Gente
mia,
ecco
un altro po’ di mappazza, sperando che non siate ancora stanchi
delle disavventure del nostro tenente.
Ringrazio
molto tutti coloro che mi stanno seguendo, con particolare trasporto
affettivo nei confronti di chi è così gentile da lasciarmi anche un
commento.
Enjoy
(si spera^^)
Sdraiato
nel suo letto, le braccia dietro la nuca, von Knobelsdorff rifletteva
sulle parole dell’amico. Cosa gliene importava, in fondo, se
Herbert lo credeva invaghito di una inesistente valchiria-aviatrice?
In
teoria, nulla.
Era
un’ottima scusa, anzi, in grado di far passare ogni sua reticenza
per delicatezza da gentiluomo.
Senz'altro
l'agente segreto avrebbe saputo fare buon uso di una faccenda del
genere.
Ripensò
a quando, in paramenti sacerdotali, era riuscito a convincere una
mezza compagnia di soldati inglesi che si trovava sul loro stesso
treno per portare il conforto della fede ai combattenti delle
trincee.
Oppure
a quando, con la massima disinvoltura, si era fatto passare per un
invertito che voleva trascorrere un'ultima notte con il suo amante.
A
quel ricordo sentì qualcosa di strano pungolarlo. Gli tornò in
mente il momento il cui l'uomo, per rendere la recita più credibile,
l'aveva baciato sulla tempia.
Con
suo stupore, la cosa non gli suscitò il disgusto che si sarebbe
aspettato.
In
un empito inconfessabile persino a se stesso, anzi, si trovò a
chiedersi cosa sarebbe successo se in quel frangente avesse girato il
viso, intercettando le sue labbra con le proprie.
L'enormità
di quell'idea gli fece letteralmente balzare il cuore nel petto. Si
rigirò sul materasso ed ebbe quasi la tentazione di tirarsi le
coperte sulla testa, come faceva da piccolo quando era spaventato da
qualcosa.
“Herbert,”
sussurrò.
Dal
letto accanto al suo provenne un grugnito.
“Herbert?”
“Dormi.”
Imperterrito,
von Knobelsdorff chiese: “Senti, ma è vero quello che dicevi
oggi?”
L'altro
sporse una mano dalle coperte e palpò il comodino alla ricerca della
scatola di fiammiferi. Ne prese uno e con quello accese una candela
infilata in una bottiglia vuota. Alla fine dell'operazione si voltò
verso di lui e perplesso ripeté: “Quello che dicevo oggi?”
“Che
sono strano.”
“Se
ti comporti così, indubbiamente mi aiuti a convincermene.”
Von
Knobelsdorff si limitò a emettere un sospiro.
Hoffmeyer
scosse la testa e gli disse: “Maxmilian, senti, non ha nessun senso
rimuginare su di lei nel cuore della notte. Domani dobbiamo andare in
volo e non possiamo permetterci di essere stanchi.”
Egli
non replicò. Avrebbe voluto rispondergli che non c'era nessuna
'lei', che erano altri i dubbi che lo tormentavano, ma all'ultimo
preferì tacere. Emise un sospiro e disse: “Va bene, scusa se ti ho
disturbato.”
“Vedi
di dormire, Max.”
“Va
bene.”
La
candela si spense. Hoffmeyer si raggomitolò di nuovo sotto le
coperte, avendo cura di girargli la schiena.
Von
Knobelsdorff tornò a sdraiarsi con le braccia dietro la testa, ma il
sonno non ne voleva sapere di arrivare. Al suo posto c'erano pensieri
di ogni genere che, come sempre accade di notte, si sottraevano a
ogni suo tentativo di controllo.
Riandò
con la mente agli anni dell'accademia militare.
Gli
Spartiati sono gli allievi migliori dell’accademia. I più bravi in
ogni materia, i più dotati nelle discipline sportive. C'è chi dice
che condividano con l'élite guerriera di cui hanno scelto il nome
anche una particolarità che non si può menzionare, ma sono
senz'altro malelingue, invidiose delle loro maggiori capacità.
Friedrich
von Wangenheim è il migliore degli Spartiati. Nella lotta nessuno
può tenergli testa, sa portare all'obbedienza anche il cavallo più
riottoso. Con una spada in mano, sembra l’arcangelo Michele che
combatte contro Satana.
Egli
lo guarda mentre in sella a un vigoroso baio affronta una doppia
gabbia che ha avuto ragione di ogni cavaliere prima di lui.
Von
Wangenheim porta l'animale a raccogliere l'andatura, accumulando
potenza in vista del salto. Il baio si raccoglie e vola sul primo
verticale senza nemmeno sfiorarlo. “Voglio vederlo sull'oxer,”
dice un allievo che come lui sta seguendo il percorso dello
Spartiate.
La
muscolatura del baio si tende, l'andatura si accorcia mantenendo però
il vigore. L'animale supera anche quell'ostacolo con facilità.
Egli
sposta lo sguardo dal potente animale al volto concentrato del
cavaliere. Lo vede stringere le labbra e aggrottare appena la fronte
in vista del terzo elemento della gabbia. Mani e busto cedono in
avanti dando spazio al cavallo, che di nuovo sembra volare con
facilità sull'ostacolo.
Vorrebbe
entrare anche lui in quel gruppo esclusivo.
Veramente
non sarebbe consentito ai ragazzi del suo anno, dovrebbe aspettare
come minimo il successivo. Von Wangenheim però gli ha sempre
dimostrato una considerazione particolare, che ad altri non riserva.
Duella con lui, ad esempio, gli concede incontri di lotta. Una volta
sono anche andati a nuotare insieme al fiume e poi si sono stesi nudi
sulla rena ad asciugarsi, uno accanto all'altro.
È
sicuro che accetterà di metterlo alla prova.
Glielo
chiede mentre von Wangenheim, ancora una volta trionfatore, sta
uscendo dal recinto con il cavallo alla mano.
Questi
lo fissa serio, così a lungo che a un certo punto lui si convince
che lo manderà via, ma alla fine semplicemente dice: “Domani sera,
all'ala est.” E poi prosegue verso le scuderie.
Il
cuore gli balza nel petto. “Ci sarò!” gli assicura con calore, e
a quelle parole ha come l'impressione di suscitare anche nell'altro
un calore particolare.
L'ala
est è vuota, forse in attesa di lavori di ristrutturazione. È un
susseguirsi di stanze immense, dai soffitti altissimi, nei quali si
indovina il biancheggiare di stucchi ornamentali.
Dalle
finestre entrano i raggi freddi e senza colori di un'enorme luna
piena.
Egli
scruta nel buio, oltre le chiazze di luce lattescente che si
proiettano sul pavimento. Sarà lì von Wangenheim?
Sorride
fra sé e sé. Sa che è li, sa che lo sta aspettando in qualche
punto di quel labirinto silenzioso. Quasi percepisce una strana forma
di inquietudine aleggiare nell'aria: sarà venuto? Avrà il coraggio
di portare a termine la prova?
Sorride
di nuovo, come per rassicurare un invisibile interlocutore, poi si
addentra nel luogo oscuro, traendo cupi echi dai soffitti. Man mano
che procede, sente che si sta lasciando alle spalle tanti elementi
della quotidianità – la luce, il calore, la tranquilla
consuetudine con i camerati – e sta raggiungendo una solitudine
gelida, nella quale troverà se stesso o si perderà per sempre.
Tutto
è immobile e come in attesa.
Egli
procede, raggiunge una scala d'onore i cui gradini si perdono nel
buio. Ai lati di essa, silenti guardiani, due Atlanti di marmo lo
fissano.
Va
oltre, sale, si addentra nelle tenebre e poi ne esce, giungendo a un
salone nel quale di nuovo si riversa la luce argentea della luna.
Sotto
uno strato di polvere si indovinano sul pavimento scacchi bianchi e
neri. Le pareti sono ornate da stucchi d'ispirazione militare.
Al
centro del salone vi è un tavolino. Si avvicina e vede che su di
esso è posata una sciabola sguainata.
La
lama brilla debolmente.
Si
guarda intorno. Sente che von Wangenheim è vicino, molto vicino.
Forse lo sta già tenendo d'occhio. Sta guardando cosa fa, se
raccoglie l'arma, o se scappa spaventato da quella sinistra messa in
scena.
Non
ha attraversato quel misterioso regno dei morti per girarsi e
fuggire: impugna la sciabola, procede.
Si
lascia il salone alle spalle, si addentra in un corridoio oscuro.
Sbuca
in un secondo salone, più grande del precedente. Più ampio, più
solenne. Con echi più cupi.
Von
Wangenheim è lì.
È
in piedi davanti a una finestra, sembra assorto nella contemplazione
della pianura notturna. Impugna una sciabola che tiene lungo la
gamba, con la punta rivolta verso il basso. Egli si accorge dell'arma
solo dal fremito di luce che per un istante ne percorre il filo.
“Ti
aspettavo,” dice lo Spartiate senza voltarsi.
“Sono
qui.”
A
quel punto Friedrich von Wangenheim si gira lentamente. Il viso non
tradisce alcuna emozione. Solleva la sciabola in un elegante saluto e
si mette in guardia.
Egli
capisce che quel solenne invito a battersi è un alto segno di
considerazione. Non è l'assalto scolastico portato avanti in
presenza degli istruttori, ma è un confronto onorevole, senza
esclusione di colpi. Un confronto tra guerrieri.
Solleva
a sua volta la lama nel saluto, accettando il duello con una strana
sensazione di aspettativa.
E
poi esplode la violenza dello scontro.
Il
silenzio cristallizzato – un silenzio che sembra perdurare intatto
da duecento anni – viene scacciato dal clangore delle lame e dagli
ansiti dei contendenti.
I
colpi sono portati a pieno, ogni assalto è esaltazione e bramosia.
Infine
von Wangenheim lo costringe con le spalle al muro. Tira un fendente
che sarebbe letale, ma lui riesce a pararlo bloccando la sua sciabola
con la propria.
Non
ha paura. Il sangue gli romba nelle orecchie, il petto si alza e si
abbassa in respiri che sembrano letteralmente tracannare l'aria
fredda. Si sente vivo come non mai.
Von
Wangenheim gli si fa più vicino, si fissano ansanti al di sopra
dell'incrocio micidiale delle lame. “Combatti bene,” mormora.
Illuminati in pieno dal chiarore lunare, i suoi occhi sono abissi di
fuoco gelido.
“Non
potevo offrirti di meno,” gli risponde.
Le
lame tra loro due sono sempre immobili l'una contro l'altra, senza un
fremito. Croce di acciaio disegnata dalla luce senza colore.
Continuano
a fissarsi negli occhi. Poi le lame cadono a terra con un subitaneo
clangore, rimangono immote sulle pietre nude del pavimento.
I
corpi si avvincono come quelli di due lottatori, le bocche si
uniscono bramose, avide. La vicinanza ideale, prima che fisica, li
stordisce.
Quasi
sussultò a quel ricordo. Istintivamente si fece indietro come se
anche lì, nel buio della sua camera, von Wangenheim fosse accanto a
lui, pronto a baciarlo come aveva fatto quella volta.
Il
pensiero gli spedì lungo la schiena un colpevole brivido di
eccitazione.
Emise
un sospiro sconsolato. Si era sottratto, era stato vile. Aveva
interrotto un bacio che era estasi e perdizione al tempo stesso, ed
era tornato al rassicurante calore della quotidianità, chiedendosi
se in realtà fosse quella la vera prova.
Non
l'aveva più ripetuta, comunque, perché aveva capito in quel
frangente che il passo sarebbe stato senza ritorno.
La
voce di Hoffmeyer lo richiamò bruscamente alla realtà: “La
pianti?”
“Cosa?”
“Ti
stai rivoltando come un bue sul girarrosto. Vatti a fare una
passeggiata se non hai sonno, ma lascia dormire me.”
§
Von
Knobelsdorff contò gli aerei che i meccanici stavano preparando e
dedusse con soddisfazione che ce n'era uno anche per lui.
Nonostante
tutto, l'ebbrezza della caccia nel cielo si stava impadronendo di lui
come di consueto. I muscoli erano tesi, lo sguardo inesorabilmente
calamitato dall'orizzonte, ove si addensava la caligine del fronte.
Laggiù si combatteva, laggiù c'erano aerei nemici.
Nonostante
il discorso che Kunz gli aveva rivolto, calcolò quanti abbattimenti
gli mancavano all'agognata qualifica. Da una parte sorrise fra sé e
sé all'esiguo numero, dall'altra si obbligò alla prudenza: era
proprio quando si arrivava a sei o sette vittorie che l'entusiasmo
soppiantava l’avvedutezza.
Il
tenente considerò che morire in un frangente del genere sarebbe
stato veramente triste.
Guardò
i colleghi che stavano uscendo dagli alloggi. Alcuni avevano già gli
abiti di volo addosso, altri erano inseguiti da attendenti con le
braccia cariche di cappotti e pellicce. Il capitano Kunz camminava un
po' discosto dagli altri, con addosso un pastrano che doveva essere
quello che aveva portato anche in trincea.
Quando
il comandante ebbe raggiunto il suo aereo, i piloti gli si riunirono
intorno.
Von
Knobelsdorff li imitò, prendendo posto nel semicerchio che si andava
costituendo.
Kunz
fissò ognuno di loro dritto negli occhi. Non si soffermò su nessuno
in particolare, dedicando a tutti, con severa imparzialità, lo
stesso sguardo duro e indagatore.
Infine
disse: “Lor signori conoscono gli ordini: compito delle truppe
aeree è impegnare in combattimento e neutralizzare il nemico. Non
voglio sciocche gare tra piloti, voglio efficienza.”
Si
diresse al suo aereo e prese posto nella carlinga. Un meccanico andò
all'elica per la procedura di messa in moto.
Gli
altri si diressero alla spicciolata verso i rispettivi Albatros.
Von
Knobelsdorff individuò quello che gli era stato assegnato, per forza
di cose neutro come quello del comandante, e vi montò sopra pensando
a come avrebbe potuto personalizzarlo. Gli venne in mente un lupo
ringhiante, con il pelo dritto sulla schiena.
La
voce di Kramer lo richiamò alla realtà: “È pronto, signor
tenente?”
Egli
si riscosse. Compì i controlli pre-volo con la disinvoltura
dell'abitudine, quindi azionò i circuiti elettrici ed esclamò:
“Contatto!”
Dal
basso provenne la risposta: “Contatto!” E poi la familiare
vibrazione dell'elica che veniva azionata manualmente.
Sorrise
fra sé e sé mentre il motore cominciava a girare, salutò come
vecchie amiche le lancette degli strumenti che si animavano e
raggiungevano, si sarebbe detto con trepidazione, il loro posto sui
quadranti.
I
meccanici tolsero i tacchi da sotto le ruote, l'aereo prese a rullare
dolcemente sull'erba. Egli si guardò ai lati, controllando la
posizione dei colleghi, e manovrando freni e manetta si diresse verso
la testata pista per il decollo.
Per
primo s'involò il comandante, poi Marquadrt, poi Hoffmeyer...
sorrise di nuovo: era come una magnifica battuta di caccia fra amici,
pericolosa ma esaltante. Raggiunse la posizione di decollo, fece gli
ultimi controlli e poi diede tutta manetta. L'Albatros balzò in
avanti, l'aria cominciò a frustargli il viso.
E
poi ci fu il momento magico in cui l'aereo staccò le ruote da terra.
In quell'istante, a von Knobelsdorff parve che una cappa di piombo
gli cadesse dalle spalle, rendendolo libero, leggero e colmo di
ardore.
La
Jasta volava in formazione compatta. Il fronte ribolliva in
lontananza, velando l'aria tersa di una caligine venefica.
Già
si coglievano le vampate gialle delle esplosioni e gli archi bianchi
che i proiettili incendiari si lasciavano dietro, quegli stessi archi
che di notte aveva visto come fatati zampilli di luce.
Scrutò
il cielo con aspettativa. Sapeva che gli inglesi c'erano, o se non
c'erano sarebbero arrivati a breve.
Controllò
ancora una volta gli strumenti, poi di nuovo sondò l'azzurro. In
alto, dove il ribollire delle esplosioni non giungeva a offuscare il
nitore del primo mattino.
Individuò
qualcosa: punte di spillo che apparivano e scomparivano nell'aria
tersa. Simultaneamente vide l'aero di Kunz guizzare verso l'alto alla
ricerca di quota.
Tutta
la Jasta si animò, gli Albatros schizzarono in ogni direzione. Von
Knobelsdorff diede tutta manetta, continuando a tenere lo sguardo
fisso sul nugolo di puntini, che stavano diventando rapidamente
sempre più visibili.
Salì
fino a che non cominciarono ad assumere le fattezze spigolose di
biplani, poi livellò. Il più avanzato degli inglesi stava già
sparando: vide Marquardt scivolare d'ala e buttarsi nella parabola
ascendente di un looping.
Hoffmeyer
si era già scelto un avversario e così anche Kunz. Lui si guardò
intorno e captò ai margini del campo visivo il guizzo di un Sopwith
Pup: l'inglese gli stava piombando addosso a tutta manetta, i lampi
arancioni sul muso dell'aereo indicavano che gli stava già sparando.
Egli
cabrò rapido, sottrasse bersaglio e con un mezzo looping gli si
portò alle spalle. Sparò a sua volta una raffica, strappandogli
brandelli di rivestimento alare.
L’inglese
derapò per cercare di sganciarsi, ma von Knobelsdorff ormai gli era
stabilmente in coda. Fece partire un altro paio di raffiche. Il
Sopwith Pup sembrò immobilizzarsi nell'aria, poi puntò il muso
verso il basso e cominciò a precipitare lasciandosi dietro una scia
di fumo nero.
Cadde
e rimase immobile. Tutti l’avevano visto, quindi, con buona pace di
Kunz, l’abbattimento era confermato.
“Numero
sette!” gridò. Alzò il braccio in un gesto di vittoria, ma a quel
punto una gragnola di colpi gli attraversò una semiala. Si girò di
scatto e si trovò alle spalle un Sopwith Triplane. Immediatamente si
attaccò alla cloche e fece una brusca virata. Riuscì a evitare la
seconda raffica, ma il triplano gli rimase attaccato alla coda.
Diede
manetta, salì bruscamente di quota, impostando subito dopo una
virata a coltello. Brandelli di rivestimento alare schizzarono via
lasciando in vista una centinatura.
Si
girò di nuovo e gli parve quasi di cogliere l'espressione
concentrata del pilota inglese.
Eseguì
una virata talmente stretta che sentì le strutture dell'Albatros
vibrare, salì ancora, cerò di rigirarsi per affrontare
l'avversario, ma esso non perdeva la posizione, nonostante la minore
manovrabilità del suo aereo.
Peraltro,
essendo più veloce stava anche inesorabilmente accorciando le
distanze.
Diede
manetta, tirò la barra tutta indietro in un brusco looping, poi al
culmine della parabola si rigirò con un mezzo tonneau. L'inglese
parve rimanere disorientato per qualche secondo, ma subito dopo le
sue pallottole ricominciarono a perseguitarlo.
Il
tenente era costretto a fare una manovra dopo l'altra per cercare di
sfuggire a quello che evidentemente doveva essere un asso. Ormai
aveva il rivestimento di un'ala a brandelli e poteva immaginare che i
piani di coda non fossero in condizioni migliori. Un tirante reciso
sbatacchiava a ogni manovra.
Fece
derapare bruscamente l'aereo, virò stretto, puntò il muso verso
l'alto e poi di nuovo lo buttò in basso per arrivare a fronteggiare
il triplano. Per un secondo riuscì a inquadrarlo nel collimatore e a
sparagli una raffica, ma subito dopo l'inglese guizzò via.
Von
Knobelsdorff, ormai sudato e ansante, si guardò disperatamente
intorno, scrutando il cielo alla ricerca dell'avversario. Non sapeva
da quanto stesse andando avanti il combattimento, ma ad ogni manovra
era più stanco e si sentiva sempre più frastornato. Doveva
sganciarsi in qualche modo, oppure entro breve avrebbe commesso
l'errore fatale.
Altri
proiettili gli bucarono l'ala. Si girò e il respiro gli si bloccò
nel petto: l'inglese gli stava piombando addosso dall'alto, col sole
alle spalle.
Un
pensiero gli attraversò la mente come un lampo: è la fine.
Poi
un'ombra passò rapida dietro il triplano. L'aereo inglese parve
sussultare, poi si inclinò, buttò giù il muso ed entrò in vite.
Il
tenente rimase a fissarlo attonito per qualche secondo. Si guardò
intorno per capire chi fosse intervenuto in sua difesa e vide un
aereo dalla mimetizzazione standard, con nient'altro che le coccarde
di nazionalità.
§
Sull'attenti
davanti alla scrivania di Kunz, l'espressione perfettamente neutra,
von Knobelsdorff fissava un punto all'infinito dietro le spalle del
comandante.
Questi
lo squadrò severo per lunghi secondi. Infine, con voce tagliente gli
chiese: “Dove pensava di essere, tenente, alle giostre? Magari
seduto su un cavallino di legno?”
“Nossignore.”
“E
allora come mai si sbracciava come uno stupido nel bel mezzo di un
combattimento aereo?”
Von
Knobelsdorff strinse le labbra. Lo
sa benissimo, il perché,
avrebbe voluto rispondergli, ma preferì rimanere in silenzio.
L'altro
naturalmente non si accontentò. “Allora?” lo sollecitò.
“Esultavo
per aver conseguito la settima vittoria, signor capitano.”
Kunz
sollevò le sopracciglia e si fece addirittura un po' indietro sulla
sedia, come se la notizia l'avesse lasciato sconcertato. “Lei
esultava
per la vittoria
conseguita?”
“Sissignore.”
Il
capitano annuì grave, quindi disse: “Allora lasci che le spieghi
un paio di cose, tenente: in guerra non si esulta ma si compie il
proprio dovere. Non ci sono vittorie da conseguire, dal momento che
non siamo al tiro a segno di una festa di paese, ma obiettivi da
raggiungere e nemici da neutralizzare.” Fece una pausa, poi
decretò: “Fino a nuovo ordine, lei è adibito al servizio a
terra.”
“Cosa?”
esclamò il tenente.
Senza
alzare la voce, Kunz replicò: “Non le ho dato il permesso di
parlare.”
Von
Knobelsdorff ignorò la precisazione e ripeté: “Cosa? Mi lascia a
terra?”
Impassibile,
il capitano proferì: “In volo è un pericolo per sé e per gli
altri.”
“Lei
non può lasciarmi a terra! Io sono un pilota, sono qui per volare!”
“Lei
è qui per eseguire gli ordini. Ora si calmi, altrimenti mi
obbligherà a prendere ulteriori provvedimenti disciplinari nei suoi
confronti.”
“Signore...”
“Si
ritenga congedato, tenente.”
Von
Knobelsdorff abbandonò la stanza furibondo. “Ecco cosa succede
quando si ha a che fare con i borghesi,” ringhiò, a voce
sufficientemente alta da farsi udire al di là della porta.
Era
capitato che von Stade gli avesse salvato la vita, una volta, come
del resto era capitato il contrario. Signorilmente, nessuno aveva mai
fatto pesare la cosa: il salvato aveva offerto all'altro una
bottiglia di buon vino del Reno e la questione si era chiusa con un
brindisi.
Era
partito con le migliori intenzioni, onestamente. Avrebbe voluto
ringraziare il capitano Kunz e offrire anche a lui una bottiglia, ma
evidentemente quel tanghero non aveva idea di come ci si dovesse
comportare tra ufficiali.
Si
chiese se avesse fatto l'accademia o se provenisse dai ranghi, poi
stabilì che in fondo non gli interessava.
Si
allontanò a grandi passi. Servizio a terra, ancora non riusciva a
crederci.
§
Von
Knobelsdorff calciò sconsolato un sassolino, spedendolo a rimbalzare
poco lontano. Alzò gli occhi verso il cielo, poi li abbassò sulla
pista ed emise un sospiro. Era una settimana che saliva sugli aerei
solo per spostarli da un punto all'altro del campo d'aviazione, o per
tirarli fuori dall'hangar al mattino.
Tese
l'orecchio, ma nell'aria vi erano solo qualche cinguettio d'uccelli e
il parlottare di due meccanici che stavano riparando un'ala
danneggiata. Non si udiva ancora il familiare ronzio degli aerei in
avvicinamento.
Si
chiese se il Vecchio avesse intenzione di tenerlo a terra ancora a
lungo. Rivolse uno sguardo velenoso all'edificio del comando e
masticò un'imprecazione, poi si accorse che un piantone si stava
dirigendo verso di lui.
Quando
l'ebbe raggiunto, il soldato si mise sull'attenti e scandì: “Signor
tenente, il Rittmeister[1] von Thurn und Taxis chiede di vederla!”
L'ufficiale
rimase perplesso. Conosceva i principi von Thurn und Taxis, ma solo
superficialmente, perché tra famiglie nobili più o meno ci si
conosceva tutti. Non ne aveva mai incontrato uno di persona.
“Dov'è
questo Rittmeister?” chiese.
“Nella
sala grande, signor tenente.”
Von
Knobelsdorff congedò il soldato e si diresse a grandi passi verso la
palazzina degli alloggi, formulando nel frattempo le più varie
ipotesi: chi poteva essere un capitano di cavalleria sconosciuto che
chiedeva di lui? Era qualcosa che aveva a che fare con la guerra o
con la nobiltà?
Entrò
nella sala grande. C'era in effetti un ufficiale. Era di spalle
rispetto a lui, aveva l'uniforme degli ussari. Era di altezza un po'
superiore alla media, snello, con i capelli biondo grano.
Von
Knobelsdorff si mise sull'attenti e in tono marziale si presentò.
L'altro
si girò.
“Oh!
Ma...” balbettò il tenente, e poi non riuscì a dire altro.
[1]
Capitano di cavalleria.
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