Incliti
lettori,
un
altro po’ di mappazza per non perdere l’abitudine. Come sempre
ringrazio tutti coloro che gentilmente passano da queste parti, anche
solo per dare un’occhiatina.
Ringrazio
sentitamente, anche un po’ commosso, chi addirittura mi lascia un
commento. Molte grazie e, spero, buon divertimento con le
disavventure del nostro pilota!^^
Capitolo
9
Il
camion correva sobbalzando sulla pianura.
Von
Knobelsdorff si guardò i polsi: le ferite ormai si erano
rimarginate. Al loro posto erano rimaste sottili strisce rossastre,
un po’ più lucide della cute circostante, come se il suo corpo
avesse dovuto stiracchiare la pelle rimasta per coprire le piaghe che
le corde gli avevano procurato. Il dottore aveva detto che anche
quelle col tempo sarebbero scomparse.
In
ogni caso, le mani si muovevano bene, era certo che entro breve
sarebbe anche tornato in grado di suonare il pianoforte.
Non
che gli interessasse particolarmente, suonare il pianoforte. L’aveva
studiato da piccolo, ovviamente, e ogni tanto lo strimpellava ancora,
con l’abitudine disinvolta delle cose che si sono imparate tanto
tempo prima perché è normale impararle. Lo faceva più che altro in
certe serate di baldoria con i camerati, quando a qualcuno veniva in
mente di cantare.
In
ogni caso preferiva la cloche alla tastiera, poco ma sicuro.
Si
sistemò meglio sulla cassa di munizioni che aveva scelto come
sedile. Dall’apertura posteriore del cassone rimase a guardare la
strada bianca, che scorreva come una specie di nastro attraverso un
paesaggio su cui la guerra aveva esatto un pesante tributo. Sui campi
incolti si susseguivano i crateri lasciati dai proiettili
d'artiglieria, le poche case che si vedevano erano in rovina o
disabitate. Qua e là vi erano ancora tratti di filo spinato.
Quando
era stato il momento di rientrare alla Jasta aveva trovato un
passaggio su un camion di rifornimenti. L’autiere l’aveva
invitato con deferenza a sedere in cabina, ma lui aveva rifiutato,
preferendo accomodarsi dietro, in mezzo a munizioni e pezzi di
ricambio.
Aveva
bisogno di pensare in pace.
Ancora
una volta era successo qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Quando
già si vedeva di fronte al plotone d’esecuzione, a fumare l’ultima
sigaretta in attesa delle pallottole fatali, l’avevano liberato e
rinviato alla sua unità d’appartenenza.
Cosa
fosse accaduto, e perché, soprattutto, non gli era dato di saperlo.
Aveva sempre fornito le stesse risposte alle domande dei vari
interrogatori, anche perché obiettivamente non sarebbe stato in
grado di fornirne altre. Fino a un certo punto non erano andate bene,
poi a un tratto, non sapeva perché, la cosa era cambiata.
Niente
più domande e ovviamente niente spiegazioni. Da domani riprenderà
servizio, arrivederci e grazie.
Non
riusciva a liberarsi della sensazione di essere un bambino che ha
scoperto il trucco della lanterna magica: non c'erano figure fatate
che si inseguivano sulle pareti di una stanza buia, c'erano
semplicemente un proiettore con una lente, un fornellino a spirito
che produceva luce e una serie di immagini stampate su vetro.
O,
fuor di metafora, lo scontro uomo contro uomo – o esercito contro
esercito, o aeroplano contro aeroplano – era solo l'epifenomeno di
forze immani e perlopiù sconosciute, che muovevano i soldati come un
burattinaio avrebbe fatto con le marionette.
Von
Clausewitz, puro e semplice. E dire che l'aveva anche studiato in
accademia. Il soldato
esiste, si nutre e marcia unicamente per combattere al posto giusto
nel momento giusto. O
anche, cosa che si attagliava senza dubbio al modo di agire
dell'agente segreto: la
guerra è un atto di forza, e non c'è nessun limite all'uso di essa;
l'una parte impone la propria legge all'altra.
L'autocarro
sobbalzò, obbligandolo ad afferrare una centinatura per mantenersi
in equilibrio. Ripensò alla disordinata fuga a bordo dell'ambulanza
inglese e quasi si trovò ad attendere l'ormai familiare stretta sul
braccio che l’uomo gli elargiva nei momenti di tensione.
Emise
un sospiro.
Era
sicuro che fosse stato lui a intervenire in suo favore,
essenzialmente perché era l'unico che sapeva com'erano andate le
cose. Come avrebbero potuto, infatti, la giovane donna o l’uomo che
aveva incontrato a Berna, venire a conoscenza di quello che era
successo? Ad altri ufficiali non aveva detto nulla, quindi anche se
essi fossero stati a loro volta in contatto con i servizi segreti,
non avrebbero potuto riferire alcunché della missione.
Era
stato lui per forza.
Sulle
prime gli era parso impossibile che un uomo così prosaico e freddo
spendesse tempo ed energia per lui: lo strumento non più utile
veniva abbandonato, senza rimpianti e senza sentimentalismi, questa
era la filosofia che credeva di aver colto negli agenti segreti fino
a quel momento incontrati.
Poi
aveva capito che quell’uomo – il Werwolf
– era tutt’altro che prosaico e freddo. Gliel’aveva dimostrato
in tante occasioni, in realtà. L’aveva salvato quando avrebbe
potuto lasciarlo indietro, si era preoccupato per lui, l’aveva
difeso. Gli pareva che in alcune occasioni gli avesse addirittura
dimostrato una tenerezza ruvida, che scaldava e rinfrancava come un
sorso di vino forte.
Il
paesaggio cominciò a diventargli familiare. Riconobbe una piccola
macchia di alberi che la guerra aveva lasciato indenne e il laghetto
dove alla fine delle giornate di volo andava a pescare o a nuotare
con i camerati. Intravide in lontananza la sagoma chiara di una
dimora patrizia abbandonata, danneggiata qua e là da colpi di obice,
con gli stucchi ornamentali ormai anneriti e le finestre ridotte a
buchi informi.
Ricordò
che una volta si era addentrato in quel vecchio palazzo. Gli arredi
erano stati perlopiù asportati, dalle pareti pendevano lunghi
brandelli di tappezzeria. Nelle grandi stanze vuote i passi
risuonavano come in un mausoleo.
Al
centro di quello che doveva essere stato il salone delle feste, si
era imbattuto in un pianoforte a coda. Non era stato toccato, forse
perché tra tutti coloro che avevano depredato la villa, nessuno avrebbe
saputo cosa farsene. Fatto sta che era là, proprio sotto una
catena che una volta doveva aver sorretto un grande lampadario di
cristallo.
Un
po' di foglie secche, retaggio dell'autunno precedente, rotolavano
frusciando sugli intarsi a palladiana, spinte da refoli di vento. Una
tenda strappata ondeggiava lieve.
Affascinato
da quell'insolita scenografia, si era avvicinato allo strumento. Era
un gran coda da concerto, un Bösendorfer. Per quanto il pianoforte
avesse sempre rappresentato per lui un fastidio che lo distoglieva
dalle ben più gratificanti attività marziali, aveva provato una
sensazione quasi di imbarazzo al pensiero di un oggetto di tale
pregio lasciato ad ammuffire in quel modo.
Si
era seduto sullo sgabello e aveva sollevato il coperchio della
tastiera, mettendo a nudo il familiare alternarsi di avorio bianco e
nero.
Ispirato
dall'aura di lenta decadenza del luogo, aveva eseguito la sonata
'Quasi una fantasia'. Per la prima volta in vita sua, si era talmente
concentrato sulla musica che solo alla fine del primo movimento si
era reso conto che intorno a lui, a rispettosa distanza, si era
radunato un cerchio di camerati della Jasta, soldati di fanteria e
civili francesi che lo ascoltavano in un silenzio religioso.
Aprì
e chiuse nuovamente le mani, strinse i pugni fin quasi a far
scrocchiare le giunture. L'autocarro aveva imboccato la strada che
conduceva dritto al campo, ormai erano arrivati. Sorrise fra sé e sé
al pensiero di rivedere volti conosciuti e si guardò intorno alla
ricerca dei suoi pochi effetti personali. Si augurò che le sue cose
fossero ancora dove le aveva lasciate, nella camera al secondo piano
della villa padronale che fungeva da alloggio per i piloti.
Nel
posto dove l'avevano trattenuto – una via di mezzo tra una prigione
e un ospedale – gli avevano dato un'uniforme tedesca senza gradi o
mostrine, giusto per non lasciarlo con i panni inglesi addosso, ma
aveva nostalgia della sua Ulanka[1].
Il
camion rallentò fino a fermarsi. Da fuori provenne una voce che gli
suscitò un empito di gioia: “È l'ora di arrivare? Sono tre giorni
che aspetto i miei ricambi!”
Il
tenente saltò giù dalla sponda del veicolo ed esclamò: “Kramer!”
Il
robusto capo-meccanico strizzò gli occhi cercando di capire chi
fosse.
“Kramer,
sono io!” ripeté von Knobelsdorff. “Non si ricorda più di me?”
Il
sottufficiale si tolse il Krätzschen[2] e si grattò la testa
perplesso, poi, quando il giovane ufficiale gli si fu avvicinato,
perplesso disse: “Signor tenente?” Tacque per qualche secondo,
squadrandolo da capo a piedi, poi contrito proseguì: “Scusi i miei
occhi signore, da lontano ormai ci vedo male. Cosa ci fa vestito in
quel modo, signore?”
“È
una storia un po' lunga,” rispose von Knobelsdorff, il cui
entusiasmo cresceva di attimo in attimo. “È arrivato il nuovo
aereo per me?” Sogguardò alle spalle del meccanico, cercando di
scrutare l'interno dell'hangar.
L'altro
si grattò di nuovo la testa. “Ecco...”
Il
tenente lo fissò attento. “Sì?”
“Il
maggiore von Stade non è più con noi. Lo sa, questo, signore?”
“Me
l'hanno detto.”
Kramer
lo fissò di nuovo. Era evidente dalla sua espressione che stava
cercando di comporre i pezzi di un rompicapo piuttosto complicato.
“Ho
perso la mia uniforme,” gli venne in aiuto il tenente.
“Oh,
già. Certo,” assentì l'altro. “Comunque, l'abito non fa il
monaco. Non è così che si dice, signore?”
“Sì,
direi di sì. Ma stavamo parlando degli aerei...” Di nuovo von
Knobelsdorff allungò il collo per cogliere uno scorcio dell'hangar.
L'altro
si strinse nelle spalle e per tutta risposta chiese: “Ora dovrà
andare a parlare con il nuovo comandante, non è così?”
“Certo,
per l'assegnazione e tutto quanto.” Poi, dopo una pausa: “Perché?”
“Beh...”
Il
tenente aggrottò le sopracciglia, lo strano atteggiamento del
capo-meccanico, così diverso dalla solita cordiale pacatezza, lo
rendeva decisamente sospettoso. “Vado subito a parlare col
Vecchio,” annunciò.
Fece
per dirigersi verso l'edificio del comando, ma l'altro lo prevenne:
“Aspetti, signore.”
“Che
c'è?”
“Il
signor capitano è in volo.”
Von
Knobelsdorff lo fissò interdetto. Anche il maggiore von Stade
volava, ovviamente, ma a quell'ora di solito era nel suo ufficio a
sistemare la burocrazia.
Stava
per aprire bocca quando qualcuno da lontano esclamò: “Max? Sei
proprio tu, Max?”
Egli
si girò in quella direzione mentre un sorriso gli si allargava sul
volto: avrebbe riconosciuto quella voce fra mille. “Herbert!”
esclamò.
“Max!”
Il
tenente Hoffmeyer lo raggiunse. Aveva un braccio al collo e una
medicazione sulla fronte. “Maximilian!” ripeté. Si fermò di
fronte a lui e gli appoggiò la mano sana sulla spalla. “Dov’eri
finito?” gli chiese.
“Uhm…
niente di speciale,” rispose von Knobelsdorff. Si prese qualche
secondo per elaborare una scusa credibile, quindi proseguì: “Facevo…
ho fatto l’istruttore.”
L’altro
lo fissò perplesso. “L’istruttore?” ripeté poco convinto.
“Per
la figlia di un generale che vuole diventare aviatrice. Ma non dirlo
a nessuno, eh.”
“Oh,
ma certo.” Hoffmeyer alzò le sopracciglia con l’aria di chi ha
capito tutto. “Le hai lasciato la tua uniforme per ricordo?”
Von
Knobelsdorff avvampò. “Herbert!”
“Sì
sì, Herbert,” sghignazzò il collega. “Sai le risate che si
farebbe Behringer, se fosse ancora con noi?”
Un’ombra
passò sul viso dell’altro. “Non c’è più?”
Hoffmeyer
alzò le spalle. “Caduto poco dopo von Stade.” Sospirò, poi
soggiunse: “Un gran peccato, con le sue battute avrebbe reso più
facile sopportare il nuovo comandante.”
“Ogni
Vecchio ha le sue manie.”
“Dici
così perché non hai ancora conosciuto il capitano Walther Kunz.”
Von
Knobelsdorff non rispose. Bastava che quel Kunz lo facesse volare,
poi poteva essere anche un ottentotto con l’anello al naso e non
gliene sarebbe importato nulla. “Tu, piuttosto, che cos’hai fatto
al braccio?” chiese al collega.
Hoffmeyer
emise un teatrale sospiro. “Niente figlie di generali per me.”
“Oh,
insomma...”
“Volevo
dire: solo un colpo di striscio.”
“E
in fronte?”
“L’atterraggio.
Con il braccio fuori uso ho toccato storto, e il carrello...” Con
la mano sana fece un segno di croce a mezz'aria, come a sancire
l'ineluttabile fine dell'apparato.
I
due si incamminarono verso gli alloggi. Von Knobelsdorff si guardava
intorno: qualcosa di ineffabile gli stava comunicando una sgradevole
sensazione di estraneità. A una prima occhiata era tutto a posto,
gli hangar erano ordinati e puliti, l'erba della pista era rasata,
gli avieri se ne andavano attorno indaffarati. La manica a vento
ondeggiava lenta, di fronte alla baracca bianca e rossa i segnalatori
prendevano il sole in attesa degli aerei in rientro dalla missione.
Però
era come se ci fosse più silenzio, come se nell'aria aleggiasse una
generica idea di cautela, di serietà grave.
O
forse il cambiamento era suo. Non era obiettivamente la stessa
persona, dopo tutto quello che era successo, e quasi si rammaricò di
aver perso quella che d'acchito gli parve come una specie di
spensieratezza, come un'innocenza che forse gli nascondeva certi
aspetti delle cose, ma di sicuro gliele faceva vivere con più
leggerezza.
Fino
a poche settimane prima, volare era stato solo uno sport pericoloso
ma appassionante. C'erano il suo aereo, un bravo meccanico che glielo
sistemava e dei camerati con i quali festeggiare le vittorie, oppure
onorare i caduti. Nient'altro gli interessava.
Ora,
per quanto si sforzasse, non riusciva più a recuperare quella
serenità noncurante. Anelava sempre al volo e al combattimento, ma
la lanterna magica non era più magica, per così dire.
Mostrava
immagini affascinanti, ma sottese da precise leggi fisiche.
La
voce di Hoffmeyer lo richiamò alla realtà: “Max?”
Egli
quasi trasalì. “Che c’è?”
“Stavo
dicendo che ormai dovrebbero rientrare.”
“Chi
è rimasto dei vecchi?” chiese von Knobelsdorff, e si rese conto
che stava chiamando ‘vecchi’ gente che aveva visto per l’ultima
volta poco più di venti giorni prima.
Il
collega alzò le spalle. “Quasi tutti, in realtà. Marquardt, per
esempio. Poi ci sono anche Eschmann e Keinhofer. Lohmann è in
licenza.” Sollevò le sopracciglia con aria significativa.
Von
Knobelsdorff si fece di colpo attento. “Otto vittorie?” chiese.
“Otto
vittorie,” confermò Hoffmeyer. “Il caro Bernd è diventato un
asso.”
“Spero
che si ricorderà di portare qualcosa con cui brindare, quando si
degnerà di ridiscendere fra noi mortali.”
“Figurati
se Lohmann si dimentica di portare da bere.”
Hoffmeyer
stava per aggiungere altro quando nell'aria cominciò a farsi udire
un lieve ma ben noto ronzio.
Entrambi
si girarono verso la testata pista: all'orizzonte era comparso un
nugolo di puntini scuri.
“Stanno
rientrando,” disse von Knobelsdorff.
L'altro
scrutò per qualche secondo, poi rispose: “Già. Mi sembra che ci
siano tutti.” Tacque per qualche secondo, senza distogliere lo
sguardo dai puntini, che cominciavano a delinearsi come aeroplani. A
un certo punto, come se d'improvviso di fosse ricordato di una cosa
importantissima, disse: “E tu vatti a mettere un'uniforme decente.
Non vorrai presentarti al comandante conciato così, spero.”
§
Gli
aerei atterrarono uno dopo l'altro. Von Knobelsdorff, di nuovo con la
sua divisa da tenente degli ulani, li osservava toccare terra e
rullare sulla pista.
Riconobbe
subito quello di Marquardt e quello di Keinhofer, inconfondibili per
le vistose personalizzazioni. Gli parve di individuare anche quello
di Eschmann, che su ogni aereo che gli veniva assegnato faceva
scrivere le iniziali della fidanzata.
Poi
ne vide uno che a malapena aveva i simboli di nazionalità e una
mimetizzazione standard, ancora meno caratterizzato di quello che era
appartenuto a von Wasserberg.
Aggrottò
le sopracciglia perplesso. Dipingere scritte o immagini sugli aerei
era un'abitudine consolidata. Un apparecchio così ostentatamente
privo di personalizzazioni gli comunicava una sgradevole sensazione
di estraneità e disagio.
L'aereo
rullò fin davanti all'hangar, il motore si spense e l'elica si
fermò.
Von
Knobelsdorff mise le braccia dietro la schiena come faceva sempre
quando contemplava qualcosa che per qualche aspetto sfuggiva alla sua
comprensione.
Hoffmeyer,
comparso al suo fianco, disse: “Quello è il capitano Kunz.”
Dall'aereo
stava scendendo un uomo di altezza media. I pesanti indumenti in cui
era infagottato non consentivano di distinguere altro della sua
figura. Si tolse la cuffia da pilota rivelando una capigliatura
castana.
“Vado
a presentarmi,” annunciò von Knobelsdorff, e senza aspettare la
risposta del collega partì a grandi passi verso il nuovo arrivato.
Deciso
a fare bella impressione, scattò sull'attenti di fronte all'uomo,
eseguì un saluto da manuale e a voce alta e chiara scandì: “Tenente
Maximilian von Knobelsdorff a rapporto, signore!”
L'altro
rispose al saluto senza tradire alcuna emozione. Lo squadrò dal
basso in alto e alla fine freddamente proferì: “Ho letto le sue
note caratteristiche.”
Indeciso
su cosa replicare, il tenente rimase in silenzio.
“Mi
segua,” ordinò allora l'altro. Prese a camminare a passo veloce
verso l'edificio del comando. “So che era in missione riservata e
non mi interessano i particolari,” diceva frattanto, “mi preme
molto di più che lei recepisca il nuovo spirito di questa Jasta.”
“Sarebbe
a dire, signore?”
Senza
voltarsi, l'altro spiegò: “Non mi interessano i galletti con le
belle uniformi, non mi interessano le patacche blu da portare al
collo. Qui si combatte.”
Il
tenente abbassò gli occhi sui propri panni, stupito da quella che
gli pareva una durezza del tutto immotivata. Alla fine rialzò lo
sguardo e rispose: “Non ho mai pensato di fare voli da diporto,
signore. Abbattere il nemico è ciò che mi prefiggo ogni volta che
mi alzo da terra.”
“Oh,
li conosco, quelli come lei. Gente che a momenti fa montare un
pallottoliere sull'aereo, per controllare costantemente quanto manca
all'agognato Pour le Mérite.” Tacque per qualche secondo, poi
sprezzante soggiunse: “Non vi interessa altro.”
Perplesso,
von Knobelsdorff optò di nuovo per un cauto silenzio.
Nel
frattempo avevano raggiunto la costruzione.
“Mi
segua,” ripeté Kunz. Si diresse verso l'ufficio che era aveva
occupato anche von Stade. Il tenente notò che dalle pareti erano
spariti tutti i quadri a parte il ritratto dell'Imperatore, ed era
rimasta solo la sedia dietro la scrivania. Un eventuale interlocutore
del capitano avrebbe dovuto stare in piedi.
Il
comandante appese gli abiti di volo a un attaccapanni che si trovava
in un angolo, rivelando un'uniforme della fanteria. Aveva un
distintivo di ferita di prima classe, la croce di ferro di prima e
seconda classe e il distintivo da assaltatore.
Andò
a sedersi alla scrivania.
Von
Knobelsdorff si mise di nuovo sull'attenti, mantenendo lo sguardo
fisso verso un punto indefinito dietro le sue spalle.
Kunz
disse: “Siamo in guerra, non a un torneo sportivo. Non mi
interessano le classifiche dei cosiddetti assi, mi interessa che la
mia Jasta infligga danni al nemico.”
Von
Knobelsdorff, che superato il primo momento di stupore stava
cominciando a indispettirsi, con voce tagliente replicò: “Ritengo
che le due cose coincidano, signore: gli assi sono i piloti che hanno
abbattuto più aerei nemici.”
“Ma
certo, e siccome conta il numero e non il tipo, i furbastri si vanno
a cercare i postali, gli osservatori e tutti quelli che si possono
abbattere con poco sforzo.”
Il
tenente strinse le labbra, a quel punto assolutamente indignato.
“Questo non è vero,” replicò poi tagliente. “A nessuno
interessa una decorazione guadagnata abbattendo avversari di scarso
valore.”
Kunz
lo fissò serio, senza preoccuparsi di nascondere la sua
disapprovazione. Infine disse: “La veda come vuole, tenente, basta
che obbedisca ai miei ordini. Lei non è un cavaliere della tavola
rotonda, ma un ufficiale impegnato nello sforzo bellico. Si regoli di
conseguenza.”
“Potrebbe
essere più chiaro, signore?”
“Non
mi interessano gli abbattimenti confermati,
mi interessa che il nemico finisca a terra e non si muova più. Se
non ci sono testimoni fa lo stesso, si accontenterà dell'intima
soddisfazione di aver reso un servizio alla Patria. E ora, si ritenga
congedato.”
Von
Knobelsdorff uscì dal colloquio piuttosto perplesso. Avrebbe voluto
chiedere al Vecchio se era arrivato un nuovo aereo per lui e se
poteva riprendere i voli di guerra, ma si era trovato in corridoio
prima ancora di poter elaborare una sola delle domande che si era
preparato.
Uscì
dall'edificio del comando per dirigersi verso gli hangar. Quando fu
all'esterno, Hoffmeyer lo raggiunse e gli chiese: “Ora che non ci
sono orecchie indiscrete in giro, che ne pensi di Kunz?”
La
replica gli uscì dal cuore: “È matto?”
L'altro
alzò le spalle. “Pensa di essere l'unico che vola per abbattere
gli inglesi.”
“Perché
noi invece cosa facciamo? Raccogliamo fiori di campo?”
“Secondo
lui ci interessa solo ottenere il Pour le Mérite.”
Come
aveva già fatto notare al capitano, von Knobelsdorff disse: “Le
due cose sono correlate. Il Pour le Mérite viene conferito
all'abbattimento di otto aerei nemici.”
Hoffmeyer
scosse la testa come di fronte all'ineluttabile, quindi rispose:
“Bah, che vuoi farci. Certa gente dovrebbe restarsene in trincea.”
“Non
ha la nostra mentalità.”
“No
davvero.”
Proseguirono
fianco a fianco. Von Knobelsdorff ripensò a una frase dell'agente
segreto: La mia
priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata.
Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare
per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Considerò
che probabilmente lui e Kunz si sarebbero trovati d'accordo su tante
cose.
Si
chiese dove fosse, e di nuovo involontariamente sogguardò i
dintorni, come aspettandosi di vederlo spuntare da qualche parte.
Rievocò
la sua stretta sul braccio, il suo modo secco, sbrigativo di
intimargli il silenzio, e si trovò con stupore a sorridere fra sé e
sé.
La
voce di Hoffmeyer lo fece quasi sussultare: “Pensi alla tua bella
aviatrice?”
“Basta
con quest'aviatrice!”
“Avevi
una faccia...”
§
Von
Knobelsdorff riaprì gli occhi. Guardò fuori dalla finestra e si
accorse che il cielo aveva già i colori del crepuscolo.
Si
mise seduto. Gli era bastato stendersi sul suo letto – mi
riposo giusto dieci minuti
– per cadere in un sonno profondo. Non era nemmeno sceso per il
pranzo e i colleghi, evidentemente, non avevano mandato l'ordinanza a
chiamarlo. Forse avevano pensato che avesse più bisogno di dormire
che di mangiare.
Si
chiese come fossero i pasti, con quella specie di Cerbero a
capotavola. Probabilmente qualcosa di simile a un refettorio di
trappisti, silenzioso e cupo.
Facce
chine sui piatti, qualche acciottolio di stoviglie. Il frusciare
furtivo di un tovagliolo.
Si
alzò, fece qualche passo nella stanza che gli era stata assegnata.
La sua roba era ancora tutta lì, nessuno aveva toccato nulla.
C'erano persino i suoi libri allineati su una piccola mensola.
Scese
nella sala comune. Marquardt stava leggendo un giornale. Vicino alla
finestra c'erano Eschmann e uno che non conosceva impegnati nella
rievocazione di un combattimento aereo. Tenendo le dita unite e le
mani estese a simulare gli aerei, il primo si sbracciava per mostrare
all'altro i momenti salienti del duello.
Altri
due stavano giocando a scacchi.
Di
nuovo lo pervase una sensazione d'incertezza. Da una parte era tutto
come prima, dall'altra non lo era più, e non capiva se la questione
fosse legata all'impronta che il nuovo comandante aveva dato alla
Jasta o a quella che l'agente segreto e la missione dietro le linee
avevano dato a lui.
Forse
le due cose, stabilì.
Andò
al biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera e fece qualche tiro
svogliato. Per un po' seguì le biglie che rotolavano qua e là, poi
la voce di Hoffmeyer attirò la sua attenzione: “Pensi a lei?”
Von
Knobelsdorff sentì le guance andargli a fuoco. “Ti avevo chiesto
di non parlarne,” sibilò.
Il
collega alzò le spalle. “Nessuno ci sta ascoltando.”
“Comunque
evita l'argomento, per favore.”
Hoffmeyer
assunse un'espressione innocente. “Perché?”
“Non
vorrei che gli altri sentissero.”
“Perché?”
“Herbert...”
L'altro
emise un teatrale sospiro. “E va bene, quanto la fai lunga. Andiamo
fuori a fare un giretto?”
“Ma
io...”
“Dai,
usciamo. Una boccata d’aria ti farà bene.”
La
pista era sgombra, attraversata da lievi refoli di vento. Nel
silenzio della sera, si udivano da lontano il cicaleccio dei
meccanici e il battere ritmico di un martello. Echeggiò una risata,
seguita da un paio di frasi dal tono allegro.
Qualcuno
fischiettava da qualche parte, nel fondo dell’hangar.
I
due camminarono per un po’ fianco a fianco, poi d’un tratto
Hoffmeyer chiese: “Pensi a lei?”
Von
Knobelsdorff quasi sobbalzò. “No davvero,” disse in tono
tagliente.
“Non
ci sarebbe niente di male.”
“Non
sto pensando proprio a nessuno, va bene?”
L’altro
non replicò. Dopo un po’ von Knobelsdorff, anche per stornare il
discorso dalla cosiddetta ragazza, chiese: “Dici che il Vecchio
domani mi farà volare?”
“Mi
stupirebbe il contrario,” rispose Hoffmeyer, poi, imitando il tono
severo di Kunz, aggiunse: “Crede forse di essere qui per fare una
vacanza, tenente? Crede che ci siano figlie di generali a cui
insegnare i rudimenti del volo?”
“Ti
ho detto basta!” esplose von Knobelsdorff.
Il
collega si fermò, costringendolo a imitarlo. A quel punto gli
chiese: “Dì un po’, che ti prende?”
L’altro
scosse la testa. “Scusami.”
“Sei
sicuro di stare bene?”
“Sì,
perché?”
Hoffmeyer
alzò le spalle. “Non lo so, sei strano.”
“Sono
come al solito.”
Continuarono
a camminare in silenzio. Nella luce che andava scemando, la baracca
dei segnalatori era una sagoma scura, in cui si intravedevano come
aloni indistinti gli scacchi bianchi e rossi. La brezza era caduta e
la manica a vento pendeva immobile.
Da
qualche parte, un usignolo cominciò a gorgheggiare.
A
quel punto, Hoffmeyer chiese: “Lei com’è?”
Von
Knobelsdorff alzò gli occhi al cielo, maledicendo il momento in cui
si era inventato la figlia del generale che voleva diventare
aviatrice. Emise un sospiro sconsolato e disse: “Se te la descrivo,
poi tu la smetti di tirare fuori l’argomento?”
“E
va bene.”
“D'accordo,
prima iniziamo e prima finiamo. È
un po’ più alta di me.”
“Ah,
però. È una vera valchiria, ecco perché vuole imparare a volare.
Ed è formosa?”
Si
prese qualche secondo prima di rispondere. “No, non direi proprio,”
proferì alla fine.
“È
un uomo, per caso?”
Von
Knobelsdorff scattò come se l’avesse punto una vespa. “No
davvero! Come ti viene in mente una cosa del genere?”
“Mah…
è più alta di te, non è formosa...”
“È
bionda, va bene? Biondo dorato, come il grano. E gli occhi sono
grigi, ma quando ride si accendono di sfumature azzurre.”
“Oh…
si
accendono di sfumature
azzurre?”
“Certo,
che c’è di strano?”
“C’è
che sei innamorato cotto della tua bella valchiria, amico mio!”
[1]
La giubba dell'uniforme da ulano.
[2]
Colloquialmente, berretto di truppa e sottufficiali.
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