Germogli
MALEFICI
ATTO – III
All’età
di ventisei anni, Chiara era finalmente una persona
diversa. Una persona nuova. Era rinata e ora che finalmente aveva
affrontato i
suoi peggior incubi, fra cui quel desolante periodo di depressione, era
tornata
a sfidare il mondo a testa alta, imparando a trarre profitto da quelle
scomode
e pesanti verità che aveva sperimentato sulla sua stessa
pelle.
Era diventata
forte; spietata.
Si confondeva
fra la folla, cercando di assomigliare alle
persone che le stavano accanto, fingendosi interessata alle loro
conversazioni
e alla loro amicizia, e trincerandosi dietro ad un sorriso, analizzava
e
rifletteva attentamente sulle parole che sentiva sputar fuori da quelle
loro
labbra velenose. Ammaliata, scorgeva ogni più piccolo
movimento del corpo di
chi gli stava accanto, idealizzando carattere e indole di ogni
individuo. Lo
faceva persino con i bambini. E le volte in cui il suo affinato intuito
si
sbagliava erano davvero poche – le si poteva contare sulle
dita di una mano.
Il suo era un dono speciale; unico.
Ed ora che era diventata abbastanza cinica riusciva ad
utilizzarlo nel migliore dei modi: ingannando il suo prossimo, traendo
spesso
vantaggiose soddisfazioni personali.
Dopo svariati anni, finalmente, la ruota della fortuna era tornata a
girare.
La dolce e
poetica Chiara, quella ragazzina vivace e candida
come neve s’era frantumata come cristallo ed aveva lasciato
lo scettro a quella
nuova sé stessa, quella forte, razionale ed opportunista. Ci
aveva impiegato
anni per racimolare i cocci di sé stessa, saturando le
ferite del cuore che le
era stato strappato dal petto, e si era aggrappata a
quell’unica speranza
maturata dall’odio per se stessa: non sarebbe più
crollata.
Non le sarebbe
più importato quello che persone avrebbero
potuto dire o non dire di lei, non le sarebbe interessato far soffrire
allo
stesso modo chi probabilmente non se lo meritava affatto. Non era
più una
timida gazzella impaurita, non sarebbe diventata ancora una volta la
preda di
qualcuno. No, non era più quella fragile e malsana ragazzina
che non faceva
altro che preoccuparsi per gli altri e richiedere affetto e protezione.
Per anni si era
sentita insignificante come un granello si
sabbia al vento, per anni aveva lottato contro quel suo desiderio di
abbandonarsi alla vita, di giungere sino alla morte, per poter
bloccare, almeno
in parte, quel dolore sconfinante che le squarciava il petto.
La realtà che i soli occhi le mostravano era così
alterata che non riusciva più
a cogliere di quale colore fossero quelle rose splendenti al calar del
sole, e
persino i giudizi erano solo dei diavoli tentatori – crudeli
bugiardi – come li
chiamava lei.
Solo allora comprese che doveva accertarsi del valore delle
cose e delle persone riuscendo a contare solo su sé stessa.
E così, si
camuffava ricercando la maschera più avvenente che di volta
in volta trovava in
vendita. Ci appiccicava su un sorriso e un’indole fittizia, e
mascherandosi abilmente
in qualcun altro riusciva a cogliere la verità dietro alle
menzogne più feroci.
Ingannava il suo
prossimo con la stessa abilità con cui
ingannava sé stessa.
Era una lotta frenetica e continua. Ed ora che era
finalmente un’adulta in tutto e per tutto, poteva essere
libera di andare dove
voleva, intraprendendo la strada che più le sembrava
adeguata, e libera di fare
quello che segretamente bramava con passione.
Eppure, nonostante quella sua libertà sembrasse infinita,
continuava a sentirsi imprigionata in un’invalicabile cella.
Una cella molto
più grande e spaziosa dell’amabile teca di
cristallo in cui i suoi genitori
l’avevano custodita per lungo tempo.
Quell’assurda prigionia aveva il sapore delle arance e la
fragranza intensa del
limone e dei fiori primaverili.
Forse
però, stava solo sragionando una volta ancora.
Non poteva più continuare a smarrirsi nel passato.
Adesso era agile e invincibile quanto un potente leone.
Un leone che, nonostante la sua mole, si fingeva ancora una tremante
gazzella pronta
a sbranare la sua deliziosa preda in un agguato mortale.
«Sono
davvero stremata! E’ tutto il Santo giorno che corro
da una parte all’altra della città!
D’altro canto come potevo perdermi la prima
domenica di saldi?!» domandò senza neppure
attendersi una risposta plausibile
dall’amica.
«Hai ragione. Tu adori lo shopping sopra ogni altra
cosa!» proferì Chiara,
porgendole un bicchiere d’aranciata fresca, e sedendosi
accanto a lei.
«Non so proprio come tu riesca a fare acquisti solo tramite
internet! Non
sopporterei di perdermi l’attimo in cui, dopo ore di coda,
sbaragli la
concorrenza, aggiudicandoti l’oggetto dei tuoi
desideri!» aggiunse poi la sua
collega, trasognando ad occhi aperti.
In
verità quella donna, più grande di lei solo di un
anno,
non era solo una semplice collega di lavoro, ma era anche la figlia del
suo
capo. E beh, certo non poteva mostrarsi scontrosa con lei, nonostante
la
detestasse terribilmente.
La odiava.
Non c’erano mezze misure, Chiara odiava Francesca, ma
nonostante tutto cercava
di andarci mortalmente d’accordo, fingendosi addirittura una
delle sue migliori
confidenti. Intraprendere una relazione d’amicizia con lei
aveva avuto, nel
corso di quegli anni, notevoli vantaggi per Chiara –
soprattutto quando si
trattava di frequenti ritardi mattutini sul posto di lavoro, giornate
di riposo
e perché no, anche sullo stipendio!
In fin dei conti doveva solamente mostrarsi solare, garbata e prestare
attenzione a quei discorsi frivoli e patetici di quella sciocca
ragazzina
viziata!
Non era poi
così difficile…
Il gioco valeva la candela, e Chiara lo aveva capito da tempo, ormai.
E quindi, anche quella domenica pomeriggio, si era ritrovata a dover
offrire
ospitalità a Francesca, preparando un caffè molto
più aromatico del suo solito,
e offrendole gentilmente stuzzicanti dolcetti di marzapane e frollini
fatti in
casa. Per l’occasione, aveva anche preparato il miglior
servizio di porcellana
che custodiva gelosamente nel ripiano più in alto della
credenza. Ora non le rimaneva altro che donarle
uno dei suoi sapienti
e accomodanti sorrisi al limone, mostrandosi quanto più
amabile e pronta ad
ascoltare ancora una volta la sua tremenda voce gracchiate.
«Ah!
Meno male che posso sempre contare su di te! Sei
davvero un’amica!» esclamò entusiasta
Francesca, sorseggiando il suo caffè
bollente.
Chiara, dal canto suo, avrebbe preferito optare per una
risposta molto più diretta e sincera, come ad esempio: "sei
davvero
insopportabile! Non ti sono amica nemmeno un pochino, sia chiaro! Se
poi, per
amica intendi una che ti punterebbe volentieri un coltello fra le
scapole,
allora siamo davvero amiche!”
Fortuna però, che la razionalità di Chiara era la
sua miglior compagna di vita,
e così, nascondendosi ancora una volta dietro ad un sorriso,
proferì dolci
parole di zucchero oscurando del tutto i suoi pensieri.
«Figurati! Non ho fatto davvero nulla di particolare. Sei
un’amica preziosa per me, è naturale che mi
preoccupi per la tua salute e
m’interessi dei tuoi problemi. Sei sempre la benvenuta in
questa casa!» Al
termine di quelle sue parole non poté non notare una leggera
e volubile
commozione negli occhi un po’ arrossati di Francesca. E senza
aggiungere altro,
si lasciò abbracciare dolcemente, cullandosi in quel calore
velenoso che sapeva
sempre farla sogghignare all’ombra di sguardi indiscreti.
Dio, come si
sentiva potente in quegli attimi! Aveva il
mondo ai suoi piedi!
E quella sciocca sgualdrina perennemente vestita in rosa, proprio come
la peggior
Barbie che i suoi occhi avessero mai incrociato, era solo
l’ennesima preda che
il destino le aveva servito su un piatto d’argento.
L’agnello sacrificale.
Un’insignificante sacrificio per accomodare gli Dei del
Cielo. E più il calore
emanato dal corpo di Francesca si scontrava sulla pelle sempre un
po’ fredda di
Chiara, più il piacere che sgorgava dal suo cuore corrotto
dall’oscurità
aumentava vertiginosamente.
Le sue piccole mani candide stringevano con impeto quel
corpo ricoperto di carne succulenta, privandolo un po’ alla
volta di quel
calore invitante e facendolo immoralmente suo. Chiara si sentiva in
paradiso.
Interminabili
note di violino si disperdevano nell’aria.
Una sinfonia armoniosa e pregna di malinconia assalì il suo
corpo, torturandolo
dolcemente. Stava manovrando con sapiente maestria
quell’ennesima bambola di
carne.
La faceva danzare sino a farle perdere il fiato nel suo roseo giardino
fiorito.
Oscurando e mescolando verità e menzogne, fingendo di non
sapere cosa fosse
reale e cosa no, continuando a confondere sempre i suoi pensieri,
Chiara non
riusciva ancora ad avere fiducia in sé stessa.
Era diventata
brava a narrare frottole, era diventata una
nobile stratega, e ormai affrontava la vita come una grande partita di
scacchi,
dove ogni pedina prendeva vita e studiando l’avversario con
astuzia, riusciva
sempre a fare la mossa che più le conveniva, mangiando la
pedina avversaria
ogni qualvolta riuscisse a fare scacco matto. E nonostante questa sua
incredibile vocazione, ancora faticava ad ascoltare la voce nascosta
del suo
cuore.
Tramutandosi nel
leone che aveva sempre desiderato essere,
aveva perso sé stessa. Aveva abbandonato i suoi sentimenti e
ogni tipo di
emozione che assomigliasse all’affetto e all’amore.
In passato era stata
tradita, e il dolore era ancora troppo grande per poter credere in un
mondo
dalle sfumature limpide e vivide come i caldi colori
dell’estate.
Aveva tradito ogni suo principio, rifiutando la compassione
e allontanando l’amore. Ed ora si sentiva felice.
Sorrideva, gioiva e piangeva,
alle volte l’una non escludeva l’altra! Era folle e
sgargiante quanto Arlecchino!
Attirava l’attenzione di tutti, e regalando dolcezza celava
la sua codardia,
fingendosi forte e indomabile.
Continuava a
camminare come un’equilibrista, perennemente in
bilico fra terra ferma e mare, facendosi forza con le sue sole ossa. Il suo cuore stava
inesorabilmente morendo,
ma la sua mente stava finalmente assaporando la gioia di vivere.
Continuava a vacillare, cadendo nell’oscurità
più assoluta, ma anche così, non
si perdeva d’animo, e agguantando quell’unica
certezza – confidando che mai
nessun’altro avrebbe potuto distruggere un giocattolo
già rotto – continuava
imperterrita a camminare, correndo ti tanto in tanto.
In quel luogo,
dove Chiara si sentiva a disagio persino nel
respirare, tratteneva il respiro, rifiutando persino l’aria,
annientando
l’immagine della vera sé stessa che stingeva un
poco alla volta. Era finalmente
serena.
Poteva essere come desiderava, poteva non aver paura delle
tenebre, poteva dar vita tranquillamente a quella parte tenebrosa di
sé stessa.
Poteva essere ciò che aveva sempre desiderato. E senza
accorgersene, continuava
a versare lacrime oscure, cariche di orrore, come se ridesse a
crepapelle e
sorrideva senza sosta, come se piangesse a gran voce. Più
diventava brava a
dire bugie e a trovare scuse, più desiderava la freddezza di
un abbraccio
eterno.
Nell’utopia
silente, l’avvenente fiore della discordia brillava
aggraziato quanto una
stella nel cuore della notte. Dolcemente, prosperava solitario,
cibandosi dei
più meschini fiori che sciaguratamente avevano desiderato
stargli accanto,
regalandogli quella rara bellezza eterea e quel dolce nettare vitale
che
scorreva nel loro fragile stelo. Macchiandosi di peccato recideva la
vita
altrui, facendola sua un poco alla volta, inesorabilmente.
Il fiore della discordia germogliava con ardore non
solo nel giardino, ma anche nel cuore di quella dolce ragazzina che
anni prima
aveva strappato alla bontà, corrompendola con il suo fascino
al veleno. Primo o
poi anche quella ragazzina sarebbe stata completamente sua.
© LADY ROSIEL/ Luna
Azzurra
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