Streets
of shame
A Londra
l’umidità della sera non lasciava mai
tregua, mai – ormai ci avevo
fatto l’abitudine e quasi non me ne curavo
più.
Brividi leggeri mi correvano
lungo le braccia e le
gambe mentre, col corpo fasciato da abiti scuri e troppo sottili,
avanzavo a
passo spedito lungo il marciapiede. Conoscevo ormai piuttosto bene
il
quartiere di Soho; ogni volta che mi ci ero recata, avevo lanciato uno
sguardo
agli strip club dalle facciate colorate e alla manciata di ragazze che
sostavano ai margini della via, in attesa, strette nelle loro minigonne
che
mettevano in risalto gambe troppo magre. Donnacce agli occhi di tutti
–
coraggiose ai miei, che avevo sempre desiderato imitarle senza mai
trovarne il
coraggio.
Espirai piano – la
boccata di fumo che mi riempiva
i polmoni si schiantò contro l’aria frizzante
della sera – e mi fermai, guardandomi
attorno con circospezione. Forse sarei dovuta essere
intimorita dalla
quiete sporca che mi circondava e dalla penombra rischiarata appena da
lampioni
fatiscenti; invece, per la prima volta da quando mi ero trasferita in
quella
grigia e ostile metropoli, mi sentii a casa, nuovamente nel mio habitat
naturale.
Gettai a terra il mozzicone e
ispezionai
l’ambiente attorno a me: risate frivole e nervose,
imprecazioni colorite
pronunciate a denti stretti o gridate ai quattro venti, bottiglie
infrante e
sigarette consunte abbandonate a terra; mi pareva di essere tornata
nella mia
Los Angeles, nel quartiere degradato in cui ero cresciuta.
“Hai da accendere?”
Istintivamente feci un passo
indietro e mi
irrigidii, presa alla sprovvista, e lanciai un’occhiata
diffidente alla ragazza
che mi stava accanto: capelli neri e fluenti, pelle olivastra, labbra
carnose
perfettamente adornate da un rossetto glitterato, fisico slanciato ma
dalle
forme generose e dolci.
Le porsi il mio accendino, in
silenzio, e la
osservai accostarlo a una stecca di tabacco con movimenti frenetici.
“Mio
dio, che moria oggi, non si ferma nessuno”
commentò mentre prendeva una boccata
di fumo, poi si voltò a scrutarmi. “Non ti avevo mai visto da
queste
parti prima d’ora; sei qui per lavorare?”
domandò dopo qualche istante,
restituendomi l’accendino.
“Ovvio” ribattei in
tono sicuro, e realizzai forse
per la prima volta in che razza di situazione stavo andando a cacciarmi.
Potevo fare davvero qualsiasi
cosa della mia vita:
avevo avuto la possibilità di andar via dal luogo maledetto
in cui ero
cresciuta, stavo per diplomarmi in una scuola dignitosa, non mi
mancavano né i
soldi né le capacità; eppure avevo scelto ancora
una volta la strada, avevo
deciso di buttarmi tra le braccia di una marea di sconosciuti per il
solo gusto
di sentirmi importante – perché avrei avuto su di
me tutta l’attenzione dei
miei clienti, sarei stata il centro del loro mondo, anche se solo per
un’ora o
poco meno.
“Queenie, piacere”
prese nuovamente la parola la
ragazza accanto a me, rivolgendomi un lieve sorriso – mesto,
amaro, come il suo
sguardo apatico e come probabilmente era la sua intera vita.
Ricambiai il sorriso con la sua
stessa
macchinosità e biascicai il mio nome, mentre mi domandavo
cos’avesse portato
una ragazza bella come lei su quel marciapiede –
chissà, magari prima o poi
gliel’avrei chiesto, ma non quel giorno. Sicuramente, di qualsiasi cosa
si trattasse, doveva fare molto male; in fondo tutte le ragazze che si
radunavano in quella via al calar della sera erano creature distrutte e
prese a
pugni dalla vita, che per un motivo o per un altro dovevano lottare
contro i
loro demoni.
Tornai a scrutare la strada
davanti a me, lungo la
quale le auto sfrecciavano senza fare troppo caso a noi; solo qualcuno
si
arrischiava a rallentare quando ci vedeva, ma nessuno si era ancora
fermato –
forse erano troppo timorosi di avere a che fare con degli scarti della
società
come noi.
Un paio di minuti
più tardi una macchina scura –
forse una Ford, ma non ne ero sicura, non ero certo
un’esperta di automobili –
accostò al marciapiede proprio davanti a me e Queenie;
l’uomo che stava al
volante abbassò il finestrino e ci lanciò
un’occhiata eloquente.
“Vai tu, Bess; io sto ancora
fumando” sussurrò
Queenie al mio orecchio, facendo una leggera pressione sul mio braccio
per
spingermi avanti.
Zittii la voce del mio buon
senso che gridava
nella mia testa nel tentativo di dissuadermi, tentai di placare la
tempesta di
nervosismo e aspettative che mi faceva martellare il cuore e mi
incamminai
verso l’auto con passo sicuro e sguardo sfrontato –
pronta a darmi per il solo
gusto di farlo, pronta a tuffarmi a capofitto nell’ennesimo
sbaglio della mia
vita.
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♠ ♠
Ho davvero adorato scrivere questa storia e partecipare
al meraviglioso contest della Palma, che mi ha dato modo di sfidare me
stessa e
mi ha dato la spinta per tornare a scrivere originali dopo un periodo
in cui
ero bloccata su questo fronte. I miei personaggi mi erano mancati
così tanto!
E su Bess ho tantissimo da dire; chi segue la serie
Needles aveva sicuramente un sacco di interrogativi su di lei, e pian
piano sto
cercando di comporre anche il complicato puzzle della sua vita.
Sapevate che
era stata a Londra per un periodo… e questa è una
delle attività di cui si è
resa protagonista. Non so se in questa shottina sono riuscita a
chiarire i
motivi che l’hanno portata a tutto ciò, ma
sicuramente ci tornerò in futuro.
Sentirete ancora parlare di lei, questo è certo!
Lascio intanto un paio di note di spiegazione: Soho è
davvero il quartiere a luci rosse di Londra, noto per i numerosi strip
club,
sex shop e i cinema e teatri a luci rosse – oltre che per
l’industria musicale
e i rock club. Nonostante sul finire degli anni Cinquanta sia entrata
in vigore
lo Street Offences Act – la legge contro
i crimini di strada – e sia
considerevolmente aumentato il numero di club. Ho supposto che qualche
prostituta lavorasse ancora per le strade negli anni Ottanta (in cui
è
ambientata questa storia), soprattutto ai margini del quartiere. Del
resto in
quell’epoca la maggior parte dei poliziotti che effettuavano
i controlli erano
corrotti e tante delle cose che capitavano erano immerse
nell’illegalità.
Ho quindi pensato che Bess, per la sua prima e autonoma
esperienza, abbia scelto la via più semplice.
Ma non mi dilungherò oltre, non voglio annoiarvi ^^
Ho sottolineato alcune lettere per evidenziare in maniera
più palese lo svolgimento dell’esercizio che
LadyPalma richiedeva: consisteva
nello scrivere una storia composta da ventuno frasi (inteso come
periodi) le
cui iniziali seguano l’ordine alfabetico. Per
un’autrice come me, che adora i
punti fermi e che usa spesso frasi brevi per dare enfasi ai suoi testi,
è stata
una sfida difficilissima; alla fine ha vinto la mia parte
più prolissa, perché
avevo un sacco di cose da dire e in un modo o nell’altro le
dovevo esprimere!
Spero non sia venuta fuori una schifezza totale XD
Grazie a chiunque sia giunto fin qui e grazie ancora alla
giudice per questo contest così intrigante *-*
Alla prossima (e vi prometto che non lascerò trascorrere
mesi per la prossima storia di questa serie) ♥
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