Gente mia,
nonostante
la tecnologia abbia tentato a più riprese di rivoltarsi contro di
me, ecco che vi posto il solito mappazzone settimanale.
Come
sempre un immenso ringraziamento a chi mi sta seguendo.
Capitolo
8
L'inglese
era proprio di fronte a loro. Bilanciato sui due piedi, profilato,
impugnava la pistola con una mano e sembrava un duellante d'altri
tempi.
Il
tenente capì che stava sparando più che altro dai lampi gialli che
baluginavano dalla canna, perché ogni altro suono era soverchiato
dal rombo del motore a pieni giri.
Una
scintilla sprizzò dalla culatta della Vickers, segno che un
proiettile l'aveva colpita, poi l'inglese fu costretto a saltare
indietro per evitare di essere travolto.
Von
Knobelsdorff lo vide bilanciarsi nuovamente sulle gambe e mirare a
lui, per un istante si trovarono anche occhi negli occhi.
Poi
l'aereo passò oltre e il tenente si trovò a fronteggiare l'immensa
distesa buia della pista.
Fece
prendere velocità all'RE8. Chiuse gli occhi e lasciò che l'istinto
per il volo prendesse il sopravvento.
Cercò
di sentire
quell'aereo come una parte del suo stesso corpo, lo visualizzò nella
corsa di decollo, lasciando che il fremito dei comandi e l'impatto
dell'aria contro il viso gli dicessero che era arrivato il momento di
staccare.
L'aereo
correva. Da quanto tempo? Non lo sapeva.
Inspirò,
cercò di fare il vuoto in mente.
Non
adesso...
L'aria
era ormai uno schiaffo brutale, la barra nella sua mano era una cosa
viva, pulsante.
Non
adesso...
L'aereo
fece un breve sobbalzo, riprese terra, si scosse come un puledro
ansioso di galoppare.
Adesso!
Tirò
indietro la barra, ogni scossa e ogni vibrazione cessarono: l'RE8 era
passato da grave che striscia sul terreno a entità celeste senza
peso.
Sospirò
di sollievo, ma mantenne desta l'attenzione. Quanto saliva quel
velivolo? Quando avrebbero guadagnato la quota di crociera? Era il
caso di ridurre i giri o era meglio aspettare? Cercò di distinguere
qualcosa nel cruscotto, ma anche quello era un abisso di buio, nel
quale la debole luminescenza verde dei quadranti sembrava il
barbaglio di pesci in acque profonde.
Si
affidò nuovamente all'istinto. Guardò fuori, vide in lontananza dei
bagliori rossi e aranciati. “Il fronte,” disse a voce alta,
ricordandosi solo dopo che l'uomo alle sue spalle non poteva
sentirlo.
Stabilì
che la quota era sufficiente, livellò e ridusse i giri fino a che un
suo orecchio interiore non si dichiarò soddisfatto.
A
quel punto osservò di nuovo l'orizzonte. Il cielo era ancora nero,
ma gli sembrava di cogliere da una parte qualcosa come un vago
chiarore. Stabilì che quello era l'est.
In
lontananza si vedeva un ribollire rossastro da fucina, nel quale
talvolta esplodevano fontane di un bianco accecante, che lasciavano
poi ricadere ad arco vividi zampilli.
Chiuse
gli occhi e per un istante rivide quegli stessi disegni, violacei,
dietro le palpebre.
Si
guardò intorno come d'abitudine. Stava per girarsi verso l'agente
segreto quando un'angosciante sensazione di allarme lo invase: odore
di benzina.
Annusò
di nuovo, pregando di essersi sbagliato, ma allo stesso tempo
consapevole che nessun pilota avrebbe mai potuto sbagliarsi su una
faccenda del genere. Il risultato infatti fu lo stesso: benzina.
Sicuramente
uno dei proiettili dell'inglese aveva bucato un serbatoio.
Strinse
le labbra. Non c'era molto da fare, obiettivamente, a parte
continuare a volare sperando che l'aereo non prendesse fuoco e che il
carburante rimasto fosse sufficiente a farli arrivare in territorio
tedesco.
Riguardò
il susseguirsi di fiamme e deflagrazioni che segnava la linea del
fronte, diede motore e salì di quota: almeno avrebbe avuto più
margine per un'eventuale planata.
Livellò
quando i bagliori delle esplosioni erano ridotti a un vago luccichio
come di sole sull'acqua, poi si chiese quanto carburante fosse
rimasto. Gli indicatori non si vedevano e l'istinto del volo, così
utile per staccare al momento giusto o compensare il vento al
traverso, era purtroppo del tutto inutile per dirimere questioni
tecniche come la quantità di benzina presente nei serbatoi.
Guardò
di nuovo verso l'orizzonte, alla ricerca di un'agognata striscia di
luce. Decollare al buio, dopotutto, non era impossibile. Tutt'altra
cosa, ovviamente, sarebbe stata atterrare, verosimilmente su un campo
non preparato – campo che prima avrebbe anche dovuto individuare –
forse senza benzina e magari, per colmo di sfortuna, anche
bersagliato dalla fucileria tedesca, perché nelle trincee
l'avrebbero scambiato per un nemico.
L'odore
di benzina andava e veniva. A tratti era più intenso, tanto da far
temere un imminente incendio, a tratti invece quasi scompariva,
soverchiato dal vento che invadeva l'abitacolo.
Probabilmente
lo stillicidio non finiva direttamente sul motore, ma in ogni caso
persisteva, e stava vuotando pian piano il serbatoio.
Von
Knobelsdorff regolò per l'ennesima volta quel che poteva dei
parametri del volo, poi fissò di nuovo l'orizzonte, dove stava
svogliatamente accendendosi una luminescenza aranciata. Guardando con
attenzione, si cominciava già a percepire qualche corrugamento viola
o grigiastro nel nero prima uniforme del suolo.
Il
motore tossì. Un sussulto quasi impercettibile, che però a lui
parve forte come un colpo di cannone.
Si
guardò ansiosamente intorno, calcolò quale fosse più o meno la
distanza dal fronte e cominciò a impostare un’eventuale planata.
Il
motore tossì di nuovo, l’aereo ebbe un sussulto.
Von
Knobelsdorff percepì un tocco sulla spalla. Capì che l’agente
segreto stava dicendo qualcosa, ma non riuscì ad afferrare cosa.
Immaginò che stesse chiedendo se c’erano problemi.
“La
benzina!” urlò in risposta, con quanto fiato aveva in gola
“Benzina! Poca benzina!”
Poi
il motore emise un'altra serie di singhiozzi ed egli dovette
abbandonare lo scambio per dedicarsi a questioni più urgenti.
L'uomo
del resto non era l'ultimo degli stupidi, non ci avrebbe messo molto
a capire qual era il problema.
All’orizzonte
comparvero i primi raggi di luce. A terra non si vedeva ancora
praticamente nulla, ma il colore del cielo stava passando dal nero al
blu scuro. A una a una, le stelle scomparivano.
Il
ribollire igneo del fronte, che col buio gli aveva ricordato i fiumi
di lava incandescente di un vulcano, andava pian piano trasformandosi
in dense nubi di fumo, sotto le quali covava un rosseggiare come di
braci.
Le
vivide fontane bianche, di una terribile bellezza nelle tenebre,
stavano diventando sbiaditi archi giallastri.
Il
motore calò di giri, tossì, si riprese sputacchiando. Egli tentò
di inclinare l’aereo alla ricerca delle ultime gocce di benzina, ma
dopo pochi secondi l’elica si fermò.
“Merda!”
imprecò fra i denti. Nel silenzio irreale che era calato, sembrò
che lo stesse urlando. Diede un'altra occhiata alla linea del fronte,
cercando di calcolarne la distanza. Non era una riga tracciata con la
penna, ovviamente, ma un'estensione più o meno ampia di cosiddetta
terra di nessuno, delimitata dalle trincee dei due schieramenti. La
dimensione di quello spazio poteva fare la differenza.
Guardò
di nuovo, ma non si arrischiò a perdere preziosi metri di quota per
avere un punto di vista migliore. In ogni caso, ragionò, a parte
sfruttare al massimo la planata c'era ben poco da fare.
Si
concentrò sull'aereo. L'RE8 sembrava comportarsi abbastanza bene,
era stabile e scendeva molto più adagio del suo Albatros, grazie
alle ampie superfici alari. Per agire sui comandi bastava qualche
tocco su barra e pedali.
L'agente
segreto sedeva silenzioso alle sue spalle, senza disturbarlo con
domande futili.
Tutto
sembrava procedere, se non nel modo migliore, almeno in quello più
accettabile. Egli si sentì pervadere, per la prima volta da quando
era stato abbattuto con l'agente segreto a bordo due giorni prima, da
un cauto ottimismo.
Poi
la semiala destra esplose. Ci furono un lampo giallo e uno schianto,
la struttura si disintegrò in un delirio di schegge di legno,
brandelli di tela e cavi d'acciaio. L'aereo fuori controllo si
rovesciò e cominciò a precipitare.
Von
Knobelsdorff cercò per prima cosa di rimettere il velivolo in un
assetto decente, cosa che gli riuscì solo dopo un tempo che gli
parve interminabile. Quando l'RE8 interruppe la caduta, avevano perso
decine di metri di quota e, seppur più lentamente, continuavano a
perderne. Si trovavano ancora dietro le linee inglesi. Se avessero
toccato terra lì, sarebbe stata la prigionia assicurata, sempre che
non fossero stati fucilati sul posto come spie.
Un
altro colpo gli passò così vicino che l'aereo vibrò. Evidentemente
c'era un anonimo artigliere tedesco che aveva deciso di usare il
ricognitore inglese per fare il tiro al bersaglio. In altre occasioni
avrebbe sicuramente lodato la precisione e la perseveranza del
militare, ma in quel frangente maledisse tanto zelo.
Ormai
l'RE8 era così basso che sporgendosi di lato riusciva a distinguere
i reticolati. Sotto l'aereo sfilavano le postazioni inglesi; dapprima i
ridotti, i depositi, le cucine da campo e le salmerie, poi le
trincee arretrate e infine la prima linea. Al suo passaggio, i
soldati agitavano le braccia.
Notò
che quell'avvicinamento a motori spenti stava mettendo tutti in
allarme. Ovviamente gli inglesi vedevano un loro apparecchio in
difficoltà e poteva scommettere che si sarebbero attivati per salvarlo.
Probabilmente si erano fatti l'idea che lui fosse morto o
ferito, e che per tale motivo, invece di atterrare al sicuro dietro
le linee, stesse caparbiamente procedendo verso le trincee tedesche.
Rivolse
un fugace pensiero all'agente segreto alle sue spalle, ebbe quasi
l'idea di chiedergli cosa sarebbe stato meglio fare una volta a
terra, ma subito dopo dovette concentrarsi sul volo, la cui
difficoltà richiedeva tutta la sua attenzione.
Il
terreno, un brullo susseguirsi di avvallamenti e crateri, si stava
avvicinando con allarmante velocità.
Ancora
una volta il tenente si sporse di lato per controllare la posizione
del velivolo: si era lasciato alle spalle la prima linea inglese e
riusciva già a vedere, forse a duecento metri di distanza, le
trincee tedesche.
Sotto
di lui scorrevano matasse di filo spinato e detriti. Il suolo ormai
era a pochi metri, l'aereo arrancava sorto, costringendolo a continue
manovre di correzione.
Infine
toccò terra con la punta della semiala sana, rimbalzò, toccò di
nuovo e si udì lo schianto del carrello che cedeva.
L'RE8
si accasciò su un lato e per un po' continuò a strisciare
lasciandosi dietro pezzi della centinatura e del rivestimento alare.
Infine si arrestò in un silenzio irreale.
“Tutto
bene?” chiese il tenente, ma non ricevette risposta.
Fece
per girarsi verso l'agente segreto, ma una serie di clamori lo
costrinsero a dedicare immediata attenzione a ciò che stava
accadendo al di fuori.
Una
pattuglia di inglesi si stava avvicinando, con l'ovvio intento di
salvarli.
Si
sentì gelare. Diede un'occhiata tutt'intorno, ma non c'era nulla che
potesse fungere da nascondiglio. Le linee tedesche erano ancora
lontane, o perlomeno erano più lontane della squadra in
avvicinamento. “Abbiamo un problema,” disse, ma ancora una volta
non ottenne risposta.
Ansiosamente
si chiese dove fosse l'agente segreto: era morto durante
l'atterraggio? La ferita si era riaperta? Lo immaginò esanime,
fradicio del proprio sangue, penzolante dalle cinture di sicurezza.
“Signore,”
tentò, “signore, mi sente? Dobbiamo andarcene subito.” Si girò,
ma l'abitacolo era vuoto.
Pensieri
di ogni genere gli saettarono in mente. Era davvero morto? Caduto
dall'aeroplano? Era scappato lasciando indietro lui, come esca per
gli inglesi?
L'ultima
ipotesi gli parve la più probabile. Certo, non aveva più bisogno di
un pilota. Tanto valeva sacrificarlo per coprirsi la fuga.
Lo
invase qualcosa di molto simile allo sdegno, soppiantato subito dopo
dalla pressante necessità di trovare un modo per cavarsi comunque
d'impaccio.
Sentì
il tramestio dei passi in avvicinamento. In inglese qualcuno domandò:
“Ehi, amico, tutto bene?”
Qualcun
altro disse: “Per me è morto.”
La
voce di prima insisté: “Ehi? Mi sente?”
Von
Knobelsdorff non sapeva che fare. Non aveva armi, tanto per
cominciare. Era nel bel mezzo di uno spazio aperto, dove qualcuno
dotato di fucile avrebbe potuto fare su di lui un comodo tiro al
coniglio. Era stremato, ferito, faticava a reggersi in piedi.
Tuttavia
gli ripugnava l'idea di lasciarsi catturare come un animale preso al
laccio. Scrutò ansiosamente nella cabina, alla ricerca di qualcosa
che potesse fungere da arma. Osservò con nostalgia le due
mitragliatrici Vickers ormai inutilizzabili.
Poi
sentì qualcosa come un debole gemito fuori dall'aereo. “Ma che
diavolo...?” sbottò qualcuno, poi la frase si interruppe.
Ci
furono colpi soffocati, un rumore come di rami secchi che si
spezzavano.
Calò
il silenzio.
Il
tenente si issò in piedi con fatica. Strizzò gli occhi per
allontanare un capogiro e cercò di mettere a fuoco quello che lo
circondava. I soldati inglesi erano a terra. Altri soldati si stavano
avvicinando, ma erano vestiti in grigioverde.
Lungi
dal sospirare di sollievo, alzò le mani quanto più poteva ed
esclamò: “Non sparate, sono un ufficiale tedesco!”
I
nuovi arrivati si arrestarono. Senza abbassare il moschetto, il più
avanzato di essi, un caporale, chiese: “Prego?”
Immobile,
von Knobelsdorff ripeté: “Sono un ufficiale tedesco.”
“Ma
certo, e io sono il Kaiser.” Il fucile non si spostò di un
millimetro.
“Mi
chiamo Maximilian von Knobelsdorff, sono tenente del Terzo Ulani,
attualmente in forza alla Jasta 6 con mansione di pilota.”
Il
98K continuava a puntarlo. “Come mai parla così bene tedesco?”
chiese il graduato.
“Perché
sono
tedesco, maledizione!”
“Con
quell'uniforme? A bordo di un ricognitore con le torte rosse e
blu[1]?”
“Mi
faccia parlare con un ufficiale!”
“Può
giurarci che parlerà con un ufficiale,” replicò asciutto l'altro.
Poi, rivolto ai suoi uomini: “Tirate giù quella spia inglese
dall'aereo.”
Il
tenente lasciò che i soldati lo sollevassero quasi di peso. Un po'
perché non voleva innervosirli con mosse troppo brusche, ma un po'
anche perché obiettivamente faceva sempre più fatica a reggersi in
piedi.
Gli
sembrava di essere costantemente sdraiato sulla tavola di chiodi di
un fachiro, gli bastava fare un respiro un po' più profondo del
normale per avere l'impressione che qualcuno gli stesse strappando
brani di pelle dal dorso.
Un
paio di volte gemette anche, al tocco rude dei soldati. Poi qualcuno
avvisò: “Ehi, perde sangue. È ferito!”
Von
Knobelsdorff avrebbe voluto replicare, ma le cose stavano cominciando
a diventare sempre più confuse. L'ultimo pensiero coerente che
riuscì a formulare fu che forse la felicità di trovarsi finalmente
in mani tedesche lo stava inducendo all'abbandono, poi tutto si fece
nero.
§
Quando
il tenente riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una parete
formata da assi di legno grezze, dietro cui si indovinava la presenza
di terra battuta. L’ambiente in cui si trovava era rischiarato da
una fioca luce giallastra, come di una candela o una lampada a olio;
nell’aria c’erano vari odori, tra cui medicinali, grasso per armi
e panno militare.
Si
accorse che si trovava su una branda, disteso su un fianco. Qualcuno
gli aveva tolto la giubba e la camicia, ma a quanto pareva non aveva
toccato le medicazioni di fortuna che gli aveva fatto l’agente
segreto.
Si
chiese dove fosse finito il suo misterioso compagno, e una strana
fitta di nostalgia lo pungolò.
Cercò
di sollevarsi su un gomito per guardarsi intorno, ma era troppo
debole e dovette rinunciare. Al suo movimento, però, una figura gli
si avvicinò. “Mi capisce?” chiese un capitano medico, entrando
nel suo campo visivo.
“Ovvio
che la capisco,” ansò il giovane con voce roca, “sono tedesco.”
L’altro
sollevò le sopracciglia. “È tedesco?” ripeté perplesso.
“Tenente
Maximilian von Knobelsdorff, Terzo Ulani, in forza alla Jasta 6 con
mansioni di pilota da caccia.”
Il
capitano lo fissò perplesso per qualche secondo, quindi chiese:
“Come posso essere certo che lei non mi stia mentendo?”
“Si
metta in contatto con il maggiore Heinrich von Stade, comandante
della Jasta 6. Gli dica di venire qui, sarà lui a confermarle la mia
identità.”
L’altro
sembrava comunque poco convinto da quelle referenze. Arretrò appena
sullo sgabello, come per avere un diverso punto di vista su di lui,
poi lo fissò pensoso, prendendosi il mento fra le dita. Infine
chiese: “Se lei, come dice, è un pilota tedesco, come mai si
trovava su un ricognitore inglese, con addosso un’uniforme
inglese?”
“Sono
informazioni che non posso darle.”
Il
capitano non replicò. Si alzò in piedi, aggirò la sua branda e
tirò giù le coperte che gli avevano steso addosso. Per un po’
rimase a osservare in silenzio, toccando con delicatezza qua e là,
poi disse: “Queste sono sevizie.” Non era una domanda, ma una
pacata constatazione. “Ho visto cose simili nel Tanganica,”
soggiunse poi.
A
quel punto tacque, quasi aspettandosi che von Knobelsdorff gli
fornisse qualche spiegazione, ma il tenente mantenne a sua volta il
silenzio.
Non
sapeva in effetti se gli fosse consentito parlare di certe cose o no,
ma vista la maniacale attenzione che tutti gli appartenenti ai
servizi segreti mettevano nel non far trapelare informazioni, ritenne
opportuno non rivelare nulla.
Percepì
che il capitano medico gli stava di nuovo toccando il dorso, una
pressione un po’ più intensa in un punto lo fece gemere di dolore.
“Le
bende sono attaccate alle ferite,” lo sentì dire. “Non ha avuto
molta cura della sua medicazione.”
Von
Knobelsdorff evitò di spiegargli come aveva trascorso le ultime
quarantotto ore.
Il
capitano si alzò in piedi. Aggirò nuovamente la branda, si affacciò
a una porta e chiamò: “Venga qui, Scharnowski.”
Si
presentò un caporale della sanità, che si mise sull’attenti e
scandì: “Agli ordini, signor capitano medico!”
“Scharnowski,
tolga questa medicazione.”
Il
graduato raggiunse il superiore, rimase in silenzio per qualche
secondo, evidentemente valutando la situazione, poi disse: “Ci
vorrà della morfina, signor capitano medico.”
“Gliela
somministri. Dieci milligrammi endovena.”
“Signorsì.”
Il
tenente seguì con lo sguardo il caporale che preparava la siringa e
la metteva in un'arcella assieme al laccio emostatico e a un
batuffolo di ovatta.
Gli
porse il braccio con sollievo, quasi felice alla prospettiva di
qualche ora di sonno senza preoccupazioni.
I
primi raggi del sole trasformano il prato in una scintillante distesa
di cristallo. Proprio davanti ai suoi occhi, scorrono sugli steli
gocce di rugiada che sembrano perle e diamanti. Egli allunga la mano,
le sfiora con le dita. Una di esse gli rotola sulla pelle lasciandosi
dietro una scia lucente.
Stringe
appena gli occhi. Oltre quel tripudio di gemme trasparenti, il cielo
è una cupola tersa. Nella calma di vento, i fumi scuri salgono lenti
e dritti, ricordandogli tante colonne.
Gli
tornano in mente i versi di una canzone: Aurora, aurora, illumina la
mia giovane morte[2].
Ricorda
un assalto. Il tuonare degli zoccoli, il vento sul viso, il tumulto
del sangue. Il sole sulla punta della lancia.
La
pianura è disseminata di crateri, poco lontano vi è l'affusto di un
cannone. Passa lento un cavallo, la testa china a brucare, i raggi
rosati che accendono d'oro e d'arancio il suo lucido manto corvino.
Rievoca
altri versi della vecchia canzone: solo ieri alto in sella, oggi
colpito al petto, domani nella fredda tomba.
Nella
fredda tomba, si ripete, e tutto gli sembra, quel margine di foresta
cosparso di gemme, tranne che un sepolcro. I germogli giovani delle
querce crescono su rami antichi, le foglie dell'anno precedente
muoiono e cadono, ma l'albero è sempre lì.
Forse
è quello il senso della battaglia, pensa, il senso del sacrificio.
Morire perché la Patria viva.
A
passi lenti, emergendo man mano dalla foschia del primo mattino, si
avvicina qualcuno. È un giovane uomo in uniforme di cui non riesce a
distinguere i lineamenti, alto e snello. Lo raggiunge e si ferma a
pochi passi di distanza.
Egli
lo fissa, ma è come se avesse il sole dritto negli occhi: la luce
intensa lo costringe a distogliere lo sguardo. “Chi è lei?”
chiede comunque.
Il
nuovo arrivato rimane a fissarlo muto per qualche secondo. “Reiner,”
risponde infine.
“Reiner,”
fa eco lui, pensoso. Il nome gli dice qualcosa. “Reiner, chi?”
L'altro
si china adagio e quando il suo volto diventa visibile, egli si
accorge che è come guardarsi in un specchio. Ha i suoi stessi
lineamenti.
Il
nuovo arrivato sorride appena al suo stupore, poi gli sussurra: “Si
muore per rinascere. Diglielo.”
Prima
che lui possa replicare, Reiner si alza e prende ad allontanarsi
lentamente. Raggiunge il morello, che ha smesso di brucare e lo sta
fissando con aspettativa, gli monta in sella e trotta via,
scomparendo nella foschia luminosa dell'alba.
[1]
La “torta” è colloquialmente il distintivo di nazionalità
rotondo (coccarda) che si trova su ali e fusoliera degli aerei di
determinate nazioni (ad esempio Inghilterra, Francia e Italia).
[2]
Reiters Morgenlied,
canzone tradizionale della cavalleria tedesca.
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