~We're
still a masterpiece ~
Parigi era
magnifica proprio
come Albus Silente l'aveva sempre immaginata; l'edera che ricopriva
le facciate eleganti dei palazzi, i viali ammantati dalle foglie
gialle e rossastre dell'autunno, lo splendore dell'Arco di Trionfo e
della cattedrale di Notre Dame, i colori vivaci delle stradine di
Montmartre.
In
quel momento, fermo al
centro del ponte Saint Michel, Albus lasciava vagare lo sguardo sulle
acque della Senna e sul profilo in lontananza della Tour Eiffel, che
si stagliava verso un cielo infiammato dalle luci calde del tramonto.
Parigi
somigliava a un'opera
d'arte che prende vita al tocco delle mani di un pittore,
pensò
Albus con un sospiro nostalgico. Tornò con la mente
all'estate dei
suoi diciassette anni, all'euforia che aveva provato mentre lui ed
Elphias progettavano il loro viaggio – la prima tappa sarebbe
stata
proprio Parigi – e al baratro che gli si era spalancato
davanti
quando il suo intero mondo era crollato in pezzi.
Non
che, in seguito, lui non
avesse avuto l'occasione di viaggiare. Ma anche a distanza di anni
ricordare la spensieratezza della sua adolescenza, quei suoi sogni
ridotti in cenere dalla crudeltà del destino, continuava a
riempirlo
di un'indicibile tristezza.
“Sono
lieto di vederti,
Albus. Sapevo che non avresti deluso le mie aspettative.”
Al
suono di quella voce, Albus rimase immobile per qualche istante, le
mani poggiate sulla balaustra del ponte e gli occhi fissi sul profilo
della Tour Eiffel. Aveva atteso quel momento per mesi – forse
anni, forse decenni – e non poté fare a
meno di sentire il suo
cuore perdere un battito mentre si voltava lentamente, trovandosi
davanti il sorriso mesto di Gellert Grindelwald.
In
lui rimaneva ben poco
dell'adolescente che Albus aveva conosciuto tempo addietro. I suoi
capelli erano più corti, di un biondo sporco e ingrigito, il
viso
ricoperto da qualche ruga sottile, i lineamenti più rudi e
definiti.
Eppure i suoi occhi azzurri erano sempre gli stessi;
non
avevano perso niente della loro intensità, del loro
magnetismo.
Erano occhi che lo riportavano indietro nel tempo, a ricordi dolci
come il miele e amari come il veleno.
“Buonasera,
Gellert,”
Albus infilò le mani nelle tasche del mantello e
sollevò le labbra
in un sorriso cortese. “Anche io mi auguro che le mie
aspettative
non vengano deluse da questo incontro. Pensa, pur di venire qui ho
dovuto chiedere ben tre giorni di ferie non pagate a Dippet.”
“Vedo
che non hai perso il
tuo senso dell'umorismo. Il che non può che farmi
piacere.”
Albus
si strinse nelle
spalle, senza rispondere. Si ritrovò a chiedersi se Gellert
riuscisse a vedere oltre la sua maschera di formalità e
compostezza.
Se una parte di lui potesse cogliere il battito frenetico del suo
cuore, il modo in cui il sangue gli tremava nelle vene e le sue mani
si stavano stringendo a pugno nelle tasche del mantello.
“Non
credo sia il caso di
perdere altro tempo,” disse infine Albus, inarcando un
sopracciglio. “Perché non andiamo dritti al
punto?”
“Hai
ragione. Ma forse ci
conviene trovare un posto più confortevole di questo per
parlare. Se
vuoi, posso offrirti qualcosa da bere nel mio appartamento.”
Cosa
stai facendo, Albus? Non dovresti continuare a farti abbindolare da
lui come uno stupido ragazzino.
Albus
mise a tacere la voce
della coscienza e annuì, sollevando una mano per sistemarsi
il
cappello a bombetta sulla testa.
C'è
un motivo per cui
sei qui, lo sai bene. Stai al gioco finché puoi.
“Non
mi dispiacerebbe bere
qualcosa per riscaldarmi. Parigi è una bellissima
città ma il tempo
atmosferico in autunno non è dei migliori. Spero che tu
abbia del
Whisky Incendiario da offrirmi.”
Albus si
lasciò andare
contro lo schienale della poltroncina, avvicinò una mano al
fuoco
scoppiettante nel camino e con l'altra si portò alle labbra
il
calice di Whisky, sorseggiandolo lentamente.
Gellert
sedeva sulla
poltrona davanti alla sua, intento a sua volta a bere. Intorno a
loro, il salotto era arredato con mobili in legno d'ebano, librerie
stipate di volumi, nature morte appese ai muri rivestiti da
un'elegante carta da parati blu scuro. Per l'ennesima volta Albus si
lanciò un'occhiata intorno, soffermandosi sugli intrasi
dorati di
una scrivania di noce, prima di volgere nuovamente lo sguardo su
Gellert.
“Ti
tratti sempre bene,
vedo.”
“Già,”
L'altro sorrise,
mandò giù un sorso di Whisky e poggiò
il calice sul basso tavolino
di vetro davanti al caminetto. “Sai, devo confessarti una
cosa. Per
un attimo, quando ti ho visto su quel ponte, ho pensato che nel
momento in cui mi sarei avvicinato a te sarebbe spuntata fuori una
squadra di Auror.”
“Beh, se la mia intenzione fosse stata
quella di farti arrestare non mi sarei certo scomodato a prendere
delle ferie non pagate per viaggiare fino a Parigi. Avrei spedito
direttamente gli Auror sul luogo del nostro appuntamento e sarei
rimasto nel mio studio a Hogwarts a prepararmi una bella tazza di
tè.”
Gellert
si lasciò sfuggire
una risata leggera.
“Confermo
che non sei
cambiato affatto. Sempre lo stesso senso dell'umorismo. Ma non
perdiamo tempo in chiacchiere. Hai detto di voler arrivare dritto al
punto, giusto?”
“Giusto. Sai bene per quale ragione mi trovo
qui. Una volta che mi avrai mostrato le tue informazioni
potrò dare
una risposta alla tua... la tua richiesta.”
Gellert
annuì, poi impugnò
e sventolò la bacchetta. Un taccuino dalla copertina verde
scuro si
librò dalla scrivania e volò nella loro
direzione. Albus mise via
il calice di Whisky, afferrò il taccuino e iniziò
a sfogliarlo, con
il cuore in gola.
Tre
mesi. Aveva atteso quel
momento per tre mesi, dal momento in cui si era ritrovato tra le mani
quella lettera anonima che avrebbe potuto cambiare il corso della sua
vita – non che a lui servisse una stupida firma per capire
chi
l'avesse scritta.
A
quella lettera ne erano
seguite altre; dolci promesse che l'avevano tenuto sveglio di notte e
pian piano avevano demolito le certezze che si era illuso di aver
costruito negli anni.
Al,
ti chiedo solo di confidare in me. La bacchetta di Sambuco è
in mio
possesso – questo lo sai bene – e sono sulle tracce
degli altri
Doni...
Ho
scoperto il nome della famiglia che da secoli si tramanda il Mantello
dell'Invisibilità. Sono vicino anche a scoprire dove si
trova la
Pietra della Resurrezione. Se solo volessi aiutarmi...
Tua
sorella, Al. Potrai rivedere tua sorella.
Ti
allego qui alcuni dei miei appunti sulla natura degli Obscurus. Sono
sicuro che ti aiuteranno a comprendere meglio la condizione di
Ariana. Se solo potessimo lavorare insieme per capire come estirpare
questo male...
Ricordi
l'ardore, la convinzione con cui parlavamo dei nostri progetti? Di
ciò che avremmo potuto fare quando i Doni sarebbero stati in
nostro
possesso? Adesso abbiamo tutti gli strumenti per capire davvero come
realizzare il Bene Superiore...
La
mia ricerca dei Doni si è conclusa, Albus. Ti aspetto a
Parigi. Devo
sapere se sei disposto a tornare da me. Se credi ancora nel Bene
Superiore. Se credi ancora che insieme potremmo essere ciò
che in
gioventù abbiamo giurato di diventare insieme – un
capolavoro.
Albus
alzò lo sguardo dal
taccuino e con dita tremanti accarezzò le fragili pagine di
pergamena, lì dove il cognome Potter era
stato scribacchiato
in un inchiostro verde smeraldo.
“Ci
sei riuscito,”
mormorò in direzione di Gellert. “Ci sei riuscito
davvero.”
“Ti
avevo detto che potevi
confidare in me. Mi sono già impossessato della bacchetta,
credevi
veramente che non sarei stato capace di rintracciare gli altri
Doni?”
Gellert
sorrise, beffardo.
Fu il brivido di pura attrazione che gli serpeggiò lungo la
schiena
davanti a quel sorriso che spinse Albus a poggiare
il taccuino
sul tavolo, alzarsi di scatto e dare le spalle a Gellert.
“Non
posso fare quello che
mi hai chiesto nelle tue lettere. Non posso. Abbandonare la mia vita,
lasciare tutto per unirmi a te... è semplicemente
folle.”
“Eppure
sei qui. Ti sei scomodato per venire fino a Parigi, per incontrarmi.
Questo deve pur voler dire qualcosa.”
Un
sospiro, seguito da un
rumore di passi e dal tocco delicato di una mano sulla sua spalla.
“Al,
tutto quello che
abbiamo sempre desiderato è qui, tra le nostre mani. Io e
te, i
Doni, il Bene Superiore...”
“Come
puoi chiedermi di
fidarmi di te dopo quello che hai fatto? Dopo quello che è
successo
ad Ariana?”
Albus
si voltò, la rabbia
che gli sporcava la voce, gli occhi che fissavano duri quelli di
Gellert.
“Albus...
ascoltami,”
mormorò lui in tono grave. “Non immagini neanche
quanto mi
dispiace...”
“Certo,
ti dispiace,”
Albus arretrò, lasciandosi sfuggire una risata amara e
sarcastica.
“Io ero follemente innamorato di te, Gellert. Credevo che tu
lo
fossi altrettanto, credevo di aver trovato un'anima affine alla mia,
che insieme fossimo davvero destinati a diventare un capolavoro.
Forse ciò che avevamo stava davvero prendendo la forma di un
capolavoro... finché tu non hai fatto tutto a pezzi. Mi hai
abbandonato nel momento peggiore della mia vita. Quando... quando lei
è morta... la prima cosa che ho fatto è stata
girarmi per cercarti
perché irrazionalmente pensavo che tu avresti sentito a
pieno il
peso di quella tragedia e saresti stato lì a sostenermi...
ma tu non
c'eri. Eri scappato via come un vigliacco. È stato allora
che mi
sono reso conto di quanto fossi stato stupido a credere in te, nel
tuo cosiddetto amore così come nei nostri folli ideali. Ti
ho
odiato e forse ti odio ancora per questo.”
Albus
non si sarebbe mai
aspettato che, davanti a quelle parole, gli occhi di Gellert si
sarebbero adombrati di una profonda tristezza che prima d'allora non
aveva mai visto nel suo sguardo.
“Ascoltami,
ti prego,”
ripetè Gellert, muovendo un passo verso di lui. Gli
tremavano le
labbra e la tristezza nei suoi occhi sembrava sincera, fin troppo
sincera. “Hai ragione. Tutto quello di cui mi accusi
è vero. Sono
scappato perché avevo paura e anche perché mi
sentivo terribilmente
in colpa. Anche io ero innamorato di te, Albus. Dopo quello che
è
successo ad Ariana ero convinto che mi avresti rifiutato, che non
avresti più voluto neanche guardarmi negli occhi. Ho
preferito
scappare piuttosto che affrontare la possibilità di un tale
rifiuto
perché mi avrebbe fatto troppo male. Devi credermi quando ti
dico
che il senso di colpa ha continuato a logorarmi per tutto questo
tempo, perché mi sono reso conto di quanto fosse stato sbagliato
abbandonarti in un momento del genere.”
Sta mentendo, Al.
Smettila di pendere dalle sue labbra. Smettila di sperare che sia
sincero.
“Sai,
spesso ho immaginato
come sarebbero potute andare le cose se solo fossimo stati meno
immaturi, se ci fossimo comportati in modo differente rispetto alla
condizione di Ariana... ma allora eravamo dei ragazzini. Anzi, dei
bambini. Abbiamo commesso degli errori. Adesso dovremmo darci la
possibilità di rimediare alle colpe del nostro passato,
impedire che
queste continuino a definirci.”
Albus
sospirò, per poi
sollevare le labbra in un sorriso amaro.
“Quindi
avresti intenzione
di rimediare ai nostri errori di gioventù?”
“Certo. È
ciò che ti ho ripetuto per mesi nelle mie lettere. Ti sto
dando la
possibilità di riavere la tua famiglia, di lavorare insieme
a me per
un mondo migliore con la nostra maturità di uomini, con gli
strumenti e le conoscenze che abbiamo a disposizione.”
Gellert gli
afferrò le mani e Albus si ritrovò a deglutire,
paralizzato da quel
tocco. “Ti chiedo solo di fidarti di me. Puoi
farlo?”
La voce,
quella voce calda e melodiosa che l'aveva attratto fin dal primo
momento, che serpeggiava sulla sua pelle in una carezza seducente
quanto distruttiva. Una voce che persino in quel momento sapeva di
stanze buie, di vestiti strappati con furia, di ragione che andava in
pezzi, sudore e labbra avvinte.
Con
un enorme sforzo, Albus
si liberò dalla stretta di quelle mani e si
conficcò le unghie nei
palmi; non poteva cedere a quel desiderio che aveva creduto sopito
–
morto e sepolto – e che adesso combatteva
per rivelarsi in
tutta la sua forza traditrice.
“Vorrei
credere che tu sia
sincero, Gellert,” mormorò. “Lo vorrei
davvero.”
“Di
cos'altro hai bisogno
per fidarti di me? Parlarti ancora di Credence? Ricorda, il male che
lo affligge è lo stesso che affliggeva Ariana. Noi possiamo
fare
qualcosa per salvarlo.”
Gellert
si allontanò per
recuperare il taccuino dal tavolo e tornò da lui,
porgendoglielo. La
tristezza era sparita dal suo sguardo, che ora aveva ritrovato
l'abituale compostezza.
“Non
pretendo che tu mi
dia subito una risposta. Torna alla locanda, prenditi il tempo di
leggere tutti i miei appunti sugli Obscurus, rifletti bene sulla tua
decisione. Abbiamo la possibilità di aiutare altri giovani
maghi e
streghe che sono affetti da questo male. Non ti chiedo di farlo per
me. Fallo per Ariana. Ogni giovane vita che salveremo sarà
un'espiazione della nostra colpa, un tributo alla sua vita che
è
stata spezzata troppo in fretta. In quanto a lei... potrebbe tornare.
Ormai sappiamo dove si trova la Pietra. È solo una questione
di
tempo.”
Nel
silenzio che seguì
quelle parole, Albus fissò gli occhi di Gellert e per un
attimo li
vide tramutarsi negli occhi di Ariana – quelle limpide iridi
azzurrine che erano rimaste cristallizzate nella morte, nel fiore
acerbo dei quattordici anni, che forse sarebbero potute tornare a
risplendere grazie a lui.
“Tornerò
da te domani
sera per darti una risposta,” disse infine Albus, spezzando
il
silenzio. Prese il taccuino, lo infilò nella tasca del
panciotto e
si allontanò da Gellert per afferrare il mantello
dall'appendiabiti.
“Ma non iniziare a crearti delle false aspettative.”
“Non
lo farò, Albus.
Qualsiasi decisione prenderai, sono sicuro che sarà quella
giusta.”
Aspettava
ormai da ore;
l'orologio a pendolo segnava le undici, le fiamme nel camino si erano
quasi consumate e lui stava svuotando l'ultima bottiglia di Vino
Elfico, le dita che tamburellavano sul bracciolo di velluto rosso
della poltrona.
Gellert
sbuffò e mandò giù
un altro sorso di vino. Era possibile che Albus avesse cambiato idea?
Che in quel momento stesse preparando i bagagli per tornare a
Hogwarts, impassibile alle tentazioni che lui gli stava offrendo? La
sua famiglia riunita, una causa nobile da perseguire, Gellert
stesso.
La
sera prima aveva letto
l'attrazione nei suoi occhi. Vi aveva scorto l'istinto, il desiderio,
così come il senso di colpa che gli battagliava dentro. Era
stato
certo che ben presto Albus sarebbe tornato a varcare la soglia di
quel salotto, così come era certo che sarebbe stato
più facile
esercitare un ascendente su di lui se avesse sfruttato quella che era
sempre stata la sua più grande debolezza, l'amore.
Con
il tempo, Gellert aveva
imparato a disprezzare il significato di quella parola, a considerare
i sentimenti prerogativa dei deboli, degli sciocchi e degli illusi.
Eppure, la sera prima, c'era stato un momento in cui una parte di lui
aveva irrazionalmente desiderato avere di nuovo le mani di Albus su
di sé, ricordare cosa significasse essere un ragazzino di
diciassette anni che sente di essersi innamorato per la prima volta
nella sua vita...
Il
cigolio della porta
infranse il silenzio. Gellert si voltò di scatto e si
sentì
invadere dal disappunto quando vide Queenie entrare in salotto.
“Queenie.
Mi auguro che tu
sia qui per portarmi buone notizie,” disse in tono atono,
rigirandosi tra le mani il calice ancora mezzo ricolmo di vino.
“Volevo
parlarvi di
Credence,” rispose Queenie, stringendosi nella mantellina
viola e
passandosi nervosamente una mano tra i riccioli biondi.
“È stato
avvistato a Montparnasse insieme a Nagini, la ragazza con cui
è
scappato dal Circo Arcanus. Si nascondono in una vecchia palazzina
nei pressi del cimitero. Ho pensato che avreste voluto
saperlo...”
“Ti
ringrazio per
l'informazione, cara.”
Queenie
rimase immobile
sulla soglia della porta, le labbra laccate di rosso increspate da un
sorriso teso. Queenie, giovane e ingenua Queenie. Era lì da
quasi
due settimane – non era stato difficile convincerla a
trattenersi,
considerato che non aveva un altro posto dove andare, né
ammaliarla
di giorno in giorno con i suoi discorsi e le sue promesse.
“Avete
intenzione di fare
qualcosa riguardo il ragazzo, adesso che sapete dove si
trova?”
continuò Queenie. Gellert scosse la testa e si
portò il calice alle
labbra.
“Ne
abbiamo già parlato,
devo fare in modo che sia Credence a venire da me...”
Il
trillio improvviso del
campanello. Gellert sbatté le palpebre e, per un attimo,
ogni
muscolo del suo corpo si tese spasmodicamente.
Il
momento era arrivato.
“Queenie,
vai ad aprire.
Sono ore che aspetto il nostro ospite.”
Albus aveva
passato una
notte in bianco, girandosi e rigirandosi nel letto fino all'alba,
stringendo tra le mani il taccuino di Gellert e sentendosi soffocare
dalle pareti di quella minuscola stanza impolverata.
Finalmente
era riuscito a
scivolare nel sonno ma era passata appena un'ora prima che si
risvegliasse di colpo, con gli occhi lucidi di lacrime e i visi di
Kendra e Ariana ancora impressi a fuoco nella mente, convinto che se
solo avesse allungato una mano avrebbe potuto toccarle, sentirle
lì
vicino a lui.
Invece
Kendra e Ariana erano
svanite come fragile fumo tra le sue dita. Morte, perse per
sempre
sotto il gelido suolo del cimitero di Godric's Hollow, non torneranno
non torneranno non torneranno mai più a meno che...
I
rimasugli di quel sogno
avevano continuato a tormentarlo per tutta la giornata, offuscandogli
la mente. Le chiome dorate e l'azzurro degli occhi di Kendra e Ariana
erano ovunque, come fantasmi che prendevano vita alla luce del giorno;
nei capelli sciolti delle ragazze che passeggiavano sul lungosenna,
nei ritratti di nobildonne venduti dai vecchi pittori nei vicoli di
Montmartre, nei colori delle foglie che ricadevano al suolo, nel
cielo screziato dai raggi del pallido sole d'autunno.
Possono
tornare, possono tornare davvero. Potrò restituire loro la
vita che
meritavano.
Allo
scoccare delle undici
di sera, Albus non era più riuscito a trattenersi. Si era
gettato
addosso un mantello, era uscito a passo svelto dalla locanda e si era
Smaterializzato davanti al palazzo dove si trovava l'appartamento di
Gellert, incapace di controllare i brividi che gli scuotevano il
corpo.
Non
poteva continuare a
mentire a se stesso, si era detto mentre pigiava il campanello senza
alcuna esitazione.
La
verità era che, nei suoi
primi anni di insegnamento, aveva vissuto e amato Hogwarts come una
casa, cercando di convincersi di poter essere felice lì, nel
suo
piccolo studio affacciato sul campo di Quidditch, dedito
all'insegnamento di una materia che amava.
Ma
persino Hogwarts aveva
finito per annichilirlo e prosciugare le sue energie, come aveva
fatto la vita a Godric's Hollow.
La
ripetitività asfissiante
della vita scolastica aveva rischiato di fargli perdere il senno;
ogni giorno gli stessi volti, le stesse conversazioni, gli stessi
corridoi, le stesse scalinate, la stessa aula, gli stessi libri di
testo, le stesse lezioni programmate e gli stessi incantesimi
eseguiti davanti a classi di adolescenti che un giorno avrebbero
lasciato il castello e si sarebbero gettati a pieno nella vita,
mentre lui continuava a marcire lì tra quelle mura che si
facevano
sempre più simili alle sbarre di una prigione.
Era
davvero questo tutto ciò
che la vita avrebbe potuto offrirgli fino alla morte? Non c'era
più
nessuna strada da percorrere, nessun altro scopo da perseguire?
Albus
aveva compreso che non
faceva parte della sua natura accontentarsi di starsene seduto dietro
una scrivania e ripetere ogni giorno gli stessi identici gesti
–
come un attore della commedia dell'arte che ogni sera mette in scena
lo stesso spettacolo e recita sempre le stesse battute –
finché
non avrebbe avuto i capelli bianchi e il viso deturpato dalle rughe.
Forse
non desiderava più il
potere, almeno non come l'aveva desiderato a diciassette anni, ma
desiderava il mondo lì fuori più di qualsiasi
altra cosa.
Desiderava l'azione, le novità, gli imprevisti e le
rivoluzioni, un
proposito che desse senso alla sua esistenza.
La
sua scelta non aveva
niente a che vedere con l'antica passione che l'aveva unito a
Gellert. Tutto ciò che Albus voleva era salvare dei ragazzi
innocenti da quel dannato parassita che aveva sconvolto la vita di
Ariana, riportare in vita le persone che per lui contavano
più di
chiunque altro al mondo.
Nel
momento in cui si
precipitò nel salotto, trovò Gellert che lo
attendeva in piedi, le
mani intrecciate dietro la schiena e la tipica espressione composta
dipinta in viso.
“Bentornato,”
disse,
chinando leggermente il capo in avanti in segno di saluto.
“Sapevo
che avresti fatto la scelta giusta.”
“Come
fai a dirlo? Non ho
ancora parlato,” ribatté Albus, accennando un
sorriso.
“Lo
leggo nei tuoi occhi.
Sono sempre stato capace di leggerti, Al.”
Gellert
avanzò verso di
lui, lentamente, finché i loro petti non arrivarono a
sfiorarsi.
Ancora una volta Albus si ritrovò paralizzato da quella
vicinanza.
Avrebbe voluto allontanarsi, scostare la mano di Gellert che adesso
si era sollevata per accarezzargli i capelli, ma non poteva, anzi,
non voleva.
“Non
riesco a credere che
tu sia di nuovo qui insieme a me, dopo tutto questo tempo,”
mormorò
Gellert, le labbra a un soffio al suo orecchio.
Albus
sentì le sue
resistenze liquefarsi al suono suadente di quella voce. Ogni barlume
di raziocinio finì a brandelli tra le fauci dell'istinto,
quando
Gellert avvicinò il viso al suo e lo baciò.
Gli
erano mancate le sue labbra, gli erano mancate terribilmente. Vi
si aggrappò, mordendole, facendovi scorrere sopra la lingua,
mentre
le mani di Gellert gli strappavano via il mantello e si infilavano
sotto la sua camicia, artigliandogli la pelle nuda.
Uno
sprazzo di ragione fece di colpo capolino nella sua mente offuscata.
Albus trasse un profondo respiro e si scostò, scuotendo la
testa e
poggiando le mani sul petto di Gellert per sospingerlo leggermente
via.
“Non
credermi così ingenuo,” disse, in tono fermo ma
privo di rabbia.
“Non sono tornato qui per questo, lo sai.”
In
tutta risposta, l'altro
si strinse nelle spalle e ridacchiò.
“A
volte non c'è niente
di male nel lasciarsi andare alle vecchie passioni.”
“Certo.
Così come a volte
è una buona idea evitare di lasciarsi
andare alle vecchie
passioni.”
“Saggio
come sempre.
Allora forse adesso ci conviene passare alle questioni serie.
Dovremmo parlare del Mantello e della Pietra.”
“Potrò
occuparmene io
quando tornerò in Inghilterra. Conosco le due famiglie che
sono in
possesso dei Doni. Potter e Gaunt. Due nomi piuttosto rinomati nella
società inglese. Anche se, certo, i Gaunt hanno perso da
tempo il
loro vecchio prestigio.”
Mentre
parlavano, si erano
accomodati sulle poltroncine davanti al camino. Gellert
recuperò il
suo calice di vino e annuì, accarezzandosi il mento con le
dita.
“Non
dovrebbe essere
difficile per te trovare un modo di avvicinare le famiglie, ma
sottrarre il Mantello e la Pietra...”
“Non
sottovalutare la mia
intelligenza.”
Si
scambiarono un sorriso
complice e per un attimo Albus tornò all'estate dei suoi
diciassette
anni, al salotto di Bathilda Bath illuminato dalle luci flebili delle
candele, alle bottiglie di Idromele che lui e Gellert amavano
consumare mentre sfogliavano libri e parlavano della ricerca dei
Doni. Adesso l'oro e il fuoco delle loro chiome s'erano ammantati di
grigio, i loro visi portavano il peso dei segni dell'età e
quelle
che un tempo erano state folli utopie adolescenziali si stavano
concretizzando tra le loro mani.
Eppure,
proprio come allora,
il sapore di Gellert bruciava ancora sulle sue labbra, pensò
Albus
mentre afferrava il calice che l'altro gli stava offrendo e finiva il
vino tutto d'un sorso.
Fu
nel sapore inebriante
dell'alcol che perì il suo ultimo brandello di rimpianto per
la
scelta che aveva compiuto. Prese quel rimpianto e lo relegò
in un
cassetto polveroso della sua mente, lì dove un tempo era
stato
costretto a rinchiudere i suoi sogni. Sogni che adesso erano liberi
di prendere forma alla luce del sole – o nel buio di una
notte
parigina, illuminati dalle luci soffuse dei candelabri alle pareti e
delle braci morenti nel camino.
Quando Albus
era tornato
dall'Inghilterra con il Mantello dell'Invisibilità e la
Pietra della
Resurrezione tra le mani, il primo istinto di Gellert era stato
quello di chiudersi nella sua stanza con i Doni – i
tre Doni,
finalmente riuniti – e gioire di quella vittoria
agognata per
una vita intera.
Poi
aveva incrociato gli
occhi di Albus e un nuovo istinto aveva preso forma in lui, lo stesso
istinto che l'aveva spinto a baciarlo la sera in cui si erano
ricongiunti – si era reso conto che quelle labbra
gli erano
mancate, più di quanto fosse disposto ad ammettere.
“Finalmente
ce l'abbiamo
fatta,” aveva mormorato, afferrando le spalle di Albus e
tirandolo
verso di sé, la voce venata di un entusiasmo febbrile.
“Tutto
grazie a te. Tutto ciò che abbiamo sempre
sognato...”
Albus
l'aveva zittito
poggiando la bocca sulla sua, in un bacio irruente che Gellert aveva
ricambiato senza esitare. Erano passati anni dall'ultima volta che si
erano toccati, eppure era stato così naturale,
così familiare,
sospingere Albus verso la sua stanza e iniziare a spogliarlo
–
imprimendo morsi e baci lascivi sulla sua pelle calda – per
poi
sospingerlo sul letto, spalancargli le gambe e scivolare in lui.
Mio,
mio, sei mio, sei sempre stato mio. Lo sarai per sempre, aveva
pensato mentre serrava le mani intorno ai suoi polsi, godendo della
vista delle gote di Albus infiammate dal piacere, dei suoi occhi
spalancati e brucianti di gioia selvaggia.
Era
ricaduto su di lui con
un gemito e poi si era steso al suo fianco, allungando un braccio per
attirarlo a sé. Gli aveva portato le labbra all'orecchio e
aveva
mormorato; “Ti ricordi quando ti dissi che insieme eravamo
destinati a essere un capolavoro?”
Albus annuì, facendo
scorrere delicatamente una mano sulla sua fronte sudata; entrambi
stavano ricordando la stessa alba, un'alba di molti anni prima in cui
si erano scambiati promesse destinate a essere infrante dalla
crudeltà del destino solo per rifiorire e riprendere forma
in quel
presente di utopie fatte della stessa consistenza della
realtà.
“Mi sbagliavo. Noi
siamo sempre stati un capolavoro, amore mio.”
*
Note
Il contest "All About Grindeldore" richiedeva di scrivere una storia
incentrata sulla decisione di Albus di allearsi con Gellert, invece di
combattere contro di lui. Il pacchetto da me scelto conteneva questi
elementi
Quando:
1927 [anno in cui Albus diventa professore di Trasfigurazione a
Hogwarts e in cui è ambientato tutto AF2]
Dove:
Parigi
Chi:
Queenie Goldstein
Prompt [Bonus]:
“Maybe we got lost in translation / Maybe I asked for too
much / But
maybe this thing was a masterpiece / ‘Till you tore it all
up”
Devo ammettere che scrivere questa storia è stata una gran
bella sfida, perché non è facile rendere in modo
credibile e realistico un Albus Silente che decide di allearsi con
Gellert Grindelwald. (Infatti non pretendo di esserci riuscita al
meglio, a voi l'ardua sentenza!)
Un Albus di mezz'età ancora sedotto dall'idea del potere e
del dominio sui Babbani sarebbe stato decisamente OOC, per cui ho
deciso di giocare su altri fattori. Il mio Albus è infatti
follemente tentato da ciò che Gellert gli promette; la
possibilità di poter riportare in vita la madre e la sorella
e di perseguire una causa che appare nobile ai suoi occhi, ovvero
aiutare i giovani maghi e streghe affetti dall'Obscurus a liberarsi
dello stesso male che ha rovinato la vita di Ariana. (A questo
proposito mi sono ispirata alla celebre teoria secondo la quale Ariana
sarebbe un Obscurus, proprio come Credence.) Ho anche immaginato un
Albus ormai stanco di vivere una routine scolastica sempre
uguale che non può accontentare il suo naturale desiderio di
vivere a pieno la vita, di conoscere il mondo e fare esperienze.
Ho cercato di rappresentare il lato astuto e manipolatore della
personalità di Gellert, che è disposto a
concedere ad Albus ciò che gli ha promesso pur di portarlo
dalla sua parte, convincerlo della correttezza e della
moralità dei suoi ideali. Ovviamente non poteva mancare la
componente romantica, tra l'altro richiesta anche dal bando del
contest; mi è sempre piaciuta l'idea di un Gellert freddo e
cinico che ha imparato a considerare i sentimenti come una debolezza ma
che, nel profondo, non può fare a meno di provare ancora
qualcosa per Albus. Il suo atteggiamento è ambivalente;
prevale l'intento di manipolazione ma c'è anche un fondo di
amore sincero, sebbene lui sia troppo accecato dal suo cinismo per
rendersene chiaramente conto.
Ammetto che è passato molto tempo dall'ultima volta che ho
visto il film "Animali Fantastici - I Crimini di Grindelwald", quindi
forse alcuni dettagli di questa storia non sono fedeli al cento per
cento alla trama del film. Spero comunque di essere riuscita a
dipingere un quadro credibile della situazione e a rendere IC i
personaggi!
A questo punto mi concedo di farmi un po' di spam. Mentre lavoravo a
questa storia non ho potuto fare a meno di ripensare a una flash
Grindeldore che ho scritto un paio di mesi fa, in cui un giovane
Gellert promette ad Albus che loro due, insieme, sono destinati a
"essere un capolavoro." (Ancora non avevo iniziato a scrivere questa
storia, per cui non sono stata influenzata dal prompt del pacchetto!)
Ho quindi cercato di inserire dei riferimenti ai contenuti della
flash come se fosse una sorta di missing moment di questa
storia. Se vi interessa potete trovarla qui :)
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3967612
Ringrazio in anticipo chiunque deciderà di lasciare una
recensione!
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