REALTA’ PARALLELA
*
Capitolo
6 – Cuore
*
Gabriel
Agreste, si fece largo tra la folla “Permesso, scusate, spostatevi”
continuava a ripetere e scansare le persone che gli ostruivano la visuale.
Non
aveva capito molto bene cosa fosse successo, aveva sentito delle urla e sua
moglie accasciata al suolo, inerme.
Per
quanto la stesse strattonando, invocando il suo nome, questa, non si svegliava.
Il
suo respiro era molto debole.
“Spostatevi,
lasciatela respirare” Ripeteva ai curiosi che li avevano accerchiati “…chiamate
un’ambulanza” Disse infine.
Tutti
erano increduli a ciò che stava accadendo, non poteva essere che una festa si
potesse tramutare in una tragedia.
Molti
dei presenti, soprattutto gli amici più stretti e i famigliari, erano a
conoscenza dei problemi di salute della donna, ma solo il marito e il figlio
Adrien, sapevano che ultimamente si era aggravata e che non le restava ancora
molto tempo da vivere.
L’unico
modo per salvarla, era un trapianto di cuore, ma i donatori non si comprano
dietro l’angolo, e la ricerca per trovarne uno di compatibile con il suo gruppo
sanguigno raro, si faceva sempre più estenuante.
Era
da un po' in lista d’attesa con priorità assoluta.
“Che
succede?” Chiese Adrien raggiungendo i suoi genitori al centro del salone, sbiancò
vedendo il corpo della madre esanime e suo padre che tratteneva a stento le
lacrime, non ottenne risposta.
“Andate
via tutti…subito!” Cacciò via i suoi ospiti, senza dare troppe spiegazioni, e
loro capendo la situazione, non se lo fecero ripetere due volte, anche perché
l’ambulanza era già arrivata alla villa, e dopo aver prestato le prime cure
alla donna, i sanitari caricarono sulla barella la donna, e partirono a sirene
spiegate verso l’ospedale più vicino, seguiti dalla berlina degli Agreste.
*
Passarono
ore interminabili nella sala d’attesa di quel pronto soccorso, ormai deserto.
Era
mezzanotte passata e le porte automatiche si erano chiuse, si sarebbero aperte,
solo per le emergenze, o al massimo per l’indomani alle sei.
Gabriel
si accomodò in una poltroncina di legno chiaro, scomoda, forse le avevano fatte
apposta così, perché la gente ci passasse il minor tempo possibile o fosse
restia a recarsi lì per delle cose frivole e di poco conto.
Si
tolse gli occhiali che appoggiò sulle ginocchia, mentre si massaggiava gli
occhi stanchi.
Adrien
si accomodò vicino a lui, stanco, provato e quasi in lacrime.
Non
era pronto a perdere la madre, non così giovane, chi si sarebbe preso cura di
lui? Chi lo avrebbe confortato, se ne avesse avuto bisogno?
Il
suo cellulare vibrò, un messaggio di Kagami che gli
chiedeva se aveva novità.
Da
quando era partito dietro l’ambulanza, si era completamente dimenticato di lei,
di avvisarla se ci fossero state notizie.
“Siamo
ancora in pronto soccorso” Si limitò a scrivere
“Se
hai bisogno chiama, o se hai novità, ti amo” Gli rispose al messaggio, ma
lui dopo averlo letto, spense il telefono, non voleva più sentire nessuno, solo
il medico che sarebbe uscito dalla sala emergenze.
“Era
Kagami?” Gli chiese suo padre, rivolgendogli
finalmente la parola.
Per
tutto il tempo, da quando erano arrivati, se ne era stato sempre alzato a
contemplare le porte dell’ingresso della sala rianimazione, attendendo l’arrivo
di qualche medico.
“Si”
Rispose portandosi le mani dentro il casco biondo, puntellando con i gomiti, le
ginocchia.
“Chiamo
la guardia del corpo che ti porti a casa, è stata una giornata stancante”
Gabriel prese il cellulare e fece per comporre il numero, quando venne fermato
dalla mano di Adrien “Voglio restare qui, accanto la mamma. Non riuscirei a
dormire non conoscendo le sue condizioni”.
Lo
stilista, anche se contrariato, ripose il telefono dentro la giacca, era pieno
di notifiche, alle quali non aveva ancora risposto.
Tutti
gli chiedevano se aveva notizie circa le condizioni della moglie, soprattutto i
giornalisti, che appena appreso lo scoop, si erano anche appostati al di fuori
dell’ospedale.
Sciacalli,
pensò Gabriel, non veniva lasciato in pace nemmeno in quei momenti lì.
Con
enorme sorpresa, le porte che portavano alla sala emergenza, si aprirono,
facendo uscire il primario.
La
sua espressione non preannunciava nulla di buono.
Gabriel
ed Adrien gli andarono incontro.
Un
silenzio quasi spettrale aleggiava in quella stanza, che venne spezzato dallo
stri dolio delle loro scarpe eleganti, che strusciavano contro il linoleum
azzurro.
“Come
sta, dottore?” Deglutì il marito seriamente preoccupato.
Lo
specialista incurvò le labbra e sospirò “Conoscete le condizioni di Emilie, per
il momento l’abbiamo stabilizzata, ma è ancora molto grave. Ha bisogno con
urgenza di un cuore nuovo”.
“E
allora dateglielo, per la miseria” Imprecò urlando, facendoli sobbalzare
entrambi.
“Papà”
Lo richiamò Adrien, facendogli notare che forse aveva un tantino esagerato.
“Mi
scusi” Si ricompose togliendosi gli occhiali e massaggiandosi il seno
paranasale.
“Sua
moglie è in lista d’attesa, ma sapete anche voi che ha un gruppo sanguigno raro
e trovare un donatore…”.
“Posso
darglielo io” Lo interruppe Adrien “…io ho lo stesso sangue di mia madre, non
sarà un problema per voi fare l’operazione”.
“Non
facciamo queste cose, in questa clinica” Lo rimbeccò il medico.
“Non
dire assurdità, figliolo” Gabriel gli diede man forte al dottore.
“E
quindi, cosa facciamo? Dovremo guardarla mentre muore? Io non ci sto, mi
dispiace” Adrien lasciò quella stanza, con una malsana idea.
“Lo
scusi, è molto stanco, e le precarie condizioni della madre, non aiutano”.
“Non
si preoccupi signor Agreste, non è facile accettare queste cose. Abbiamo un
ottimo team di psicologi in questa struttura, senza impegno possiamo farvi
parlare con loro, per cercare di superare la cosa”.
“Grazie,
ma prima vorrei parlarne con mio figlio, se non le dispiace”.
“Si
figuri, mi sono sentito in dovere di aiutarvi, per quanto mi sia possibile”.
Gabriel
gli sorrise forzato “Possiamo vederla?” Chiese.
“Ma
certo, mi segua” Gli indicò la strada.
“Un
attimo che vado a chiamare Adrien”.
Lo
stilista lasciò la stanza, credendo di trovare suo figlio a piagnucolare nel
corridoio, si sorprese del contrario.
Adrien
era sparito e sul volto dello stilista, si materializzò un’espressione
sconvolta, suo figlio aveva detto una frase prima, a cui aveva dato poca
importanza, ma che ora assumeva un altro contorno.
*
Aveva
percorso corridoi vuoti e bui, annusando nell’aria l’odore di medicinali.
Storse
il naso per quanto gli davano il voltastomaco, in quanto nell’ultimo periodo si
recava spesso in quella struttura per fare visita alla madre ricoverata.
Le
scale d’emergenza, erano deserte, ed avrebbe agito indisturbato, senza dare
nell’occhio, usò la pila del suo smartphone per fare luce e non rischiare di
cadere o sbattere contro qualcosa.
Arrivò
in cima le scale, all’ultimo piano senza fatica, pensò che gli allenamenti di
scherma di quegli anni, fossero serviti a qualcosa.
Tirò
la maniglia nera di quella porta arrugginita alle estremità, e ne fu sorpreso
di trovarla accessibile, probabilmente qualche inserviente l’aveva erroneamente
lasciata priva di sicurezza.
Avanzò
con passo lento verso il cornicione che non aveva nessun tipo di barriera.
Il
luogo perfetto per mettere in atto il suo piano, voleva salvare la madre, e per
farlo, avrebbe dovuto perdere lui stesso la vita.
Deglutì,
e prendendo coraggio, scalò quell’ostacolo, restando in piedi ad osservare per
l’ultima volta il suo orizzonte.
La
Tour Eiffel era bellissima, il suo contorno delineato da una miriade di luci,
spiccava in quella notte stellata, ed una bellissima luna piena si era
posizionata perfettamente sulla sua cima.
In
lontananza il rombo del motore della auto, sovrastava quello di un aereo che
gli stava passando sopra la sua testa.
“Che
vuoi fare?” Gli chiese una voce femminile conosciuta, alle sue spalle,
costringendolo a voltarsi.
“Marinette?” Chiese inarcando un sopracciglio sorpreso.
“Non
ho sentito la tua risposa”
“Tu
che ci fai qui?” Domandò mentre anche lei si apprestava a salire su quel
cornicione accanto a lui.
“Salti
tu, salto io” Fece spallucce.
“No,
non ti permetterò di seguirmi. Io devo salvare mia madre, e tu che scusa hai?”
“Salvo
te”.
“Vattene!”
Le disse riluttante.
“Non
funziona così”. Gli disse sorridendo “Troppo facile”.
“Lasciami
stare” Adrien si sporse un po' di più, poteva vedere la fine di quel baratro,
un prato dal terreno puntellato da luci a led, dietro l’edificio, dove i degenti,
quelli che riuscivano, potevano tranquillamente passeggiare.
Notò
un po' più distante un pioppo con una panchina che apparve ai suoi occhi,
scura, la stessa panchina dove di solito lui e sua madre rimanevano ore a
parlare.
“Non
dovresti farlo” Le disse Marinette.
“E’
l’unico modo che ho per salvarla”. Spiegò stringendo i pugni lungo i fianchi.
“Non
spetta a te questa cosa, lascia fare ai medici”.
Adrien
si voltò verso di lei con sguardo terrificante e gonfiò la voce “Non possono
fare più niente per lei, sono degli incapaci”.
Marinette gli mise una mano
sulla spalla, e si accorse che grosse lacrime gli stavano rigando il volto.
“Non
è colpa tua, se non riescono a salvarla, e non sta a te farlo”.
“Non
posso lasciare che muoia”.
“Non
puoi morire tu, per lei.”
“Si
che posso” Insistette avanzando di un altro passo.
“Ok,
mettiamo caso che tu riesca nel tuo intento. Secondo te, come si potrebbe
sentire tua madre sapendo che è viva grazie ad un gesto così sconsiderato”.
Adrien
rinsavì per un breve attimo, aveva ragione, Marinette.
Emilie
sarebbe vissuta sapendo che suo figlio, è morto per dare la vita a colei che
gliel’ha donata.
“Cosa
dovrei fare?” La guardò dritta negli occhi.
Marinette scese dal
cornicione e gli tese la mano “Per prima cosa, venire qua” Adrien toccò con le
dita affusolate il palmo della sua mano e obbedì a quella richiesta.
“Seconda
cosa: stai vicino a tua madre”.
“Grazie,
Marinette” Le sorrise, poi sentì dei rumori provenire
in direzione della porta da cui era entrato, si voltò per vedere cosa stesse
succedendo.
*
Adrien
era appena sceso dal cornicione, quando suo padre ansimante, seguito dal
dottore, spalancarono la porta di ferro, ritrovandosi in quel terrazzo,
composto principalmente da condotti d’aerazione, ed antenne televisive.
“Grazie
al cielo, ti abbiamo cercato dappertutto” Disse tenendosi il petto.
“Ero
uscito per prendere una boccata d’aria” Rispose spicciolo facendo spallucce
guardandosi attorno.
Marinette era sparita.
Lo
stilista si avvicinò con fare amorevole al figlio e gli mise le mani sulle sue
spalle “Ho temuto il peggio, mi hanno fatto paura le tue parole di prima”.
Adrien
gli sorrise, avrebbe voluto tanto dirgli che aveva ragione, che aveva pensato a
buttarsi di sotto per salvare una persona che amava, un gesto che probabilmente
sua madre non gli avrebbe mai perdonato, come gli aveva appena detto Marinette, oppure era stata la sua coscienza a parlare?
“Non
vado da nessuna parte, papà…e poi chi baderebbe a te?” Gli domandò scherzando.
“Forza,
rientriamo, andiamo da tua madre”.
Adrien
si guardò ancora attorno, in cerca nell’oscurità della figura di Marinette, che non trovò.
*
continua