I
Dal primo
all’ultimo istante
I
Knock my chest,
emptiness
Sound of death
and loneliness
All these walls,
crush my head […]
I’m disappearing
now
My body’s falling
down
And I’m alone
[Melancholia –
Alone]
La vestaglia bianca in cotone – unico bagliore su cui la
fioca luce della luna si posava – le accarezzava i polpacci con leggerezza,
oscillava al ritmo dei suoi passi silenziosi. I piedi scalzi sfioravano appena
il pavimento in marmo, talmente gelido da scottare la pelle, mentre lei si guardava
attorno con occhi sgranati, fissi nell’oscurità che inghiottiva il corridoio
dall’alto soffitto.
Una ragazzina, un’ombra fatta di luce, uno spettro che si
spostava furtivo e agile nella notte.
Li sentiva, li inseguiva, vi sfuggiva: sospiri.
Voci smorzate e lamentose, che a volte si tramutavano in sussurri e sembravano
chiamare il suo nome.
Skye.
Skye.
Skye.
Quella notte – come tutte le notti – l’avevano svegliata
e attirata a loro, l’avevano richiesta e rivendicata con quella loro inesorabile
delicatezza. Per un attimo aveva confuso quei sospiri col vento, che sibilava
forte oltre la finestra e fischiava tra le imposte cigolanti, ma ben presto
aveva capito che si trattava di loro. Erano venuti a cercarla.
Il vento soffiava forte e Skye affrettò il passo,
inseguendo quei sospiri che la portavano sempre più lontana della sua camera.
Strisciavano sui muri e lei si lasciava scivolare nelle tenebre con loro, in
una muta e aggraziata danza di cui solo lei era a conoscenza.
Ma Skye non aveva paura. Loro non le volevano fare del
male: le venivano a far visita, le sfioravano la pelle e le orecchie, volevano
un po’ di compagnia. E ogni tanto, tra tutto quel sibilare e frusciare, Skye
aveva riconosciuto la voce di Timmy.
Solo qualche volta l’avevano spaventata.
Giunse davanti alla rampa di scale che conduceva al piano
di sotto. Una folata di vento scosse il vecchio monastero e una brezza gelida
le si insinuò tra i capelli scarmigliati.
“Skye.”
Si immobilizzò e sbarrò gli occhi, il cuore le batteva a
mille. Strinse forte tra le dita il tessuto sottile della veste.
“Skye.”
Era così vicina, quella voce. Ed era così familiare.
Ostile, accusatoria, arrabbiata; così vicina, a un millimetro da lei.
Tenne gli occhi sgranati nel buio davanti a sé, che scorreva
giù per le scale e la voleva risucchiare. Non ebbe il coraggio di voltarsi,
nonostante sapesse che alle sue spalle non avrebbe trovato altro che ombra;
nessuno di loro si faceva mai vedere, si limitavano ad accarezzarla e
sussurrare alla sua anima.
“Skye. Devi badare a tuo fratello.”
Serrò la mascella e gli occhi le si riempirono di
lacrime, come quando era piccola.
“Devi badare a Timmy.”
“No, no, no…” Stritolò il cotone tra i polpastrelli,
serrò le palpebre.
“Perché non sei stata attenta a Timmy?”
“No!” Un nuovo rivolo di gelo le accarezzò la nuca,
facendola tremare.
“Skye, devi badare a Timmy.”
“Non è colpa mia, non è colpa mia!” strillò, la sua voce
intrisa d’isteria rimbalzò per le pareti del corridoio, mischiandosi ai
sospiri.
Fece un passo avanti e il suo piede scalzo trovò il
vuoto.
Un grido le squarciò la gola ma, mentre si preparava a
precipitare giù per i gradini, un tocco invisibile la sostenne per un braccio.
Una risatina di cristallo si sparse nell’aria.
“Timmy…”
Si voltò, ma accanto a lei non scorse nessuno.
♦♦♦
Quando varcò per la prima volta l’enorme cancello in
ferro battuto, pioveva. L’imponente e sinistra struttura, un ex monastero,
pareva ancora più minacciosa mentre si stagliava contro il cielo grigio
d’autunno.
Nel bel mezzo della campagna inglese – si ritrovò a pensare
Skye mentre faceva il suo ingresso nell’ampio androne – in realtà sembrava
autunno tutto l’anno. Non sapeva effettivamente in quale mese dell’anno si
trovassero, in ospedale aveva perso il conto dei giorni e delle stagioni.
L’aveva accolta una vecchina sciupata e dai capelli dello
stesso grigio di quella giornata uggiosa, che l’aveva squadrata da capo a piedi
con i suoi occhietti vigili e le aveva ordinato di pulirsi le scarpe, che le
brave bambine non lasciano le impronte fangose sul pavimento.
“Sono la signora Havelock, fondatrice e responsabile di
quest’orfanotrofio” si presentò, la freddezza nella voce e un velo di
stanchezza sul viso rugoso.
Skye rimase immobile e in silenzio a fissarla. Non era
mai stata una bambina particolarmente esuberante, non sapeva bene cosa fare in
questi casi – e, a dire il vero, nell’ultimo periodo non aveva molta voglia di
parlare.
La signora Havelock la scrutò a sua volta per qualche
istante, severa. “Beh? Non ti hanno insegnato che, quando qualcuno si presenta
a te, dovresti fare lo stesso?”
Skye serrò le labbra e sgranò maggiormente gli occhi,
intimorita da quella donna.
La signora Havelock sospirò, poi si accostò a lei, le
afferrò una manina ghiacciata e la strattonò con indelicatezza, prima fuori
dall’androne e poi su una rampa di scale. “Mi avevano detto che sarebbe stato
un caso difficile, ma addirittura una bambina che soffre di mutismo… sarà la
solitudine. Lo dico sempre, io: un uomo senza famiglia è il più solo al
mondo!” diceva tra sé e sé, e la sua voce arrochita dagli anni rimbombava
tra le pareti fredde e spoglie degli anditi.
Skye non rispose, ma durante il tragitto si guardò
attorno quasi con curiosità, nella speranza di scorgere qualche altro bambino.
Ma i corridoi erano deserti e le porte davanti a cui
passarono sigillate.
Una volta giunti davanti alla soglia in fondo al
corridoio del primo piano, la signora Havelock mollò bruscamente la presa sulla
sua mano per abbassare la maniglia. “Questa è la tua stanza, Skye. Sistemati
qui. E tieni d’occhio l’orologio: alle sei devi essere puntuale in sala da
pranzo, al piano di sotto, per il pasto serale” spiegò in tono piatto e la lasciò
sola nella stanza.
Skye rimase immobile per qualche istante, ad ascoltare i
passi lenti della donna oltre la porta e il ticchettio della pioggia che
bussava alla finestra, poi si accostò al letto e vi si sedette sopra
timidamente, come se non fosse suo.
Posò il borsone in tessuto sdrucito – tutto ciò che le
era rimasto – accanto a lei, sulle coperte candide, si strinse le ginocchia al
petto e vi posò sopra il mento, lasciando che il suo sguardo venisse catturato
dalla fiamma che scoppiettava nel grande camino.
Aveva solo sette anni, ma certe cose del mondo le sapeva,
le aveva sentite dire.
Per esempio, era a conoscenza della fama
dell’orfanotrofio della signora Havelock: lì ci finivano tutti i bambini senza
speranza, quelli che nessuno voleva adottare, quelli che avevano visto la fame,
le disgrazie e le follie della vita, e che di fanciullesco non avevano più
niente.
A lei non importava poi tanto di dove l’avrebbero portata
e dove avrebbe abitato; soltanto una piccola parte di lei era ancora aggrappata
al mondo, solo con le unghie di una mano graffiava quella vita che le aveva
voluto male.
Con l’altra mano, invece, sfiorava le dita di Timmy, il
fratello che le voleva così tanto bene da volerla trascinare con sé, colui che
non l’aveva mai realmente abbandonata.
Perché un legame come il loro, nemmeno la morte avrebbe
potuto spezzarlo.
Mentre la luce dorata delle fiamme danzava sul suo viso,
Skye poté quasi percepire una presenza rassicurante al suo fianco; capì che lui
era lì, e non se ne sarebbe mai andato.
♦♦♦
“Che bello, il mare! Andiamo al mare!”
Skye e Timmy non avevano fatto che esultare per tutta la
mattina, dal momento in cui avevano aperto gli occhi a un nuovo soleggiato
giorno che sapeva di nuove avventure.
Il loro papà, il signor Whistler, aveva portato a casa
proprio due giorni una nuova e scintillante automobile, la prima mai posseduta
dalla famiglia Whistler; era stato un grande sacrificio per lui, che le
automobili erano un lusso riservato ai più abbienti, ma quando l’aveva
annunciato alla moglie e i figli aveva in fondo alle iridi un orgoglio e un
entusiasmo in grado di spazzare via ogni ripensamento.
“Non appena la ritirerò, vi porterò al mare” affermò,
guardando dritto negli occhi prima Timmy e poi Skye – due paia identiche di
occhioni scuri e grandi, identici come lo erano i loro proprietari.
E così quella mattina, dopo essersi svegliati alla stessa
ora del sole, i due vivaci gemelli si erano infilati sui sedili posteriori
troppo stretti, bramosi come non mai di intrecciare lo sguardo alla distesa
azzurra che avevano visto solo sulle cartoline.
“Mamma?” Timmy si dimenava, preda dell’entusiasmo, e si
sporgeva per sfiorare il braccio della donna che sedeva accanto al marito, di
fianco al posto di guida.
“Dimmi.”
“Quanto manca per arrivare al mare?”
“Non lo so, Timmy. Ma se stai seduto e buono, sicuramente
il tempo passerà più in fretta” ribatté la signora Whistler, voltandosi di un
poco per lanciare un’occhiata ammonitrice al figlioletto. Era una donna ancora
giovane e straripante della stessa vitalità e determinazione di quando era
ragazza, ma diventare madre le aveva dipinto il viso di dolcezza.
“Papà, tu lo sai quanto ci vuole?” proseguì il bimbo,
sporgendosi ancora di più in avanti.
“Non lo so nemmeno io.”
“Timmy! Non lo devi distrarre mentre guida!” sbottò Skye
preoccupata. Aveva passato tutto il tempo a fissare il paesaggio fuori dal
finestrino – forse già in cerca del mare – ma tutta quella confusione l’aveva
riportata alla realtà.
“Skye, tesoro, devi badare a tuo fratello, che è
un diavoletto e finirà per farci cappottare” disse la signora Whistler con una
leggera risata nella voce.
Skye allora posò una mano sulla spalla del gemello e lo
strattonò leggermente a sé, costringendolo quasi a sedersi composto. “Stai
buono, Timmy. Se continui ad agitarti così, il sedile si staccherà dalla
macchina e rimarremo in mezzo alla strada!” si inventò, giusto per tenerlo
buono.
Timmy le sorrise sornione e piegò appena il capo di lato.
“Macché, io non ci credo! È impossibile!”
Skye lo scrutò con attenzione, era quasi come guardarsi
allo specchio: la pelle diafana, i capelli corvini e arruffati, gli occhi scuri
mai sazi di vedere cose nuove, le guance arrotondate, il nasino sottile.
E a Timmy bastò ricambiare lo sguardo per calmarsi un
po’. Erano gemelli, loro: sapevano parlare con gli occhi, sapevano capirsi in
un battito di ciglia e leggersi nella mente. Erano indissolubilmente legati,
parlavano un linguaggio primordiale che solo loro conoscevano.
E l’eccitazione di andare al mare per la prima volta, che
Skye vedeva brillare negli occhi del fratello, apparteneva a entrambi.
Ogni singolo istante delle loro vite apparteneva a
entrambi. Dal primo all’ultimo.
Skye gli strinse di più la spalla e lo attirò ancora a
sé.
Un grido squarciò l’aria.
Il mondo cominciò a oscillare e sfocarsi fuori dai
finestrini.
“Timmy!” strillò la signora Whistler, tra i fischi dei
freni impazziti.
Il cuore di Skye batteva a mille, più forte degli sbalzi,
più forte degli scossoni. Aveva preso a stritolare Timmy in una stretta intrisa
di terrore, e lui aveva preso a strillare al suo orecchio.
“Skye, tesoro…” li raggiunse nuovamente la voce della
madre.
Devi badare a tuo fratello.
Skye piangeva forte mentre tutto il suo mondo si
sgretolava e le lasciava lividi e graffi sulla pelle giovane.
In mezzo a quel finimondo, i suoi genitori non riusciva
più a vederli né a sentirli, ma continuava a tenere tra le braccia quell’altra
metà di lei, quel gemello che era sempre stato più vivace e più ingenuo di lei,
quel coccio della sua anima che si aggrappava con disperazione al suo
vestitino.
Devi badare a tuo fratello.
Uno scoppio più forte degli altri, e Timmy venne sbalzato
via, lontano da lei. Skye lo sentì gridare, ma non poté fare altro che serrare
gli occhi e portarsi le braccia sopra la testa per proteggersi.
Devi badare a tuo fratello.
La voce di Timmy non si sentiva più.
E nemmeno quella di mamma e di papà.
Devi proteggere tuo fratello.
Skye, stai attenta a Timmy.
L’incubo durò ancora per alcuni istanti, o forse furono
anni.
E quando Skye si guardò attorno, realizzò che l’incubo in
realtà era cominciato proprio in quel momento.
Mamma se n’era andata.
Papà se n’era andato.
Anche Timmy se n’era andato.
E Skye? Era ancora viva, ma anche lei se n’era andata.
♦♦♦
Non parlava mai con nessuno.
Pareva che nulla e nessuno fosse in grado di destare la
sua attenzione: passava giornate intere a fissare il cielo fuori dalla finestra
e non rivolgeva mai la parola agli altri bambini.
Né la signora Havelock né la maestra Kingsley, incaricata
di insegnare a leggere e scrivere a quei poveri orfanelli, riuscivano a
scalfire quella corazza di silenzio e solitudine che avvolgeva Skye – non le
importava nemmeno di memorizzare le lettere del suo nome.
Qualche volta sembrava rianimarsi all’improvviso,
sgranava gli enormi occhi scuri e piegava appena il capo di lato, in ascolto di
qualcosa che nessun altro poteva udire.
“Skye è strana” si vociferava in giro, tra le stanze dei
bambini e attorno al tavolo in sala da pranzo.
“Lasciatela perdere: ha vissuto qualcosa di terribile”
spiegava in tono lugubre la signora Havelock, accomodata su una seggiola in
legno accanto al camino e intenta a rammendare o lavorare a maglia. Erano
quelle le sue attività preferite mentre teneva d’occhio i bambini durante le
ore di gioco.
“Signora Havelock, Skye è malata?” si arrischiava
a domandare qualcuno, accovacciandosi sul tappeto soffice ai piedi della
vecchina.
“È malata di solitudine” ribatteva sempre lei, una
leggera nota di malinconia nella voce. E non aggiungeva altro.
Quel giorno Skye se ne stava accucciata su una poltrona
in un angolo della stanza, il corpicino esile sepolto tra i cuscini vaporosi e
un libro aperto sulle ginocchia – osservava le immagini, perché non avrebbe
potuto leggerlo.
Annette la scrutava con curiosità, gli occhi celesti
pieni di speranza. Era una di quelle bambine grintose e audaci che, nonostante
tutte le brutture della vita, non si sarebbe arresa mai.
Dopo qualche lungo istante di silenzio, riempito solo
dallo scrocchiare del fuoco nel camino, la bimba dai capelli biondi si avvicinò
a Skye con passo leggero e le sfiorò appena un braccio, con l’intento di
attirare la sua attenzione.
Lei sobbalzò appena e sollevò lo sguardo.
“Ciao” la salutò Annette, un sorriso amichevole sulle
labbra rosate.
“Ciao.”
“Che libro stai leggendo?”
Skye sollevò il volume dalle ginocchia e le mostrò la copertina.
Nemmeno lei sapeva quale fosse il titolo.
Annette annuì. “È bello?”
“Sì.” Lo disse giusto per dire, non perché fosse vero.
L’altra bimba la scrutò ancora, sporgendosi appena verso
di lei. “Ti piace leggere?”
Skye non rispose; prese a giocare col margine di una
pagina, creando una piccola orecchia all’angolo.
“Come mai non vieni mai a giocare con noi?”
“Non mi piacciono i giochi che fate voi.”
Annette s’imbronciò e chinò appena il capo. “Allora io
voglio fare quello che piace a te, così possiamo diventare amiche. Non puoi
mica stare sempre sola!”
“Ma io non sono sola” obiettò Skye con fermezza e una
punta di emozione nella voce, il viso illuminato da una luce tutta particolare
che per un attimo la fece sembrare di nuovo bambina.
Annette sgranò gli occhi, confusa.
“Ci sono loro che mi fanno compagnia.”
La bionda si portò una mano sulle labbra. “Chi sono loro?”
Skye si sporse verso di lei, complice, e accennò un
sorriso. “Li sento ogni notte, sospirano e mi chiamano, vengono a cercarmi. Non
sono cattivi, sono miei amici, loro non mi lasciano mai sola.”
Il suo sguardo si fece più affilato, animato da una luce
che tuttavia lo rendeva torbido. “Tu non li senti, i sospiri e i sussurri?”
bisbigliò.
E il cuore di Annette perse un battito.
♦♦♦
La sottile pioggia d’autunno tamburellava piano sul vetro
della finestra, come una delicata ninna nanna di carezze.
Quando Skye spalancò gli occhi nell’oscurità, la prima
cosa che le venne istintiva fu affinare le orecchie per percepire i sussurri
attorno a lei.
Ma quella volta la ragazzina udì un unico leggero
sospiro, proveniente dal fondo buio della stanza. Era un bisbiglio sottile e
privo di suono, ma a Skye parve comunque di riconoscerlo.
Si mise in piedi, pronta anche quella volta a seguire
quel sibilo leggero e vedere dove l’avrebbe condotta. Era diventato un gioco
strano e curioso, giostrato delle tenebre e dalle sensazioni che quelle
presenze invisibili le iniettavano.
Il cuore le batteva a mille mentre muoveva qualche passo
verso il centro della stanza. Ormai nel camino non erano rimaste che flebili
braci, che non riuscivano a rischiarare le tenebre di quella notte senza luna.
Skye si guardò attorno, ma poté mettere a fuoco solo sagome indefinite.
Sentì un tocco leggero sul braccio e una risata cristallina
le scivolò sulla guancia, fino a solleticarle l’orecchio.
Il suo cuore perse un battito quando avvertì lo spirito
lasciare la stanza; come ipnotizzata, uscì in corridoio e lo inseguì, facendosi
guidare da quel suono così piacevole che a volte era sospiro e a volte era
risata. E, a dispetto della pelle candida che rabbrividiva contro l’aria
frizzante, la sua mente rievocò pomeriggi estivi di giochi spensierati e quiete
sere trascorse davanti al focolare.
Era come rincorrere il suo passato.
Skye si immobilizzò, i piedi nudi incollati al pavimento,
quando vide baluginare una luce opalescente davanti a sé. Durò un battito di
ciglia, ma ebbe il tempo di riconoscere un viso dai lineamenti vaghi e sfocati.
Poi tutto terminò con una risatina infantile che si
sparse tra le pareti spoglie.
La ragazzina si portò una mano davanti alle labbra, il
respiro mozzato dall’emozione.
Un’altra carezza invisibile le arruffò i capelli, poi una
figura esile cominciò a definirsi al suo fianco.
Una figura piccola, bianca, col visino spruzzato
d’innocenza e un sorriso birichino sulle labbra.
Una figura che Skye aveva sempre percepito accanto, ma
che solo allora aveva modo di vedere per davvero.
E, quando incrociò i suoi occhioni grandi e scuri, per
lei fu come guardarsi di nuovo allo specchio dopo tanti anni.
“Timmy” sussurrò piano, quasi timorosa che il suo fiato
lo facesse scappare o dissolvere. Non si mosse di un millimetro, anche se aveva
il cuore in tumulto e la smania di abbracciare il bimbo che aveva di fronte.
“Sì Skye, sono io. Sono sempre stato qui” ribatté lui,
con quella sua vocina così dolce da far salire le lacrime agli occhi.
Timmy piegò appena la testa di lato e osservò la gemella
con occhi vivaci e impertinenti.
Era proprio come Skye lo ricordava: un bimbo di sei anni
– ed erano ancora gemelli, lo sentivano nell’anima, anche se lei era cresciuta
e ora di anni ne aveva nove – con i capelli scuri sempre in disordine.
Indossava anche gli stessi vestiti dell’ultima volta: dei calzoncini grigi
sdruciti e una maglietta azzurro cielo.
“Timmy, io non ti volevo lasciare solo” mormorò Skye,
trattenendo un singhiozzo.
Lui le sorrise innocente. “Ma tu non mi hai mai lasciato
solo. E non ho mai lasciato sola te. Siamo gemelli, e i gemelli sono legati per
sempre; non si dividono mai, mai.”
“Dici davvero?”
“Ma certo!” Timmy rise e le ruotò attorno, camminando a
piccoli saltelli. Poi le si piazzò nuovamente di fronte. “Sciocchina! E poi
sono io, quello un po’ tonto tra i due!”
Skye avrebbe voluto trovare le parole e i gesti adatti
per esprimere quanto fosse contenta di riavere il suo gemello con sé, quanto si
sentisse completa.
Non si sentiva più sola.
Ora si sentiva di nuovo viva.
Ma non trovò il coraggio di far niente, incantata da quel
bimbo avvolto da un alone di luce che lo rendeva ancora più bello e magico.
“Skye?”
“Dimmi.”
“Giochiamo! Come facevamo sempre!” Detto ciò, lo
spiritello fatto di luce le sfiorò una mano e poi corse via lungo il corridoio,
ridendo con genuino divertimento.
Skye sgranò gli occhi e si portò d’istinto le dita
davanti al viso. Quelle stesse dita che avevano sfiorato la mano di Timmy – e
lei l’aveva sentito davvero quel contatto, erano stati pelle contro pelle, e
quella era la cosa più vera che avesse vissuto in tre anni.
Si erano toccati. E lei si era sentita così viva ed
elettrizzata!
Contagiata dall’euforia del momento e calamitata da una
forza attrattiva che non sapeva – non voleva – controllare, si lasciò sfuggire
una risatina a sua volta e cominciò a correre, inseguendo il fratellino che era
scomparso chissà dove, magari aveva svoltato l’angolo o aveva preso le scale. Continuava
a sentire le sue risate e la sua voce in una marea di eco e rimbombi, avvertiva
la sua presenza più forte che mai. Lo voleva scovare, acchiappare e stringere
tra le braccia, come facevano sempre quando giocavano a rincorrersi, e non
voleva lasciarlo mai più andare.
Lo avrebbe protetto e tenuto con sé, come aveva promesso.
La sua metà, l’unico con cui avrebbe condiviso ogni istante – dal primo
all’ultimo.
Fu costretta a fermarsi, e le risa le morirono in gola,
quando una delle porte che si affacciavano sul corridoio si schiuse lentamente,
cigolando e lamentandosi per la vecchiaia. Quel suono stridente le ferì le
orecchie e Skye si portò istintivamente le mani a coprirle.
Lo sguardo le si appannò di confusione quando mise a
fuoco nella penombra la sagoma ricurva e avvizzita della signora Havelock; la
vecchia, complice la fioca luce del camino proveniente dall’interno della sua stanza,
l’aveva riconosciuta e ora le rivolgeva uno sguardo torvo e minaccioso.
Skye serrò le labbra, come la prima volta che l’aveva
incontrata.
“Signorina Skye Whistler, si può sapere cosa stai facendo
a quest’ora fuori dalla tua stanza? Devo forse ricordarti che è vietato?”
cantilenò aspramente, le rughe sulla pelle visibili pure nella penombra per via
dell’espressione corrucciata.
La bambina si guardò attorno, in cerca di un appiglio. La
risata di Timmy risuonava ancora fioca nell’aria, ma la poteva sentire solo
lei; per un istante le parve anche di vedere la sua figura luminosa ed
evanescente strisciare lungo una parete.
Sbatté un paio di volte le palpebre e tornò a guardare la
signora Havelock.
“Allora? Sto aspettando una risposta” incalzò.
“Io… io stavo giocando con mio fratello.”
La proprietaria dell’orfanotrofio rimase interdetta,
scrutò ancora quell’esserino fragile che sembrava sempre sul punto di
spezzarsi, ma che quella volta le aveva risposto con una determinazione e una
candidezza disarmanti.
“Stavi giocando con il tuo gemello?”
Skye annuì. “Sì.”
Il suo gemello era morto da tre anni.
|