrai tornare a
lavorare.”
Annabel
lascia che la donna le medichi la ferita, ma si rifiuta di riprendere
in mano la trota. “Mi fa schifo” dichiara,
scegliendo di non
parlare della strana sensazione che l’ha assalita quando ha
visto
il suo sangue scivolare nel corpo morto del pesce. Sa che è
solo
suggestione, un’ombra nata dallo stress e dai molti
cambiamenti che
stanno avendo luogo nella sua vita: non vale la pena spenderci troppi
pensieri, ma, decide Annabel, il pesce lo può preparare
Seth. A lei
nemmeno piace cucinare.
Shiera
non è della stessa idea. “Devi imparare”
le dice con una ruga
profonda che si disegna tra i suoi occhi sbiaditi e già
pesantemente
segnati dall’età. “Come farai a dare da
mangiare a tuo marito,
se non sei capace di pulire il pesce?”
Lei
scrolla le spalle con noncuranza. “A Seth non dispiace
cucinare.
Può pensarci lui: io mi occuperò del
resto.”
La
vecchia la osserva per una manciata di secondi e poi scuote il capo,
ma non insiste, concentrandosi invece su Kalika, che sta
giudiziosamente seguendo le sue istruzioni.
Il
resto della mattinata va meglio: le due ragazze sono già in
grado di
cucire e rammendare, anche se Kalika, che a Yuba era una sarta,
è
ancora una volta più abile di Annabel. Annabel ha un buon
occhio
sulle erbe e una buona memoria che le consente di imparare i nomi
delle piante officinali, entrambe sanno fare di conto e non sono
inclini a sprecare la moneta e nessuna delle due è dotata di
una
vanità eccessiva, anche se Kalika tiene molto ai suoi lunghi
capelli
neri.
Shiera
pare soddisfatta, ma l’umore di Annabel è rovinato
e quando, nel
pomeriggio, Mada le prende in carico e mostra loro quelli che saranno
i loro abiti da sposa, la ragazza non riesce a emozionarsi alla vista
della veste azzurra che la donna le posa tra le mani. È
graziosa,
confezionata con più cura di quanto si sarebbe aspettata e
impreziosita da dei ricami floreali, ma ogni volta che chiude gli
occhi Annabel rivede la pelle del pesce e il sangue che la ricopre.
Quella
sera ne parla con Seth, sperando che la presenza del ragazzo la aiuti
a placare la sua mente agitata. E un po’ funziona,
perché Seth la
rincuora, dicendole che deve solo riposarsi un pochino.
“Quella
vecchia non piace nemmeno a me” le confessa avvolgendola nel
lenzuolo e poi stringendosela al petto. “Sembra tutta carina
e
gentile, ma scommetto che sotto sotto è una
strega.”
Con
le labbra del ragazzo sulla fronte e le sue mani sulla schiena,
Annabel sente che la tensione le abbandona le membra, ma una piccola
parte di essa rimane aggrappata alla sua mente.
C’è un pericolo,
lì da qualche parte: non è ancora in grado di
identificarlo, ma sa
che c’è. Il che forse non è un male:
almeno adesso sa che deve
tenere alta la guardia.
Il
terzo giorno Annabel teme di incontrare di nuovo Shiera e i suoi
occhi pallidi, ma Nisha - è sempre lei che viene a bussare
alla sua
porta di mattina - scuote la testa davanti alla sua domanda diretta.
“No”, le dice, “oggi non tedierete me e
le mie sorelle: tu e
l’altra signorina passerete del tempo in compagnia di Romed,
che vi
educherà sulle regole del villaggio. Vedete di impararle
bene e di
non diventare degli animali
notturni.”
La
giovane aggrotta la fronte, senza riuscire a trattenersi. “Animali
notturni?
Cosa
vorrebbe dire?”
Nisha
sbuffa, apparentemente irritata dalla sua ignoranza.
“È solo un
modo di dire” spiega comunque. “Vuol
dire… ‘vivere
come animali notturni’
vuol
dire essere dei criminali, della gente che è incapace di
vivere
all’interno della società e che deve quindi essere
allontanata da
essa.”
“Ah…”
Annabel annuisce, ricordando ciò che Seth le aveva spiegato
qualche
giorno prima. “Il mio fidanzato mi ha accennato qualcosa a
proposito del fatto che chi fa qualcosa di sbagliato viene
praticamente cacciato dal villaggio.”
La
vecchietta le pizzica un braccio con le dita ossute, facendola
trasalire. “Non basta fare
qualcosa di sbagliato
per
venire mandati via dal villaggio” le dice con sdegno.
“Occorre
fare qualcosa di molto, molto sbagliato, tipo ammazzare
qualcuno.”
Annabel
si strofina con vigore il braccio per disperdere il dolore e fulmina
la donna con gli occhi. “Io non ho nessuna intenzione di
ammazzare
qualcuno” sibila, prima di aggiungere: “Credo.”
“Non
fare la spiritosa, ragazza” la rimbecca Nisha. “Non
è davvero il
caso.”
“E
comunque è un modo di dire stupido” continua la
giovane, incapace
di tenere a bada la propria irritazione. “Non ce li avete i
ratti o
i pipistrelli? Gli animali notturni vivono nel villaggio, quindi il
paragone è idiota.”
Gli
occhi neri di Nisha si puntano nei suoi. “Vengono nel
villaggio,
sì, ma non sono i benvenuti. Di loro non sappiamo nulla, le
loro
vite sono segrete, ignorate, e dimenticate
quando sorge il sole.”
Oh,
pensa Annabel. Damnatio
memoriae,
ricorda, riportando ancora alla mente la conversazione avuta con
Seth. L’arrivo provvidenziale di Kalika la risparmia dal
dover
rispondere e la ragazza lascia cadere la conversazione. Per diversi
minuti, però, sente su di sé gli occhi di Nisha,
che la osservano e
giudicano.
Diversamente
da quanto si sarebbe aspettata, il colloquio con Romed è
individuale
ed è Kalika a entrare per prima. Per un tempo che le pare
interminabile, Annabel siede nella stanza in cui Nisha l’ha
lasciata in compagnia di una brocca d’acqua e fissa le gocce
di
pioggia che scivolano lungo la finestra. Non l’è
mai piaciuta, la
pioggia. Odia l’umidità che le gela la pelle e le
si insinua nelle
ossa, ma ancor più odia la luce grigiastra che le preme
sugli occhi
e sulla mente, la cappa funerea delle nuvole che le pesa
sull’animo,
come per sprofondarlo nel fango.
Quando
finalmente la porta si apre, Annabel è talmente assorta nei
propri
pensieri che si accorge della presenza di Kalika solo quando la
ragazza le sfiora la spalla con i polpastrelli. “Puoi
andare” le
dice con voce gentile.
Per
una frazione di secondo è tentata di chiederle cosa deve
aspettarsi
dall’incontro con Romed, ma poi decide che è
inutile crearsi dei
preconcetti e si allontana da lei con un cenno del capo.
La
stanza in cui l’uomo l’attende è in
tutto e per tutto simile a
quella in cui ha passato i due giorni precedenti. Solo
l’arredamento
è diverso: il tavolo qui è piccolo e basso e non
ci sono sedie, ma
due divani in legno massiccio ricoperti da cuscini foderati da una
stoffa ruvida.
Romed
è seduto su uno di essi e ad Annabel non serve che si alzi
in piedi
per notare che è eccezionalmente alto: le sue gambe sono
talmente
lunghe che, per non urtare il tavolino posto di fronte a lui,
l’uomo
deve tenerle piegate di lato.
Distrattamente
Annabel pensa che da giovane deve essere stato piuttosto attraente.
Ancora adesso le sue spalle sono larghe e dritte, il suo viso ha dei
tratti decisi, ma non sgradevoli, che le rughe
dell’età rendono
ancora più incisivi. Dei baffi curati, neri e sottili,
incorniciano
le sue labbra asciutte donandogli un’aria da condottiero di
altri
tempi. Ha degli strani occhi scuri, allungati e sprofondati nelle
orbite, e i capelli, pettinati all’indietro e fissati sul
cranio
con qualche tipo di olio, devono essere stati neri, un tempo: ora
sono di un grigio scuro sulle punte e argentei alla radice.
Quando
la vede comparire sulla soglia, l’uomo le sorride - Annabel
nota i
canini appuntiti - e le fa cenno di accomodarsi sul divano ancora
libero. “Annabel, giusto?” le dice a mo’
di saluto.
Lei
annuisce. “Annabel Jensen.” Ci tiene a specificare
il proprio
cognome, anche se non è collegato a nessuna famiglia reale:
è solo
un nome assegnatole in maniera casuale dall’addetto della
Previdenza Sociale che per primo ha preso in mano la sua pratica, ma
la ragazza ci è affezionata. È parte di lei e
della sua storia,
così come quel nome, Annabel,
con il quale è stata battezzata in onore della vecchietta
che l’ha
trovata accanto a un cassonetto della spazzatura, mezza morta di
freddo e con ancora il cordone ombelicale attaccato, e l’ha
portata
in ospedale. La sua salvatrice è una donna senza
identità e senza
volto, ma non c’è giorno che la ragazza non le
rivolga un pensiero
grato - anche se è probabile che sia ormai morta da tempo.
“Jensen”
ripete Romed, annuendo come se quel cognome avesse un qualche
significato particolare. “Dovrei spiegarti come funzionano le
cose
qui al villaggio, ma sospetto che il tuo fidanzato ti abbia
già
detto tutto. Non è così?”
La
giovane annuisce. “Sì: Seth mi ha riferito quello
che gli è stato
spiegato il giorno in cui siamo arrivati qui.”
L’uomo
pare approvare. “Benissimo: non amo ripetermi o perdere
tempo.”
Il
suo volto mantiene un’espressione gentile, ma le sue parole
sono
secche e Annabel aggrotta la fronte, incerta su come interpretare lo
stato d’animo del suo interlocutore.
Romed
pare accorgersi della sua confusione e i suoi occhi studiano i
lineamenti di lei. Dopo qualche secondo, l’uomo si sporge
leggermente verso la ragazza. “Quindi dimmi solo una cosa,
Annabel:
hai intenzione di causare problemi?”
La
giovane si sente avvampare. “Io… no,
signore” sbotta dopo
qualche istante, offesa da quell’insinuazione.
“Perché dovrei
causare problemi?”
“Non
lo so” replica l’uomo. “Però
sei giovane e vieni da un posto
molto diverso da questo. Ci si aspetta che tu segua delle regole e
delle convenzioni sociali che ti sono estranee e personalmente non mi
stupirei se dovessi sentire un certo desiderio di ribellione.”
La
ragazza affonda gli incisivi nel labbro inferiore, incerta su come
replicare a quell’osservazione. Romed non ha modo di saperlo,
ma in
passato lei ha effettivamente avuto qualche problema a sottostare
alle regole che le venivano imposte. Ma era giovane e idealista:
adesso le cose sono cambiate. Adesso è cresciuta e ha la
testa sulle
spalle: sa di non avere un carattere facile, ma ha imparato a
controllarlo e a tenere a bada i propri scatti d’ira e
insofferenza.
“Il
mio unico desiderio è quello di vivere in pace”
dice allora. “So
che è probabile che ci saranno delle cose che non mi
piaceranno, ma
so anche che sarò capace di accettarle e di conviverci. Ho
imparato
da tempo a scendere a compromessi con la realtà,
signore.”
Romed
la osserva in silenzio per qualche istante, poi annuisce. “Mi
fa
piacere sentirtelo dire” dice in quello che ad Annabel pare
un tono
sincero. “Non sei una che accetta passivamente le cose, non
è
così?”
Annabel
è presa in contropiede da quella osservazione.
“Non saprei,
signore” replica incerta. In tutta sincerità non
è certa di
conoscere la risposta a quella domanda.
“Mh.”
L’uomo inclina la testa di lato e per qualche istante i suoi
occhi
indugiano sull’angioma sul volto della ragazza.
“Una volta
anch’io mi sono ritrovato in una situazione simile alla tua,
sai?”
La
giovane incontra i suoi occhi. “Sì?”
Lui
annuisce. “Anch’io vengo da un altro pianeta. Sono
stato
costretto a lasciarlo quasi vent’anni fa e non è
stato facile
ricominciare una nuova vita in questo posto; anche perché io
non
avevo il conforto di una moglie con cui condividere le
difficoltà.”
“Oh.”
Come d’abitudine, Annabel limita al minimo le proprie
risposte.
Sarebbe quasi tentata di chiedergli se non ha mai preso moglie, ma la
cosa non le interessa davvero.
“A
differenza tua, io sono venuto qui di mia spontanea volontà
e non
perché non avevo altre alternative”,
continua l’uomo, “ma ho dovuto affrontare comunque
molte
difficoltà. Le cose non sono sempre andate come avrei voluto
che
andassero, ma con il tempo ho imparato che dagli imprevisti non
vengono per forza solo cose brutte. Se sei abbastanza intelligente,
puoi imparare a sfruttarli a tuo favore. Tu sei intelligente,
Annabel?”
È
uno strano discorso e la ragazza desidera sottrarvisi, ma non
può
certo infilare la porta e scappare nella camera che divide con Seth.
“Non lo so, signore. Non particolarmente, credo.”
La
risposta sembra divertire il suo interlocutore. “Io invece
credo di
sì” la contraddice. “Sono certo che
saprai ottenere il massimo
dalle cose che troverai qui. Magari sulle prime non ti piaceranno, ma
poi capirai come trarne vantaggio.”
Annabel
contrae nervosamente le mani. Romed la sta lodando, in un certo
senso, eppure ha l’impressione che l’uomo stia
cercando di
metterla in guardia nei confronti di qualcosa. Ci saranno
difficoltà
lungo la sua strada? È
probabile,
si risponde, ma c’è da aspettarselo, tutto
considerato. E allora
da dove nasce quel senso di disagio che le striscia nel petto? Di
nuovo, la sua mente le ripropone l’immagine del sangue che si
espande sul ventre della trota. Basta!
Si
impone, scuotendo leggermente la testa per allontanare quei pensieri.
“Va
tutto bene?” le chiede Romed, forse confuso da suo silenzio.
Annabel
incontra i suoi occhi. “Sì, signore. Non sono
certa di capire cosa
intende, ma immagino che dovrò prendere le cose come vengono
e
affrontare una difficoltà alla volta, non è
così?”
“Esattamente”
conferma lui. Quando la giovane non aggiunge altro, si reclina
nuovamente sullo schienale del divano. “Hai domande? Qualcosa
in
particolare che desideri chiedermi?”
La
ragazza ci riflette per qualche istante, poi scuote il capo.
“No,
signore.” Forse sarebbe meglio approfittare di
quell’occasione
per chiarire ogni possibile dubbio o perplessità, ma la sua
mente è
stranamente vuota. Grazie a quello che ha appreso negli ultimi
giorni, Annabel sa cosa aspettarsi dalla sua vita futura, almeno a
grandi linee: affronterà i punti poco chiari man mano che
emergeranno, come è sua abitudine fare.
Un
angolo della bocca di Romed si solleva in un sorriso storto.
“La
tua amica aveva un sacco di domande” commenta.
Annabel
si stringe nelle spalle. “Io invece no.” E
Kalika non è mia amica,
aggiunge silenziosamente.
L’uomo
annuisce e poi si alza in piedi. “Meglio così,
allora. Suppongo
che puoi andare: ci vedremo domani, in occasione del tuo
matrimonio.”
Anche
Annabel si alza dal divano, sollevata dal fatto che
quell’incontro
sia giunto al termine. “A domani, signore.”
La
ragazza fa per girarsi, quando l’uomo socchiude la bocca come
per
aggiungere altro. Annabel si interrompe a metà movimento e
corruga
la fronte, invitandolo a continuare. Lui però richiude la
bocca e
scrolla il capo: qualsiasi cosa stesse per dire, ha rinunciato a
pronunciarla.
Romed
le passa accanto ed esce dalla stanza prima di lei. Quando la porta
gli si richiude alle spalle, Annabel la fissa per qualche istante,
incapace di scacciare il sospetto che quelle parole soffocate fossero
importanti..
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