Salve carissimi,
ecco
finalmente la mappazza settimanale. Vi mando di nuovo in onda un
mezzo capitolo, perché dopo la felice parentesi del capitolo
precedente siamo tornati ai soliti standard di lunghezza (ovvero:
“messa cantata”).
Grazie
a tutti coloro che mi seguono, un enorme grazie a chi mi sta
lasciando anche qualche commento.
Capitolo
12
Diretta
in Patria, la tradotta era perlopiù occupata da militari molto
allegri. In fondo al vagone ad esempio si era raccolto un gruppetto
di soldati: uno di essi aveva tirato fuori dallo zaino una concertina
e tutti gli altri cantavano sulle note allegre dello strumento. Una
bottiglia di Schnaps passava di mano in mano.
Un
altro gruppetto, composto perlopiù di feriti in via di guarigione,
sedeva da una parte. Gli uomini si stavano mostrando a vicenda
fotografie di mogli e fidanzate. Qualcuno aveva anche immagini di
bambini, con gli abitini alla marinara e i giocattoli sottobraccio.
Sedevano
qua e là anche degli ufficiali, che nel contesto informale non
disdegnavano sorsi di Schnaps quando passava la bottiglia, né
rifiutavano di ammirare le fotografie che i soldati con fierezza
esibivano.
Un
giovane tenente aveva addirittura tirato fuori l'immagine di una
ragazza, e la mostrava ai soldati. Qualcuno provò a dire sottovoce
che il volto della fanciulla non gli era nuovo, ma fu prontamente
zittito dagli altri.
In
tutto ciò, il tenente von Knobelsdorff sedeva serio accanto a un
finestrino e lasciava vagare lo sguardo sul paesaggio che scorreva
all'esterno.
Aveva
fantasticato tante volte sul Pour le Mérite. Aveva immaginato un
viaggio di rientro trionfale, tra feste, risate, felicità e giusto
orgoglio.
Aveva
immaginato di brindare con i camerati, di accogliere i complimenti e
le congratulazioni di ogni militare in cui si sarebbe imbattuto.
Dalla
base se n'era andato più o meno come un ladro. Era montato sulla
tradotta nello sconcerto dei colleghi, che perlopiù non avevano
nemmeno capito perché partisse.
Quei
pochi a cui nella fretta era riuscito a dire la verità, ovvero che
si recava a Berlino per ricevere l'ambita decorazione dalle mani del
Kaiser in persona, non avevano nemmeno fatto in tempo a fargli le
felicitazioni, in pratica.
La
faccenda non era legata solo all'avversione del suo comandante per la
chincaglieria.
Lui stesso aveva in realtà perlopiù taciuto la faccenda, evitando
di farne menzione se non ai più intimi amici.
Non
l'aveva detto nemmeno al suo colonnello di quando era negli ulani,
che per tanti aspetti era stato per lui come un padre.
Si
chiese perché.
Forse
pensava di non meritarla.
O
forse non era più lo stesso giovane ufficiale, ardimentoso e fiero,
che era stato fino a poco tempo prima. Ardimentoso lo era ancora,
certo. Anche fiero, ovviamente, ma forse in un modo diverso. In modo
più schivo, sobrio, privo di ostentazione. Il Werwolf del resto
sembrava un giovanotto snello, dalle mani delicate, eppure l’aveva
visto con quelle stesse mani uccidere in un istante uomini ben più
grossi di lui.
Come
al solito, rievocò la sua stretta sul braccio: quel contatto rude,
asciutto, che però non mancava mai di suscitargli una struggente
sensazione di calore.
Era
stato senz’altro lui a confermare l’abbattimento.
Tra
le innumerevoli domande che aveva formulato, tutte senza risposta,
c’era anche quella: perché lo aveva fatto? Non ne avrebbe avuto
alcun motivo. Anzi, forse per avere l’abbattimento confermato aveva
anche dovuto rivelare particolari segreti della missione.
Perché,
quindi?
In
quel momento, la comparsa di una bottiglia nel suo campo visivo lo
fece quasi sussultare. “Un sorso, signor tenente?” gli chiese un
artigliere alto forse un palmo più di lui, dall’espressione
gioviale.
Mentre
meccanicamente prendeva lo Schnaps, tornò con la mente all’episodio
del treno inglese. Rivide la disinvoltura con cui il Werwolf aveva
accettato la bottiglia e aveva bevuto, senza un fremito di imbarazzo
o di timore.
Se
avessero scoperto che era tedesco, l’avrebbero fucilato sul posto
come spia.
Una
voce lo riportò alla realtà: “Non vuole bere un sorso, signor
tenente?”
“Grazie.”
Von
Knobelsdorff buttò giù qualcosa che gli parve una palla di fuoco.
Gli sfuggì un colpo di tosse. L'artigliere sorrise e disse: “Forte,
vero? Quando si è in trincea, non c'è niente di meglio per scaldare
le budella.”
A
quel punto si avvicinò un altro artigliere e disse: “Klaus, sei un
cretino: non vedi che è un aviatore?” Poi, rivolto all'ufficiale:
“Lo scusi, signore: non distinguerebbe nemmeno un marinaio da un
fante.”
“Non
fa niente,” disse von Knobelsdorff, desideroso di tornare alle sue
meditazioni. I soldati, però, continuavano ad assieparglisi intorno,
incuriositi dalla sua uniforme elegante e dal distintivo di pilota.
Si domandò se tra loro ci fossero anche quelli che ogni giorno
l'avevano salutato con ampi gesti mentre passava alto sulle trincee.
Uno
di essi gli chiese: “Ha abbattuto degli aeroplani nemici, signore?”
A
quella domanda calò il silenzio, tutti lo fissavano con aspettativa.
Gli offrirono di nuovo la bottiglia.
Egli
bevve un altro sorso, rassegnandosi alla colata incandescente che gli
fece bruciare la gola e lo stomaco, poi rispose: “Sì, qualcuno.”
“E
quanti, signore? Quanti?” chiese un fante che non poteva avere più
di diciotto anni.
“Non
fare il maleducato, Franz!” lo rimbeccò un altro, ma la curiosità
accendeva gli sguardi di tutti. Anche quelli che stavano cantando si
interruppero e si avvicinarono. Le foto di mogli e fidanzate
tornarono nelle tasche da cui erano uscite.
Von
Knobelsdorff fece scorrere lo sguardo sull'improvvisata platea e si
rese conto che rimanere concentrato nei propri pensieri sarebbe stato
un atto di egoismo indegno di un ufficiale. “Sto rientrando in
Germania per ricevere il Pour le Mérite,” disse.
§
Alla
stazione del suo paese, schierata sulla banchina, c'era addirittura
la banda musicale.
Il
tenente scese dal treno sulle note dell'inno nazionale, salutato con
ampi gesti e acclamazioni. Fu accolto dal borgomastro in persona
mentre una folla festante veniva tenuta a distanza dai gendarmi. Le
ragazze lanciavano fiori e baci, qualcuna addirittura fazzoletti con
le cifre ricamate, la gente applaudiva. Chiunque avesse un'uniforme
gli rivolgeva il saluto militare.
Von
Knobelsdorff dovette faticare per non sfiorarsi con le dita l’azzurra
decorazione, che ancora gli pendeva dal collo dandogli la sensazione
di insolito monile. Alcuni alti ufficiali dello Stato Maggiore gli
avevano assicurato che col tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, ma
la sua sensazione era che si impigliasse ovunque, e che i suoi
spigoli lo pungessero a ogni movimento.
Peraltro,
gli sembrava anche terribilmente vistosa. Pacchiana, addirittura.
Non
si era ancora rassegnato al fatto che tutti lo guardassero, che i
padri lo indicassero ai figli come un esempio, che i militari di ogni
arma e grado lo salutassero.
Pian
piano diventerà normale,
si ripeté, ricordando le parole che un generale di corpo d’armata
gli aveva rivolto appena uscito dalla sala delle udienze di Sua
Maestà, quando spaesato si guardava intorno come un animale
selvatico portato in gabbia nel bel mezzo di una festa.
Il
borgomastro gli rivolse un discorso, il reverendo pronunciò una
benedizione, per lui e per tutti gli eroici soldati tedeschi, o forse
prima arrivò la benedizione del prete e poi il discorso del
borgomastro, la sua destra veniva costantemente ghermita e stretta,
perlopiù da sconosciuti, che accompagnavano il saluto con auguri e
alate parole di vittoria...
A
un certo punto si ritrovò di fronte Johann, lo chauffeur di
famiglia, che si mise sull'attenti e disse: “Signor barone,
bentornato.”
Alle
spalle dell'uomo c'era una lucidissima vettura nera, sul cui sedile
posteriore attendeva impettita la baronessa von Knobelsdorff.
Il
tenente rispose al saluto dell'autista, quindi raggiunse la
nobildonna e, rivolgendole un rigido inchino del busto, disse: “Buon
giorno, maman.”
Ella
fece col capo un sobrio cenno d'approvazione. Attese che Johann
aprisse la portiera per il figlio, quindi gli chiese: “Hai fatto
buon viaggio?”
“Molto
buono, grazie. Lei sta bene, maman?”
La
donna assentì e lo invitò a prendere posto al suo fianco, quindi
proseguì: “Sono molto felice di questa licenza, mio caro. Anche
tuo padre dovrebbe rientrare per qualche giorno la settimana
prossima. Sappi che è molto fiero di te.”
Il
tenente non poté fare a meno di sorridere. “Ne sono felice.”
“Gli
hanno permesso di farmi una telefonata dal fronte. Ha detto che da te
non si aspettava di meno, Maximilian.”
Il
giovane si limitò ad annuire. Suo padre, il maggiore generale Ernst
Wilhelm barone von Knobelsdorff, aveva già il Pour le Mérite,
l'Ordine di Hohenzollern, la Croce di Ferro e varie altre medaglie. I
fratelli di suo padre, lo zio Albrecht Konrad e lo zio Hans
Ferdinand, avevano a loro volta importanti decorazioni.
I
fratelli di maman
non erano ovviamente da meno.
La
donna ordinò allo chauffeur di partire, poi disse: “Ci sarà un
ricevimento.”
“Non
è il caso,” si schermì il tenente.
“Tuo
padre ci tiene molto,” fu l'asciutta replica.
Il
giovane non rispose. Dubitava che il ricevimento fosse un'esigenza
del severo genitore, ben più avvezzo al rigore della caserma che
alla mondanità dei salotti. Più probabilmente era la baronessa che
desiderava sfoggiare in una festa l’ennesima decorazione conferita
a un membro della famiglia. “Quando?” si limitò a chiedere.
“Dipende
da quando arriverà tuo padre.”
Il
tenente non aggiunse altro. Si voltò verso il finestrino e lasciò
vagare lo sguardo all’esterno. Riconobbe il campo dove andava a
giocare quando era piccolo. Al limitare della foresta c’era ancora
il vecchio tronco di quercia caduto che aveva tentato di saltare a
cavallo, finendo malamente a terra assieme al destriero.
La
pianura si perdeva in lontananza, punteggiata qua e là dai laghi
cristallini in cui andava a nuotare.
A
quei tempi, la sua più grande preoccupazione era trovare un modo di
asciugarsi i capelli in fretta, in modo che i suoi non si
accorgessero che aveva fatto il bagno con i ragazzi del villaggio.
La
vettura procedeva lungo un viale fiancheggiato da querce. Presto
avrebbe raggiunto la dimora di famiglia e si sarebbe fermata davanti
all'ingresso principale. Il tenente immaginò che ci sarebbe stata
tutta la servitù ad accogliere il signorino,
schierata in due ali lungo la gradinata che conduceva al portone.
Senza dubbio tutti si sarebbero inchinati al suo passaggio, le donne
con una riverenza, gli uomini con un più sobrio piegarsi del busto.
Teoricamente,
ormai avrebbe dovuto essere abituato a certe cose. Erano giorni che
riceveva complimenti e ascoltava discorsi in suo onore. C'era stata
persino la sua fotografia sul giornale, mentre stringeva la mano a
Sua Maestà l'Imperatore.
In
pratica, però, non era fatto per certe cose. Era pronto a
combattere, a morire per la Patria se necessario, ma il disagio di
tutte quelle attenzioni rimaneva invariato.
§
Sdraiato
sul letto della sua camera, le braccia dietro la nuca, von
Knobelsdorff fissava pensoso l’affresco del soffitto. L’aveva
osservato tante volte, nel corso della sua breve vita. Da piccolo,
non capiva nemmeno cosa significasse, guardava più che altro i
colori. Da ragazzino gli piaceva, perché vedere quello significava
essere in vacanza dall’Accademia.
Da
adulto – se poteva definirsi tale – gli evocava sentimenti
contrastanti.
Si
trattava di una scena mitologica: Fetonte che precipita dal carro del
Sole. Vi era un giovane uomo, con un semplice drappo rosso a coprire
appena le pudenda, rappresentato mentre cadeva a testa in giù. Sopra
di lui si trovava un carro tutto d’oro, intorno al quale
scalpitavano quattro cavalli imbizzarriti.
Ancora
più in alto, sullo sfondo di un cielo tormentato, si vedeva Zeus
nell’atto di scagliare una folgore. Non aveva mai capito se Fetonte
stesse cadendo perché colpito da quel fulmine oppure se Zeus
l’avesse scagliato per fermare il cocchio impazzito, una volta che
il semidio ne aveva perso il controllo.
Di
volta in volta, nel corso degli anni, aveva fissato l’attenzione
sui particolari di quell’affresco che lo attraevano maggiormente.
Da bambino si era chiesto se davvero fosse possibile solcare il cielo
a bordo di un carro dorato. Più grandicello aveva ragionato
ossessivamente sul perché i quattro cavalli del cocchio non avessero
tutti lo stesso mantello. Le pariglie di suo padre erano scelte anche
in base a quel criterio, soprattutto quelle destinate a compiti di
rappresentanza, quindi perché a una quadriga divina erano aggiogati
un sauro, due grigi di tonalità diversa e un pezzato?
Da
aviatore, aveva immaginato i nemici nei panni di Fetonte, solo che
sopra di loro non c’era una quadriga senza controllo, ma un aereo
inglese in fiamme e Zeus era un aereo tedesco che invece delle
folgori scagliava piombo.
In
quel frangente, invece, non riusciva a smettere di pensare che il
Fetonte dell’affresco era castano come lui.
Si
vergognò di quell’idea disfattista e meccanicamente portò una
mano a sfiorare l’azzurra decorazione che ormai stabilmente gli
pendeva dal collo.
Ripensò
all’episodio della cavalcata e di nuovo fissò lo sguardo sul
Fetonte che precipitava: come lui aveva osato, ed era caduto.
Era
fuggito ignominiosamente.
Si
chiese se avrebbe mai più rivisto l’agente segreto. Si augurava
che fosse scomparso per sempre dalla sua vita, esattamente come anni
prima era accaduto con Friedrich von Wangenheim: erano rimasti nella
stessa accademia, certo, ma per una sorta di tacito accordo si erano
praticamente ignorati fino a quando i rispettivi corsi di studi non
erano terminati. Non sapeva neppure a che reparto fosse stato
assegnato, o se fosse ancora vivo.
Chiuse
gli occhi. Si augurava davvero di non rivedere più il principe von
Thurn und Taxis?
Emise
un sospiro e volse lo sguardo verso l’alta finestra, lasciandolo
vagare sul cielo terso. Ai comandi di un aereo era tutto semplice. Si
trattava di volare e combattere, vincere o morire. Non c’erano
dubbi, non c’erano esitazioni. Soprattutto non c’erano pensieri
angosciosi, perché chi non teneva la mente focalizzata sull’azione
soccombeva.
Forse
era per quello che gli piaceva volare.
§
Il
Werwolf aprì una porta. Al di là vi era una stanza dalle pareti
bianche, con una sola finestra chiusa da un’inferriata e una
lampadina che pendeva dall’alto soffitto.
Al
centro del locale vi era un tavolo, al quale sedeva una donna di
mezz’età, con uno chignon venato di grigio da cui pendevano
ciocche disordinate.
L’agente
segreto avanzò con passo misurato, quindi si sedette di fronte a
lei. “Come vanno le conversioni?” le chiese. “Ha distribuito
molti opuscoli religiosi, ultimamente?”
La
donna si limitò a stringere le labbra. Si raddrizzò nella persona
come a mostrare indignazione. “Dovrebbe avere più rispetto,”
sibilò breve.
L’altro
fece un sorrisetto. “Come collega, intende?”
“Non
so di cosa stia parlando,” lo rimbeccò lei aspra, “ed esigo una
spiegazione per tutto questo!”
“Per
cosa, esattamente?”
“Per
essere stata presa come una ladra e portata… non so nemmeno dove!
Che cos’è questo posto? Io voglio rientrare a casa mia.”
“Tutto
a suo tempo,” concesse il Werwolf. “I suoi opuscoli religiosi
potranno aspettare fino a che non mi avrà fornito le informazioni
che voglio.”
La
donna si irrigidì ulteriormente. “Non ho nessuna informazione per
lei, egregio signore. Non so nemmeno di cosa stia parlando.” Cercò
di sistemarsi qualche ciocca dietro le orecchie, quindi gli rivolse
uno sguardo altero e carico di riprovazione.
Von
Thurn und Taxis la fissò impassibile per alcuni secondi. Infine, con
glaciale calma disse: “Signora, non mi piace perdermi in preamboli:
so che lei è una spia degli inglesi.”
L’altra
sobbalzò addirittura sulla sedia, e con veemenza protestò: “Cosa?
Ma come le viene in mente un’assurdità simile? Proprio io, che
distribuisco ogni giorno opuscoli patriottici!”
“Un’ottima
copertura,” concesse il Werwolf.
“Le
sue basse insinuazioni mi offendono!”
“Meglio
offesa che morta, non so se mi spiego.”
La
donna lo fissò torva, egli le rimandò uno sguardo perfettamente
neutro. Dopo alcuni secondi, in tono pacato le disse: “Abbiamo
trovato il solfato di rame fra i suoi cosmetici.”
“E
cosa sarebbe, se è lecito?”
Il
Werwolf si alzò in piedi e le sferrò un manrovescio che la
scaraventò giù dalla sedia, successivamente aggirò il tavolo,
l’afferrò per i baveri della blusa, la sollevò di peso e con voce
minacciosamente bassa ringhiò: “Inchiostro simpatico. Una
soluzione incolore, che diventa azzurra se esposta a vapori di
ammoniaca.”
“Curioso.”
“Signora,
le rammento che la mia pazienza non è infinita.”
La
donna cercò di colpirlo in mezzo alle gambe con un calcio. Il
Werwolf, che se l’aspettava, la sbilanciò all’indietro fino a
sbatterla con le spalle contro il muro, quindi disse: “Non c’è
bisogno di questi sistemi da suffragetta, mia cara. Tra spie esiste
la perfetta parità dei sessi.” La sollevò di peso, quindi
proseguì: “E ora, gentilmente...”
La
donna scalciò, cercò di graffiarlo. Impossibilitata a fare altro,
gli sputò addosso.
Il
Werwolf strinse la presa. La prigioniera, ormai scarmigliata, con gli
occhi fuori dalle orbite, gli afferrò i polsi. Di nuovo scalciò e
si contorse, cercando di liberarsi.
Von
Thurn und Taxis la buttò sul pavimento e le sferrò un paio di
robusti calci nel costato, quindi la sollevò per i capelli. La donna
tentò di nuovo di sputargli contro, poi ansimò: “Stupido bifolco,
pezzo di...” L’invettiva fu troncata da un altro manrovescio.
A
quel punto, il Werwolf chiese: “Dov’è the Bishop?”
“Non
so di cosa stia parlando.”
Volò
un’altra potente sberla, la donna cominciò a perdere sangue dal
naso. Con glaciale calma, von Thurn und Taxis ripeté la domanda.
L’altra
lo fissò di sotto in su. Rigato di sangue, il volto pallido aveva
un’espressione demoniaca. Lanciò un urlo selvaggio, poi balzò in
avanti, cercando di afferrarlo alla gola.
Il
Werwolf uscì dalla stanza sistemandosi l’impeccabile completo
scuro. Al suo apparire, due piantoni scattarono sull’attenti.
“Disponete
tutto come al solito,” ordinò l’ufficiale. “L’altra ha
parlato?” Indicò con un cenno della testa una porta di ferro
chiusa.
“Il
signor capitano è ancora dentro, signore,” rispose uno dei
soldati.
L’agente
sorrise fra sé e sé. Il signor capitano era un suo collega dal
poetico nome in codice di Morgenrot. Si avvicinò alla porta, guardò
dentro dallo spioncino: neppure lui pareva considerare le donne il
sesso debole.
Per
quanto la cosiddetta dama della Pentecoste – in realtà
un’alsaziana di nome Nathalie Meyer – avesse provato a
insultarlo, a graffiarlo e a usare mosse di ju-jitzu, alla fine gli
aveva rivelato esattamente quello che si aspettava, e cioè che the
Bishop era da qualche parte in Germania. Dove, purtroppo, non era
riuscito a saperlo, anche perché probabilmente non lo sapeva nemmeno
la dama.
Abbandonò
il sotterraneo, tornò al piano terra. Il posto aveva l’apparenza
di un magazzino di granaglie, ma in realtà nei sacchi di iuta che
entravano e uscivano c’erano dispacci, fotografie e mappe. Gli
impiegati erano tutti agenti sotto copertura, uomini e donne. Le
pareti erano munite ovunque di intercapedini in cui erano sistemate
macchine fotografiche o alcove in grado di contenere osservatori;
numerosi laboratori segreti permettevano di rilevare le impronte
digitali di eventuali visitatori e di sviluppare le fotografie che si
prendevano di ognuno di essi.
Si
diresse verso il bagno, vi entrò e, attraverso una porta nascosta
fra le piastrelle, passò in una stanza che sembrava il camerino di
un teatro, con una toeletta per il trucco, un armadio e uno scaffale
ingombro di travestimenti di scena.
Si
sedette di fronte allo specchio, indossò con gesti resi rapidi
dall’abitudine una parrucca grigia. Vi aggiunse un paio di
baffetti, sempre grigi, quindi inforcò occhiali dalle lenti tonde,
cerchiate di metallo.
Trasse
dall’armadio una palandrana scura, un po’ lisa sui gomiti, con la
quale nascose il suo completo di sartoria. Indossò un cappello
sgualcito, raccolse una cartelletta per i documenti e se la strinse
al petto, quindi fece ritorno alla stanza che fungeva da segreteria
con un’andatura ingobbita, rigida, da impiegatuccio precocemente
invecchiato, abituato a stare curvo sui registri di partita doppia.
Scambiò
qualche parola con i colleghi, poi uscì con la cartelletta lisa
sottobraccio, come se fosse stato mandato a fare una commissione.
§
Seduto
alla scrivania di una stanza d’albergo, naturalmente sotto falso
nome, il Werwolf sorrise fra sé e sé: dalla finestra dell’elegante
hotel in cui aveva preso alloggio si intravedeva uno scorcio del suo
palazzo. Era fuori questione, naturalmente, andarvi ad abitare,
almeno fino a quando non fosse riuscito a scoprire dove si nascondeva
the Bishop.
Si
appoggiò all’indietro sullo schienale, ripercorse ancora una volta
mentalmente tutte le informazioni in suo possesso: il suo avversario
era in Germania. Gli agenti normalmente trascorrevano un periodo di
riposo fra una missione e l’altra: il fatto che the Bishop fosse di
nuovo in azione dopo la faccenda della Francia faceva supporre che
non su trattasse di qualcosa che gli era stato ordinato dai suoi
capi.
Stava
lavorando per conto suo.
Sorrise
fra sé e sé, immaginando l’inglese che interrogava ogni
informatore, ogni lattaio, ogni portinaia comprata a suon di sterline
per scovarlo.
The
Bishop era furbo, naturalmente, sapeva a chi chiedere e come, ma non
aveva a che fare con uno sprovveduto: avrebbe potuto aspettare mesi
prima di scovare una traccia degna di questo nome.
Mesi
che non aveva.
E
quindi, come arrivare fino a lui?
Passò
in rassegna tutti i colleghi che avrebbero potuto – volenti o
nolenti – dire qualcosa a the Bishop. Non erano molti,
obiettivamente, e nessuno di essi sarebbe stato in grado di fornire
informazioni di una certa importanza.
Scosse
la testa: ci doveva
essere qualche elemento che non stava considerando, un agente come
the Bishop non rimaneva a pascolare da qualche parte in attesa di un
indizio, andava a colpo sicuro.
Si
alzò, scese nella Hall. “Buon giorno, signor ingegnere,” lo
salutò cerimoniosamente il portiere, accennando un inchino.
Il
Werwolf rispose con un sobrio cenno del capo, quindi si diresse a un
piccolo salotto composto da poltrone e divani disposti intorno a un
tavolino coperto di giornali. Raccolse un quotidiano straniero di
qualche giorno prima, lo sfogliò distrattamente: informazioni
sull’andamento della guerra, cartine dell’Europa con disegni
delle varie offensive portate avanti su questo o quel fronte.
Immaginò il lavoro di intelligence che stava dietro a ognuna di
esse, agenti che si erano scambiati informazioni, doppiogiochisti
comprati, spie sotto copertura, furti di informazioni, codici
decifrati.
Ogni
combattimento nascondeva mesi di lavoro sotterraneo, svolto da gente
di cui non si sarebbe mai saputo nemmeno il nome.
Adocchiò
una signora che indossava uno spolverino chiaro e un ampio cappello
trattenuto sotto la gola da una sciarpa di velo. La vide infilare un
paio di guanti di camoscio e notò che sul marciapiede, appena fuori
dalla porta, attendeva una vettura.
Si
chiese se fosse lei a guidare l'auto, oppure se fosse solo una
passeggera.
Prese
posto su uno dei divani, raccolse un quotidiano a da dietro le pagine
del giornale prese a seguire le evoluzioni della dama, chiedendosi se
potesse trattarsi di un'agente straniera.
Non
aveva l'accento di Berlino, parlava di monumenti da vistare. Era una
copertura, oppure era lui che ormai vedeva spie dappertutto?
Riportò
lo sguardo sulle pagine e a quel punto dovette faticare per non
sussultare: c'era la fotografia di un ufficiale che stringeva la mano
all'Imperatore dopo che questi l'aveva decorato con il Pour le
Mérite.
Fu
come se in un istante tutti i pezzi di un rompicapo andassero a
posto: the Bishop non aveva alcun bisogno di trovare lui, gli bastava
trovare Maximilian von Knobelsdorff.
Tutto
terribilmente logico, terribilmente semplice: l'inglese era capace di
catturare il tenente e rispedirglielo un pezzo per volta, stando
attento a non mandargli nessuna parte vitale, fino a che non lo
avesse convinto a consegnarsi.
Sarebbe
stato in grado di sopportare una cosa del genere? Gli doleva
ammetterlo, ma la risposta era no.
Si
alzò così bruscamente che la signora si girò a fissarlo stupita.
Lui distolse lo sguardo borbottando qualche scusa, quindi si diresse
nuovamente in camera, dove riempì con gesti rapidi la valigia. Se la
sua intuizione era giusta, aveva pochissimo tempo per intercettare il
tenente, perché con ogni probabilità the Bishop era già sulle sue
tracce.
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