Finn accarezza la condensa di un bicchiere di coca-cola ghiacciato e
ne segue il bordo rotondo con il polpastrello. Lentamente. In
silenzio. Intorno a loro, gli addobbi natalizi colorano festosi il
piccolo bar londinese, ma gli occhi di Finn rimangono fissi in
quelli di Poe, le labbra serrate in un’espressione che l’uomo non
riesce a decifrare – e tanto basta per fargli capire quanto la
situazione sia grave. Finn è un libro aperto, è un’enciclopedia di
emozioni traboccanti; ora, invece, Poe lo guarda e trova pagine
bianche, e sente che sta per avere un attacco di cuore, e vorrebbe
solo che Finn mettesse fine alla sua miseria una volta per tutte.
Eppure, quando accade, quello che dice serve solo a farlo sentire
peggio:
«L’hai infranta.» Sintetico e lapidario. E se qualche mese fa Rey
non gli avesse spiegato che la campana del Big Ben tace dal 2017 [1],
Poe sarebbe stato pronto a giurare di averla appena sentita rintoccare la
sua condanna.
Prende fiato, anche se ha solo due parole da pronunciare: «Lo so.»
«Avevamo una regola Poe, tu eri quello che ci teneva di più e
l’hai infranta. Ai danni di Rey!»
«Lo so. È per questo che sono corso da te: devi aiutarmi!»
«Certo, aiutarti a decidere il legno per la tua bara e quali fiori
ordinare per il tuo funerale.»
«Non quel tipo di aiuto. Quello per evitare che io muoia.»
«E diventare tuo complice? Non lo so, amico, a me piace vivere.»
Finn scuote il capo e si stringe nella giacca di pelle – quella
stessa giacca di pelle che Poe gli ha regalato quando sono diventati
coinquilini, quando hanno sigillato la loro amicizia, quando ancora
credeva che, qualsiasi cosa fosse accaduto, Finn gli avrebbe coperto
le spalle.
Traditore.
E ok, forse, in questo caso, chiedergli di parargli il culo è
davvero troppo, oltre che ingiusto – stanno pur sempre parlando
della sua ragazza, ma anche a Poe piace vivere. Sul serio. Tanto.
Tira indietro le spalle e le scrolla, cercando di togliersi di dosso
la tensione accumulata negli ultimi giorni. Vorrebbe avere il potere
di afferrarsi e scrollarsi finché non gli cadrà la testa (no, finché
non gli cadrà qualcosa di molto più in basso!) perché sul serio,
Poe? Possibile non sappia tenerti l’uccello nei pantaloni per
più di quarant’otto ore?
Si incurva sul tavolo, poggiando la fronte al bordo; non ha toccato
una goccia della birra che ha ordinato.
Sospira abbattuto. «Ok, alternative?»
Anche Finn sospira. «Messico?»
«Alternative che non prevedano il mio espatrio?»
«Devi dirglielo.» l’inevitabile risposta di Finn.
Poe ruota il capo, spinge con la tempia contro il bordo e sente il
sangue fermarsi in quel punto preciso, dove la vena si chiude e, per
un attimo, ogni attività cerebrale rimane sospesa.
«Oppure potrei fare finta di niente e dimenticarmi della sua
esistenza.» non si permette di pensare quando lo dice, ma anche così
sente sulla lingua il peso di ogni parola, che gli lascia sul palato
un retrogusto amaro. Sa di perdita e non gli piace.
Sul volto di Finn torna ogni espressione: i suoi occhi sono neri
pozzi d’incertezza. Picchietta una mano sulla testa di Poe, ad
assicurarsi che sia ancora lì con lui, tutto intero – cuore e
cervello compresi. Ma entrambi mancano all’appello: Poe ha
disattivato l’uno e regalato l’altro e ora non ha idea di come fare
per riprenderselo.
Vorrebbe non essere costretto a farlo.
Potrebbe.
Infrangere le regole, dopotutto, è un dono che possiede fin da
piccolo, quando ancor prima di camminare ha imparato a correre su
pista, seduto sulle ginocchia di sua madre, con un casco troppo
largo sulla testa e mani troppo piccole al volante. Solo lui, sua
madre e un’auto da Formula Uno, alla conquista del mondo.
Ma questa è diversa.
Esiste un’unica regola non scritta tra amici:
Mai – mai! – provarci con l’ex del tuo migliore amico.
E per Poe, che ha avuto troppe storie finite male, è la regola più
importante.
Lo era.
Prima di conoscere Ben Solo.
Allora non si era ancora perso tra le venature nocciola del suo
sguardo profondo, alla ricerca dei suoi pensieri più intimi, delle
sue paure più nascoste. Non aveva ancora indugiato tra capelli
lunghi e corvini, che tra le dita lasciano il profumo di legno e
agrumi del suo shampoo preferito. Non aveva ancora assaporato i suoi
silenzi, direttamente dalla sua bocca, riempiendoli del suono di
gemiti umidi e baci schioccanti.
Mai provarci con l’ex del tuo migliore amico.
E lui è cascato col cuore e con l’anima proprio ai piedi dell’ex
di Rey Skywalker! Il destino non è stato abbastanza beffardo quando
ha rivelato alla ragazza fossero cugini, ci si doveva mettere anche
Poe “se fai una cazzata, falla in grande stile” Dameron.
«Credevo fosse una cosa seria tra te e… L’oscuro figuro.» Finn lo
ritrascina nel loro bar preferito, di nuovo seduto al solito
tavolino d’angolo.
Poe rialza la testa, lo guarda e sorride. «L’oscuro figuro? È il
meglio che ti sia venuto in mente?»
Finn non si lascia distrarre: «Non cambiare discorso.»
Ci ha provato.
Afferra la birra e ingolla un lungo sorso, sperando di sciogliere il
nodo che gli si è appena formato in gola.
«Gli amici vengono prima di tutto.»
Il nodo si fa più stretto.
– ♦
–
A quell’ora, Brands Hatch[2]
è un serpente nero che si srotola tra le due colline a nord di West
Kingsdown.
Poe preme sull’acceleratore – un tocco gentile, un battito dolce
della palma del piede, che fa rombare il motore contro la sua
schiena come fusa di una bestia bianco-arancio.
Guidare gli fa bene, gli schiarisce le idee, pompa adrenalina e gli
dà l’illusione di essere invincibile. Lo è, anche se soltanto sulla
pista.
Quando ruota il volante, è la curva a piegarsi al suo volere; la
imbocca a trecento chilometri all’ora e il muso dell’auto taglia il
vento come un coltello piantato nel burro. Lo sente soffiare di
lato, aprirsi per lui per lasciarlo passare, e sarebbe tutto più
facile se anche la vita fosse un infinito circuito di Formula Uno,
dove conta solo chi arriva primo al traguardo.
Invece il cellulare nella tasca squilla, riempiendo l’abitacolo
delle note imperiali[3]
di una suoneria dedicata, e quell’invisibile traguardo a cui
puntava sparisce all’istante.
«Merda… Ben…»
Preme più forte sull’acceleratore.
L’auto acquista velocità; attorno a lui tutto trema e le ruote quasi
si sollevano dall’asfalto. Fugge su una pista da corsa, una mossa
idiota che non risolve un bel niente: il cellulare è con lui
nell’auto e il circuito è circolare, tornerà sempre al punto di
partenza.
«Come la mia vita…» si sente mormorare, una volta rallentato, col
tono melodrammatico che Finn e Rey hanno battezzato col soprannome
di “afflizioni da soap opera”. Come se non ne avesse diritto – non è
che si sia svegliato dal nulla, una mattina, e abbia deciso che
aveva voglia di incasinare i suoi rapporti d’amicizia e iniziare una
relazione a distanza con l’unico uomo sulla faccia della terra che
avrebbe dovuto evitare.
È successo!
Che colpa ne ha lui se Ben ha due spalle così e… No! Meglio
non pensare a tutto il resto, l’abitacolo di un auto da corsa non è
il miglior posto per farselo venire duro… Anche se a metterlo al
tappeto, più che il corpo statuario di Ben (più del cazzo di Ben,
gli precisa una coscienza sporca e invadente) è stato il passo
militare con cui si è fatto strada in lui. Ben non possiede mezzi
termini, è la punta di una spada che affonda dritta nel
bersaglio, ignorando ogni difesa. È tutto bianco o nero per lui, con
o contro di lui: nel mezzo c’è solo il vuoto – e Poe ne è stato
irrimediabilmente risucchiato.
Ad auto ferma, reclina il capo, osservando il cielo da dietro il
visore del casco. Lo trova tappezzato di puntini dorati, ma l’aria
gelida è la promessa di una lunga nevicata.
Per un po’ non potrà entrare in pista, ma a Poe non dispiace, se non
può avere Ben per Natale, che almeno ci sia la neve.
–
♦ –
Il viaggio in taxi è un incubo.
Le strade sono bloccate dal traffico di chi torna e chi parte per le
ferie, la radio su cui si è sintonizzato il tassista continua a
saltare e ogni canzone sembra la brutta imitazione di un rapper
ubriaco, e Poe sta congelando, perché indossa ancora la tuta da
corsa e la sciarpa che Finn gli ha prestato.
A Brands Hatch ha perso la cognizione del tempo. Solo quando è
rientrato ai box si è accorto di essere in ritardo e il suo cambio è
rimasto nel borsone in cui l’ha infilato.
«Potevo aspettarvi a casa» borbotta, allungando il collo per
guardare il tachimetro che sale.
Finn gli tira una gomitata. «Abbiamo promesso che saremmo andati
entrambi a prendere Rey all’aeroporto. Dopo quello che hai fatto,
glielo devi.»
Poe geme sottovoce, ha la sensazione di essere appena stato colpito
alle spalle.
Si tira indietro, la testa china. «C’è solo un problema: Ben è un
pilota.»
«Wow, avete già così tante cose in comune…»
Si volta, lanciando un’occhiataccia a Finn.
Il ragazzo lo guarda con un sopracciglio sollevato, a dare più
enfasi a un tono già fin troppo sarcastico per i gusti di Poe.
«Ah, ah, molto divertente. Ma Ben pilota gli aerei.» precisa,
con una punta di stizza – e una, più nascosta, d’orgoglio.
Finn di tutta risposta scrolla le spalle. Potato – potato[4],
sembra dirgli, a lui la differenza importa poco e, ovviamente, non
capisce dove sia il problema.
«È partito ieri, ma mi ha scritto che sarebbe tornato a Londra oggi.
Con uno dei voli serali dall’Irlanda[5].
Lo conosci, no? Il posto in cui la tua ragazza ha finito il suo
stage.» Questa volta è la voce di Poe a grondare sarcasmo. Spera che
l’amico si renda conto della posizione in cui si trova: sapeva che
prima o poi avrebbe dovuto affrontare sia l’uno che l’altra, ma
sperava sarebbe accaduto in privato, possibilmente il più in là
possibile e, soprattutto, non in contemporanea.
Finn ridacchia. Ha avuto l’intero pomeriggio per assimilare la
notizia; è più rilassato ora e quando batte una mano sulla spalla di
Poe lo fa con un sorriso largo e divertito. «In bocca al lupo.»
Poe guarda con sospetto tra le pieghe di quel sorriso. Qualcosa che
non quadra, è sicuro che sia lì davanti al suo naso, ma ha così
tanti pensieri per la testa che il dettaglio gli sfugge e a rimanere
è solo l’augurio di Finn.
–
♦ –
Finn ride.
Per la seconda volta in una giornata, Poe rischia l’infarto.
E Finn ride!
Rey, una mano alla valigia e un braccio sollevato, lo sventola in
loro direzione.
Fin si tiene la pancia per il troppo ridere.
Accanto a Rey, stretto nell’uniforme da pilota che riuscirebbe a
rendere irresistibile perfino uno scorfano, Ben Solo avanza con
l’espressione impassibile di un generale d’armata: le spalle dritte,
il petto ampio, le gambe lunghe e… E Finn ride!
A Poe deve essersi sciolta la faccia, perché non riesce più a
sentire le guance – però ha caldo. Tanto caldo. Ed è sicuro che a
breve stramazzerà a terra, agonizzante perché non riesce più a
sentirsi il braccio sinistro. O i sintomi di un attacco di cuore
prevedono il braccio destro? Poco male, tanto quando Ben si piazza
di fronte a lui e con un gesto elegante si toglie il cappello, Poe
non sente più nulla, nemmeno le gambe.
Costretto a tenere la testa reclinata all’indietro, lo guarda a
bocca aperta, come avesse appena assistito all’ascesa di un dio.
Nessuno dei due parla, il che è strano per Poe – di solito è lui a
rompere il silenzio, ma tutto quello che aveva da dire si è perso da
qualche parte nel suo stomaco.
Con la coda dell’occhio registra il colpetto che Rey tira al fianco
di Ben (Finn, le ha preso la mano, ma anche se tiene la bocca
chiusa, la sua risata non sparisce, si fa solo singhiozzante – e la
cosa inizia a diventare imbarazzante).
Ben si schiarisce la voce, un colpo di gola che gli fa vibrare le
corde vocali.
Poe lo osserva rapito.
L’uomo si china – quasi sedici centimetri di differenza – e gli
respira in faccia, o su qualsiasi cosa gli sia rimasto.
«Quindi…» la voce di Ben è un sussurro basso e caldo, come fumo che
sale dalla cappa di un camino «Chi parla per primo? Parli tu? Parli
io?[6]»
Poe chiude la bocca all’istante. Non può averlo detto davvero!
Ma quando l’ombra di un sorriso minuscolo fa capolino sulle labbra
di Ben, non ha più dubbi: «Eravate tutti d’accordo!»
Finn libera l’ennesima risata. «Oddio, non ce la facevo più a
trattenermi!»
«Non ci hai nemmeno provato» gli fa notare Poe, ma lo sguardo torna
presto sul volto di Ben e sul sorriso che, un poco alla volta, si è
disteso su tutta la bocca dell’uomo. È sempre uno spettacolo vederlo
sorridere, è come l’alba, ci vuole tempo perché l’intera larghezza
delle labbra si modelli e il sorriso sorga, ma quando accade
è impossibile non rimanerne incantati.
La risata di Rey è contenuta. Si è avvicinata a Finn e ha
intrecciato le dita con le sue, ma rimangono entrambi accanto a Poe.
«Ben mi ha chiamata. Mi ha raccontato tutto, compreso la vostra
prima brillante conversazione.»
Ti pareva!
Poe riesce a immaginarla benissimo mentre, infilata nella cabina
pilotaggio, consiglia a Ben di usare proprio quella
conversazione contro di lui.
E pensare che ha passato un intero pomeriggio a tormentarsi e a
darsi del coglione.
«E tu lo sapevi?» chiede a Finn, che ha perfino il coraggio di
annuire.
«Rey me l’ha detto un’ora dopo che io e te ci siamo lasciati.»
«E per tutto il viaggio in taxi mi hai lasciato nella disperazione?
Che ne è delle regole? Della nostra amicizia? Della mia sanità
mentale? Cos’è successo al ragazzo impanicato di oggi pomeriggio che
mi ha consigliato di scappare in Messico?»
Finn allarga le braccia, rifugge ogni responsabilità. «Io ero
impanicato perché tu eri impanicato!»
Rey li guarda, con l’occhiata di pena della sorella maggiore che ha
a che fare con i due fratellini pestiferi. «Gliel’ho chiesto io di
non dirti niente. Manco da una settimana, mi siete mancati e volevo
esserci per il tuo nuovo episodio di Beautiful?»
Poe ha molto da ridire: «Tu te la fai con tuo cugino e sono io
la soap opera?»
«Ci siamo solo baciati. Una volta.» precisa Ben. Oh, certo,
ora si inserisce.
Rey conferma con un cenno del capo e muove la mano in un gesto
leggero, che scaccia una mosca invisibile davanti a sé. «Ed è
successo prima che scoprissi che mio padre era suo zio. Non
c’è stato assolutamente nient’altro, non ci è nemmeno piaciuto. E
per quanto riguarda le regole che hai infranto…» se prende fiato non
è per lasciare Poe sulle spine, ma per sorridergli con affetto. «Ben
ti piace, tu gli piaci. Va bene così.»
Diretta. Ovvia.
Va bene così.
Nessun dramma, nessun litigio, nessuna rottura.
Solo Rey e il suo splendido modo di essere.
E Poe si sente uno stupido per aver avuto bisogno di sentirselo
dire.
«Accidenti a voi!» Dovrebbe vendicarsi con lei e con Finn per averlo
abbandonato nel suo mondo di paranoie, ma preferisce spintonarli via
con un sorriso radioso, affinché possano finalmente scambiarsi le
effusioni che hanno trattenuto fino a quel momento – e lui possa,
ovviamente, fare lo stesso con Ben.
Quando gli si rivolge, lo trova però accigliato.
«A me non va bene così.» annuncia il comandante di volo, in
quel modo brutale che ha di dare qualsiasi notizia – bella o brutta
che sia, dentro o fuori da un aereo.
Poe butta fuori un respiro e con una mano stira le pieghe dei
pantaloni della tuta. Non è in tiro e non avrà addosso una divisa da
pilota sexy, ma anche lui è un bel figurino e se sorride, se ammicca
appena un po’, se si sistema i capelli con una passata di mano e si
passa la lingua sulle labbra, può ancora infrangere qualche cuore.
Ma a Ben importa poco della sua mise o dei suoi capelli.
A lui basta un passo per gettare la propria ombra sul corpo di Poe.
«Voglio sentirtelo dire. Amami.» il suo è un ordine. Una stilettata
al cuore. Il capriccio di un bambino a cui nessuno ha mai insegnato
a chiedere, ma che desidera con ardore, tanto da bruciare
qualsiasi cosa, perfino se steso.
Ben è bisogno, supplica, e fame d’amore.
Poe si copre la bocca con una mano e ingoia la risata e un po’ anche
l’imbarazzo di trovarsi in pieno aeroporto Londra-Heathrow, con un
palo della luce in divisa da pilota e uno stuolo di
steward
e hostess che nota soltanto ora, dietro di lui, in attesa,
come soldatini ai suoi ordini.
È tutto così surreale, che quasi si chiede se prima o poi entrerà in
scena anche Hugh Grant o se avesse fatto meglio a portarsi dei
cartelli bianchi su cui scrivere la propria risposta[7].
«La tua storia incestuosa ti ha privato di ogni tratto romantico»
Poe sta scherzando, si dimentica quanto Ben sia diverso da Finn o da
Rey o dai loro genitori. Lui non ama le battute e ha un pessimo
senso dell’umorismo. Il suo sguardo si fa fosco, stringe i pugni e
Poe segue la linea delle spalle che, al di sotto della giacca
diligentemente abbottonata, si fanno rigide e i muscoli ne tirano la
stoffa scura.
Lo vede tirarsi indietro, ma prima che il passo si compia, gli
afferra un polso e lo ritrascina vicino a sé. È quello il suo posto,
è assurdo che ancora lo dubiti.
«Hey, stavo scherzando.»
«Non mi piacciono questi scherzi.»
Poe ingoia un’altra risata. Non è il caso di sfidare la già poca
pazienza di Ben Solo.
«Allora che ne dici di: ok?»
Un angolo alla volta, il sorriso torna sulle labbra di Ben. Il suo
volto è una distesa di dolcezza e negli occhi c’è una commozione
asciutta, pulita, sincera. È quello sguardo adorante che ha fatto
innamorare Poe.
«Ok?» chiede conferma, teneramente titubante.
«A-ah. E tu ama me.»
«E sia.»
È la dichiarazione d’amore più brutta della storia delle
dichiarazioni d’amore, ma è così adatta a loro che Poe si sente il
petto esplodere di felicità. Abbandona la presa al polso di Ben, per
catturare il retro del suo collo e obbligarlo ad abbassarsi, così
che le loro bocche si facciano più vicine, solo a una sfiatata di
distanza. «Sei il miglior regalo di Natale che potessi desiderare.»
«Sei la cosa migliore della mia vita.»
Come non detto. Basta una frase e Ben si guadagna il podio per la
dichiarazione dell’anno.
«…merda, hai vinto tu.» bisbiglia Poe, anche se ha mentito: è lui a
vincere. Ha due amici speciali, un natale innevato e l’uomo che ama
si trova esattamente dove dovrebbe stare: tra le sue braccia.
Nemmeno ricorda più perché fosse tanto preoccupato.
Poco distante da loro, Finn e Rey si aggiungono all’improvviso
scrosciare degli applausi del pubblico di hostess e
steward
e passanti, ma Poe non è più nel Terminal, è in un’isola di
braccia e labbra e respiri uniti, è su una zattera che cavalca il
bacio di Ben, mentre gli abbraccia la vita e si stringono l’uno
all’altro.
Non è il loro primo bacio. È il centesimo, il millesimo, il
milionesimo, è uno di tanti altri che verranno, e come la prima
volta, nessuno dei due si trattiene – danno tutto, prendono tutto,
si combattono per l’ultima stilla d’ossigeno nella bocca e l’ultima
goccia di saliva sulla lingua. Ben lo stringe con forza, gli
schiaccia i fianchi e le costole, lo intrappola a sé e poi allenta
la presa, quasi a voler lasciare Poe libero di fuggire, se lo vorrà.
Ma Poe non fugge, si aggrappa invece ai suoi capelli – odore di
legno e di agrumi, unito ai troppi profumi del Terminal –, lo
strattona in basso e se lo tiene il più vicino possibile. «Non ti
libererai di me, comandante.» è il suo ultimo ansimo, prima
che il grido di qualcuno – Finn? – faccia sfumare i contorni della
sua isola: «Prendetevi una stanza, voi due!»
E sulle labbra di Ben, Poe ricama un sorriso.
Fanculo alle regole
[ 3.363w ] |