Stripped
Toccai per la prima volta il suolo inglese il giorno di
San Valentino del 1986; trovai ad accogliermi una sinistra foschia, un
freddo
pungente e un cielo plumbeo che sapeva di pioggia. La mia nuova vita
non
prometteva nullo di troppo spettacolare, insomma.
Circondata da volti sconosciuti – anche se dopo
innumerevoli ore di volo cominciavano a risultare familiari –
e segnati dalla
stanchezza, mi mossi in fretta per recuperare il mio misero bagaglio e
dirigermi verso l’uscita. Zio Lawrence sicuramente mi stava
già aspettando
all’esterno della struttura, come mi aveva preannunciato per
telefono qualche
giorno prima, e non volevo farlo attendere troppo; già
sapevo di essere
un’ospite e un’intrusa che avrebbe fatto irruzione
nella sua famiglia, non
volevo arrecare ulteriore disturbo.
Mentre camminavo tra la folla col mio piccolo trolley
pieno fino a scoppiare mi venne da sorridere: chissà cosa
pensavano tutti
quegli sconosciuti che mi vedevano passare. Chissà che
effetto doveva fare
vedere una ragazzina minuta e troppo magra che non dimostrava affatto i
suoi
diciassette anni, totalmente vestita di nero e coi capelli tinti di
blu, con lo
sguardo basso, una sigaretta tra le dita e l’espressione
corrucciata di chi ha
voglia di spaccare la faccia a chiunque le rivolga la parola.
Eppure eccomi lì, sempre la stessa, sempre sola. Pronta
–
più o meno – a ricominciare da capo ancora una
volta.
Fuori dall’aeroporto mi guardai attorno in cerca di mio
zio; lo trovai accanto alla sua auto, che mi faceva cenno di
avvicinarmi. Era
da solo.
“Ciao Bess. Com’è andato il viaggio? Sei
stanca?” mi
domandò con la sua solita distaccata cortesia quando
l’ebbi raggiunto,
prendendo il mio bagaglio per caricarlo in macchina.
“Ciao zio. Tutto bene, non c’era granché
da fare
sull’aereo…” Mi sforzai di rivolgergli
un sorriso cordiale, sebbene quelle
conversazioni di circostanza mi irritassero parecchio.
“Grazie mille per il
passaggio, comunque.”
“Figurati, non ti avremmo mai lasciato arrivare da sola
fino a casa.” Richiuse lo sportello del portabagagli, poi
apri la portiera dal
lato del passeggero in un gesto di galanteria, per invitarmi a salire.
“Andiamo?”
Salii sulla vettura senza fiatare. Non ero
particolarmente in vena di parlare quel giorno, ancor meno se il mio
interlocutore consisteva nello zio Lawrence: non avevo nulla contro di
lui, ma
non avevamo nulla da spartire e il suo atteggiamento così
composto e freddo mi
metteva a disagio.
Ero cresciuta per strada, non sarebbe stato facile ambientarmi
in una famiglia britannica di classe medio-alta come quella dei miei
zii.
Il viaggio in auto trascorse in silenzio per i primi
minuti: lo zio Lawrence, concentrato sulla guida, fissava la strada
dritto
davanti a sé e io facevo altrettanto, seguendo con gli occhi
le goccioline che
avevano cominciato a rigare il parabrezza. Nell’abitacolo
riecheggiava solo la
radio in sottofondo e il ticchettio irregolare della pioggia.
A riscuotermi da quello stato di torpore fu una melodia
che giunse alle mie orecchie, accompagnata da una voce che non mi era
del tutto
nuova ma che non ero capace di identificare; proveniva dalle casse
dello
stereo. Affinai l’udito e mi misi in ascolto, rapita: si
trattava di una
canzone che non avevo mai sentito, completamente diversa dalla solita
roba
allegra o melensa che passavano in radio; aveva un’atmosfera
quasi tetra, resa
ancora più suggestiva dai suoni elettronici.
Come
with me into the trees
We'll lay on the grass and let the
hours pass
Take my hand, come back to the land
Let's get away just for one day
Quella voce
calda, che mi invitava a fuggire via quasi
sussurrandomi all’orecchio, mi faceva quasi venir voglia di
piangere.
Let me see
you
stripped down to the bone
Let
me see you
stripped down to the bone
Mi accorsi
solo allora che una miriade di brividi avevano
cominciato a percorrermi la schiena e le braccia, coperte da un
giubbotto forse
troppo leggero. Ma non avevo freddo – sentivo perfino la mia
anima tremare.
Metropolis
has
nothing on this
You're
breathing in fumes, I taste when we kiss
Take
my hand,
come back to the land
Where
everything's ours for a few hours
Let me see
you
stripped down to the bone
Let
me see you
stripped down to the bone
Non avevo mai sentito una canzone più bella e
coinvolgente di quella. Più la ascoltavo e mi lasciavo
rapire da
quell’atmosfera, più sentivo la mia anima che si
spogliava fino all’osso,
proprio come recitava il ritornello.
Mi sentivo capita e rassicurata, sentivo di essere stata
colpita e affondata.
Let me
hear you
make decisions
Without
your
television
Let
me hear you
speaking just for me
Let me see
you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you speaking just for me)
Let
me see you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you crying just for me)
Let
me see you
stripped down to the bone
(Let
me hear
you speaking just for me)
Mentre il
brano volgeva al termine, gettai un’occhiata in
direzione di mio zio per la prima volta dopo diversi minuti: continuava
a
guidare rilassato e non sembrava essersi accorto di nulla.
Certamente. Come poteva accorgersi della tempesta che si
era scatenata dentro di me? Come poteva intuire che il sorrisetto ebete
che mi
si era dipinto in faccia dipendeva dalla canzone che avevamo appena
sentito?
Lui, con tutta probabilità, non l’aveva nemmeno
ascoltata.
Continuai a prestare attenzione alla voce dello speaker,
nella speranza che annunciasse il titolo del brano.
“Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo dei
Depeche
Mode, pubblicato esattamente quattro giorni fa! Anticiperà
un album? Chi può
dirlo…”
Ecco come mai avevo avuto l’impressione di conoscere
quella voce: avevo già sentito qualche canzone dei Depeche
Mode, li passavano
alle feste o in discoteca a volte. Tuttavia non potei fare a meno di
rimanere
spiazzata: li avevo sempre confusi tra i mille insignificanti gruppi
dell’ultimo periodo, mentre quella nuova canzone era
così diversa dal solito.
Così profonda, così speciale.
Chissà come si intitolava.
Sarebbe stata la colonna sonora della mia nuova vita, ne
divenni improvvisamente consapevole. Avrei fatto qualsiasi cosa per
ritrovarla,
a costo di comprare tutti gli album della band e ascoltarli uno a uno
per
cercarla.
“Zio?”
“Sì?”
“Posso cambiare?” domandai, accennando
all’autoradio.
Lui annuì. “Metti pure la musica che
preferisci.”
La ricerca cominciava in quel momento.
Due ragazzine di tredici anni, quasi identiche, mi
guardavano con la stessa espressione corrucciata e scettica,
aggrottando le
sopracciglia sottili e conferendo ai loro lineamenti delicati un
aspetto più
affilato.
Avevano entrambe occhi verde smeraldo, una lunga e
fluente chioma di capelli castani e lisci, erano slanciate e la loro
pelle
diafana spiccava in contrasto con gli abiti colorati e glitterati che
indossavano.
Se non fossero state vestite con indumenti diversi, le
avrei confuse.
“Questa è nostra cugina?”
gracchiò la prima, portandosi
una mano sotto il mento.
“E verrà a stare da noi?” aggiunse
l’altra in tono
sommesso, giocherellando nervosamente col braccialetto verde che
indossava.
Inarcai un sopracciglio e lanciai una fugace occhiata a
zia Ruth.
Già, mi ero quasi scordata di quest’ostacolo: le
gemelle.
Non ci eravamo mai incontrate prima e non avevo idea di cosa
aspettarmi, ma
certamente non potevo immaginare di trovarmi davanti due mocciose
abbigliate
all’ultima moda che mi scrutavano dall’alto in
basso. D’accordo, l’ospite ero
io, ma loro avevano pur sempre tredici anni.
Cercai comunque di mantenere la calma e non ribattere con
uno dei miei soliti commenti cattivi: ci conoscevamo da meno di un
minuto e già
le cose non stavano andando benissimo, dovevo provare a mantenere un
rapporto
civile se volevo condividere la casa con loro. Mi sforzai di sorridere,
ma le
mie labbra si contorsero in una smorfia. “Sono io,
sì. Piacere, Bess.”
Loro mi scrutarono come se avessi avuto un terzo occhio
sulla fronte.
“Andiamo ragazze, presentatevi” le
incitò allora la madre
con un ampio sorriso che tradiva un profondo imbarazzo.
“Io sono Joice” bofonchiò quella col
braccialetto verde,
abbassando subito lo sguardo.
“Quindi tu devi essere Kristen?” mi rivolsi
all’altra,
sperando di aver azzeccato il nome. Zia Ruth e zio Lawrence le avevano
nominate
un sacco di volte, non potevo sbagliare.
“Crystal” mi corresse lei in tono piccato.
Ecco, appunto.
“Vieni tesoro, ti mostro la casa e ti accompagno in
camera tua: sarai stanca dopo il lungo viaggio” intervenne
subito la zia nel
disperato tentativo di levarmi dall’imbarazzo.
Mi inquietava il modo di esprimersi che avevano lei e lo
zio: parevano appena usciti da un libro inglese di fine Ottocento.
La seguii fuori dal soggiorno, ma subito il borbottio
delle due gemelle catturò nuovamente la mia attenzione.
“Hai sentito con che accento parla?
Quant’è sguaiata…”
“In America parlano tutti così secondo
te?”
“E poi hai visto come si veste? Il nero fa schifo, e poi
quella roba sembra vecchia di anni!”
Mi immobilizzai in mezzo al corridoio e strinsi i pugni.
D’accordo, ci avevo provato, ma la mia pazienza aveva un
limite.
Tornai indietro e mi affacciai di nuovo alla soglia per
poterle squadrare da capo a piedi. “Ah, non vi piacciono i
miei vestiti?
Peccato… ma tanto non avevo intenzione di
prestarveli!”
Loro sobbalzarono e ammutolirono per diversi istanti. Joice
puntò lo sguardo sul piano lucido del tavolo attorno a cui
erano sedute, mentre
Crystal prese coraggio e mi guardò dritto in faccia.
Sostenni il suo sguardo con sfrontatezza.
“Senti Beatrix, mettiamo le cose in chiaro: questa
è casa
nostra, tu sei l’ospite, quindi non ti conviene
sfidarci” sputò la ragazzina,
gonfiando il petto e assumendo una posa da dura che non le si addiceva
per
nulla.
Ero tentata di riderle in faccia, ma ero troppo incazzata
perfino per quello. “Appunto. È questa
l’accoglienza che riservi agli ospiti?
Non stai dando una bella immagine di casa tua.”
“Ragazze, che succede? Crystal, Joice!” intervenne
zia
Ruth, accortasi della discussione in atto.
Scacciai la questione con un gesto noncurante e le
rivolsi un debole sorriso. “Tutto finito, tranquilla, ora
puoi portarmi a
vedere la casa.”
La donna lanciò un’occhiata scettica alle figlie,
poi
tornò in corridoio con l’intento di farmi strada.
Feci per seguirla, ma prima di lasciare nuovamente il
soggiorno mi soffermai un’ultima volta su Crystal e Joice.
“Se avete qualcosa
contro di me, ditemelo pure in faccia: non ho nessun
problema.”
Quando mi allontanai mi sentii immediatamente stupida a
essermi accanita contro due ragazzine, ma come al solito avevo agito
d’istinto.
In ogni caso c’erano delle mancanze di rispetto che non
tolleravo, e il fatto
che le mie cugine avessero solo tredici anni non poteva giustificarle.
“Ti stavano dando fastidio? Devi scusarle, ci
vorrà un
po’ perché si abituino, sono sempre state abituate
a essere solo loro due” si
preoccupò subito la zia Ruth. In realtà non era
parsa troppo sconvolta
dall’atteggiamento maleducato delle figlie.
Mi strinsi nelle spalle. “È
comprensibile.”
La casa della famiglia Middleton era la classica dimora
tipo di una famiglia britannica: situata in un tranquillo quartiere
residenziale, a pochi minuti di una fermata della metro che permetteva
di
raggiungere agevolmente il centro di Londra, era circondata da un
giardino
ricoperto di erba verde brillante fresca di tosatura. Le stanze,
spaziose e numerose,
erano distribuite tutte su un piano: quelle della zona giorno erano
rivolte a
sud e inondate dalla luce che filtrava da grandi vetrate, tutto
l’opposto delle
camere da letto.
Era una casa così bella e ben arredata, con i mobili ben
coordinati in ogni stanza e un sacco di soprammobili e quadri eleganti,
ma al
contempo risultava così fredda e ostile. Sembrava troppo
ordinata e tirata a
lucido per essere abitata; mi trasmetteva un senso di straniamento e
oppressione insopportabili.
Il mio concetto di casa prevedeva
tutt’altro.
“Qui c’è la stanza degli ospiti, che
abbiamo preparato
per te, proprio a fianco a quella delle ragazze”
spiegò zia Ruth una volta
giunte nel piccolo corridoio su cui si affacciavano le camere da letto
e il
bagno della zona notte.
Feci il mio ingresso nell’unico angolo di pace che
sarebbe stato solo mio e mi sedetti sul bordo del letto, guardandomi
attorno con
circospezione: era tutto così anonimo.
“Ti piace?” domandò la zia con un
sorriso colmo di
speranza.
“Sì… mi devo ancora
ambientare” concessi. Non ero affatto
brava a mentire, accidenti.
“Ti lascio un po’ da sola, così puoi
sistemare le tue
cose, darti una rinfrescata e riposarti” annunciò
lei, per poi sparire
nell’andito e richiudere la porta con delicatezza.
Mi sdraiai sul materasso senza nemmeno preoccuparmi di
togliere le scarpe e solo allora mi resi conto di quanto mi facesse
male la
schiena: avevo pur sempre affrontato più di dodici ore
stipata su un sedile
troppo duro e scomodo.
Chiusi gli occhi, perché ero certa che se mi fossi
guardata nuovamente intorno avrei dato di stomaco. Non ero
più così certa di
aver fatto la scelta giusta: ero fuggita per stare lontana da mio
padre, da mia
sorella che ormai mi aveva voltato le spalle e dal mio passato troppo
pesante,
non avevo avuto dubbi sul fatto che andare a Londra e ripartire da zero
fosse
l’unica soluzione per me, ma ora che mi ritrovavo sola e
spaesata in un luogo
completamente nuovo cominciavo a essere spaventata. Mi ripetevo sempre
– e
facevo sempre credere a tutti – che ero abbastanza forte da
riuscire a
cavarmela in ogni situazione e che nulla poteva davvero sconvolgermi,
ma non
potevo mentire a me stessa.
La mia Los Angeles mi mancava già. Yelena mi mancava
già,
anche se odiavo ammetterlo. E detestavo quell’ambiente
così freddo e quadrato,
quella famiglia inospitale e quella città immersa nel
grigiore.
E chissà quanto mi sarebbe costato ricominciare la
scuola…
Più mi lasciavo trascinare da quei pensieri, più
sentivo
il cuore sfondarmi la gabbia toracica e il respiro farsi irregolare.
Sapevo
esattamente cosa stava per accadere, ma non l’avrei permesso:
mi misi a sedere
di scatto, spalancai gli occhi e presi un profondo respiro. Non mi
sarei fatta
prendere da un attacco di panico durante la mia prima giornata a
Londra. Quella
sarebbe stata la mia nuova vita, mi sarei lasciata alle spalle tutte le
mie
vecchie fragilità.
Mi misi in piedi a fatica con l’intento di recuperare il
mio walkman all’interno del trolley – ascoltare
musica mi rilassava sempre – e
solo allora mi accorsi di essere osservata.
Mi voltai di scatto verso la porta: era socchiusa e un
paio di occhietti verdi mi scrutavano attraverso la stretta fessura.
Non appena
incrociarono i miei, l’uscio sbatté di scatto e
delle risatine si propagarono
per il corridoio.
Sentendo la rabbia montare dentro, percorsi in poche
falcate lo spazio che mi separava dalla maniglia e la tirai con forza.
“Che
cazzo avete da guardare?”
Stava andando tutto a puttane, ed ero arrivata solo da un
paio d’ore.
Cominciai ad andare a scuola pochi giorni dopo il mio
arrivo a Londra. I miei zii avevano scelto per me un liceo piuttosto
buono,
anche se non si trattava di un istituto privato come quello che
frequentavano
Crystal e Joice.
Non avrei mai potuto pretenderlo, del resto; a dirla
tutta mi sentivo già fortunata a poter terminare gli studi e
a stare lontana
dal mio vecchio quartiere, in cui perfino la scuola era intrisa di
criminalità
e disagio.
Fin dal primo giorno decisi di mantenere un profilo basso
sia con i professori che con i miei compagni di classe; non avevo
nessuna
voglia e nessun interesse a socializzare in quel luogo, sapevo che non
avrei
trovato qualcuno che potesse condividere il mio stile di vita.
Dal momento che a Los Angeles avevo perso un paio d’anni,
ì miei compagni erano tutti più piccoli di me e
ciò non era troppo
rassicurante. Non era soltanto una questione di età
anagrafica: semplicemente
avevo vissuto molto più di loro, ero già invecchiata
e avevo commesso
molte stronzate, mentre quei ragazzini stavano cominciando a staccarsi
da mamma
e papà in quel momento ed erano a malapena al loro primo
tiro di sigaretta.
Mi imposi di mantenere la calma e soprattutto di
rimettermi a studiare seriamente – attività che
non mi era mai pesata e che mi
veniva pure piuttosto semplice. Non ero molto sicura di riuscire nei
miei
obiettivi, ma dopo qualche settimana appresi che i miei voti non erano
affatto
male e che riuscivo a non cedere alle provocazioni dei miei compagni.
Evitavo
di rispondere ai professori – cosa che fino a quel momento
era stata
impensabile – e talvolta mi ritrovavo a essere dalla loro
parte quando
rimproveravano i miei compagni.
Non ero diventata meno ribelle del solito, ero solo più
matura e soprattutto avevo imparato a farmi i cazzi miei. In fondo
l’unico mio
obiettivo in quel luogo era prendere il diploma.
Per gli altri liceali ero soltanto la tipa bizzarra e
taciturna con i capelli blu e la sigaretta sempre tra le dita. Nessuno
sembrava
particolarmente interessato ad attaccare bottone con me –
forse li intimorivo –
e, anche in quelle rare occasioni in cui qualche coraggioso si faceva
avanti,
mi mantenevo sempre distaccata.
L’unica persona con cui trascorrevo il mio tempo durante
le ore scolastiche era Tara, una ragazza taciturna ed emarginata come
me. Era
bellissima, aveva un fisico mozzafiato, un viso armonico e dei lunghi
capelli
mossi color cioccolato che facevano invidia alla maggior parte delle
ragazze,
ma era talmente timida che si ritrovava a essere sempre
nell’ombra e non essere
notata da nessuno. Era palese, si trovava a disagio in mezzo alla gente
e non
riusciva a rispondere quando qualcuno le rivolgeva la parola; mi
raccontò che
questi suoi problemi erano sfociati in vere e proprie crisi
d’ansia, e che la
sua incapacità di parlare in pubblico l’aveva
portata a essere rimandata perché
non riusciva ad affrontare le interrogazioni, per quanto studiasse e si
preparasse.
Nonostante i nostri background fossero completamente
diversi, la sentivo affine a me in un certo senso. Non potevamo
considerarci
amiche, ma ci tenevamo compagnia a vicenda, racchiuse
com’eravamo nella nostra
solitudine.
“Perché lei può uscire anche di sera e
noi no?” Crystal
incrociò le braccia al petto e mise su un broncio
indispettito, che faceva
somigliare ancora di più il suo visetto delicato a quello di
una bambina.
“Perché tu e Joice avete tredici anni, non
è bene che
andiate in giro per Londra quando fa buio” ribatté
zia Ruth pazientemente,
affettando la torta appena sfornata che aveva preparato quel pomeriggio.
“Ma potrebbe succederle comunque qualcosa, anche se ha
diciassette anni! Perché è da sola! Invece noi
siamo in due!” contestò Joice,
dando di gomito alla gemella per cercare il suo appoggio.
“Grazie mille per l’augurio” ribattei
piccata,
consultando l’orologio da parete.
“Dai, mamma! Io e Joice vogliamo solo andare a fare
shopping! Ti giuriamo che andremo solo in giro per negozi e saremo a
casa
all’ora che vuoi tu!” tentò ancora
Crystal, sbattendo le ciglia con fare
implorante.
“Ho detto di no. E questo mese vi ho già portato a
fare
shopping.”
Forse era il caso di defilarmi: quelle due palle al piede
stavano già cominciando a farmi venire mal di testa. Era
bastato poco più di un
mese di convivenza per portarmi al limite della sopportazione; quello
era uno
dei motivi per cui cercavo di stare lontano da casa il più
possibile.
“Ma adesso sta uscendo la nuova collezione estiva”
piagnucolò Joice con tanto di labbro inferiore tremante.
“Papà!” sbottò quindi
Crystal, voltandosi di scatto verso
lo zio Lawrence che, accomodato sulla poltrona, era intento a leggere
il
giornale.
Lui non si scompose e alzò solo per un attimo gli occhi
dalla pagina. “Avete sentito la mamma? Non se ne
parla.”
“Non è giusto! Io esco lo stesso!”
ringhiò la ragazzina,
pestando un piede a terra.
“Crystal!” la rimproverò sua madre senza
troppa
convinzione.
“D’accordo, si sta facendo tardi”
annunciai, afferrando
la mia borsa e dirigendomi verso l’uscita del soggiorno.
“Ciao cara! Divertiti e stai attenta!” mi
salutò zia
Ruth, seguita subito dopo dallo zio.
“Ma non è giusto… perché lei
può e noi no?” sentii ancora
Joice.
Mi voltai e guardai dritto negli occhi prima lei e poi
Crystal. “Sapete perché io posso e voi no?
Perché io qui non ho né mamma né
papà che dicono ciò che devo fare, e poi sono
quasi maggiorenne.”
Se alle orecchie delle mie cugine suonava come un motivo
per cui vantarsi, alle mie suonava come una verità
tremendamente triste. Quelle
due non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero fortunate ad avere
due
genitori che si preoccupavano e non facevano mancar loro niente.
Non risposero, ma sulle labbra di Crystal potei leggere
un ti odio appena sussurrato.
Decisi che non valeva la pena spaccarle la faccia e mi
allontanai, pronta a lasciarmi tutto alle spalle e immergermi nel caos
di
Londra. Ormai scene del genere erano all’ordine del giorno,
non ricordavo un
solo giorno di pace da quando avevo messo piede in quella casa.
Raggiunsi la fermata della metro e attesi l’arrivo del
mio treno.
C’erano degli aspetti della mia nuova vita per cui potevo
ritenermi abbastanza fortunata: innanzitutto avevo piena
libertà sulla mia vita
e potevo gestirmi totalmente da sola, non avevo orari da rispettare o
imposizioni di alcun tipo. I miei zii sapevano bene che fino a qualche
mese
prima me l’ero sempre cavata con le mie sole forze e mettermi
dei paletti a
quel punto, a quasi diciotto anni, sarebbe stato davvero ridicolo;
avevo
promesso loro che non avrei causato problemi – non era di
certo mia intenzione
mancare di rispetto alle persone che avevano deciso di ospitarmi senza
ricevere
niente in cambio – e loro, reputandomi una ragazza matura e
responsabile,
avevano riposto in me la più totale fiducia.
Qualche stronzata avrei anche finito per combinarla,
perché fuori dai guai non ci sapevo proprio stare, ma non li
avrei mai e poi
mai coinvolti.
In secondo luogo lo zio Lawrence e la zia Ruth avevano
messo a mia disposizione i loro soldi e, oltre a darmi una sorta di
paghetta
settimanale, erano disponibili a darmi degli extra nel caso ne avessi
avuto
bisogno. Io in ogni caso non approfittavo mai della loro
bontà e cercavo di non
spendere troppo: gli unici costi che dovevo affrontare riguardavano le
sigarette e le tinte periodiche, oltre a qualche sfizio occasionale
riguardante
trucchi e vestiti. Comunque mi facevo bastare ciò che mi
davano – ero sempre
stata abituata a mantenermi con molto meno, quello per me equivaleva al
lusso.
Forse non avrei mai fatto davvero l’abitudine a quel
tenore di vita.
Emersi dalla metro e per prima cosa mi recai al negozio
di dischi a qualche metro di distanza. Sceglievo sempre quella fermata
proprio
perché, passando da quelle parti, mi fermavo a osservare la
vetrina e scoprire
le nuove uscite in ambito musicale. Non avevo ancora fatto nessun
acquisto, non
mi era mai veramente importato: nelle cuffie del mio walkman
risuonavano sempre
le solite cassette che avevo portato con me da Los Angeles e che mi
ricordavano
le giornate spensierate trascorse all’Alibi con i miei amici.
Quella sera però, quando giunsi davanti alla solita
vetrina gremita di vinili e riviste, un articolo in particolare
attirò subito
la mia attenzione. Si trattava di un album con la copertina dalle tinte
cupe,
su cui tuttavia spiccavano le scritte Depeche Mode
e Black
Celebration sulla parte alta. Era la prima volta che mi
capitava di
vederlo, sicuramente si trattava di una nuova uscita.
Non avevo affatto dimenticato la canzone che mi aveva
rubato il cuore non appena ero giunta a Londra, udita quasi per caso
nell’auto
di mio zio; avevo continuato a cercarla per tutto il tempo, ma in quel
mese non
avevo avuto tante occasioni di ascoltare la radio.
Forse poteva essere contenuta in quel nuovo album.
Senza nemmeno rifletterci su, entrai nel negozio e
cominciai a cercare la versione in audiocassetta dell’album
– l’unico formato
che potevo acquistare, dal momento che non avevo un giradischi.
Il proprietario del negozio mi lanciò un’occhiata
dalla
sua postazione dietro il bancone, ma non disse nulla.
Trovai ciò che mi interessava sullo scaffale delle
novità,
presi in mano la custodia e la feci ruotare per poter leggere la
tracklist. Un
brivido mi corse lungo la schiena quando, al numero sette, trovai il
titolo Stripped.
Non sapevo il nome della canzone che mi era piaciuta, ma
avevo riconosciuto quella parola: il cantante l’aveva
ripetuta un sacco di
volte durante il ritornello. Doveva essere quella, senza dubbio.
Tra i titoli ne trovai alcuni che mi intrigarono fin da
subito: Black Celebration – la title
track –, A Question Of Lust,
Here Is The House, World Full Of Nothing,
Dressed In Black.
C’era qualcosa di sinistro, magico e meraviglioso tra quelle
tracce, qualcosa
che mi rappresentava davvero. Solo a stringere quella cassetta tra le
dita, mi
pareva di avere in mano un frammento del mio cuore.
Senza rifletterci troppo su, mi accostai al bancone e vi
poggiai il mio acquisto. “Prendo questo.”
Non avevo nemmeno controllato il prezzo, ma non
importava.
Con la borsa occupata dalla mia nuova cassetta e lo
stomaco pieno di un raviolo al vapore acquistato da un ambulante
cinese,
passeggiavo per le pittoresche vie di Camden. Era la prima volta che
visitavo
quel quartiere di sera e lo trovai ancora più bello e
suggestivo del solito: mi
ricordava tanto l’atmosfera delle boulevard di Los Angeles,
col chiacchiericcio
dei ragazzi che si disperdeva nell’aria e la musica che
fuoriusciva dalle porte
spalancate dei locali. Era il luogo degli eccentrici come me, mi
sentivo a
casa. E nonostante fossi sola non avevo paura, camminavo a testa alta,
quasi
come se avessi calcato quelle vie un milione di volte.
Un pub in particolare attirò la mia attenzione: una band,
probabilmente punk, si stava esibendo dal vivo al suo interno e alcuni
ragazzi
erano sparpagliati sul marciapiede di fronte all’ingresso,
intenti a fumare e
chiacchierare tra loro. A giudicare dal poco che si poteva scorgere,
l’ambiente
non doveva essere molto grande ma aveva un aspetto accogliente,
conferitogli
dalle luci calde e rossastre delle lampade a muro.
Mentre mi facevo più vicina, sentii subito gli sguardi
dei presenti addosso. Era esattamente ciò che volevo:
conoscevo bene sia le
strategie per passare inosservata sia quelle per farmi notare, e quello
era il
momento adatto per sfoggiare le seconde.
Mi fermai accanto a due ragazzi che mi parevano dei tipi
a posto – uno aveva capelli quasi del tutto rasati ed enormi
occhi scuri,
l’altro sfoggiava dei dread castano chiaro e stringeva tra le
dita uno spinello
– e mi accesi una sigaretta con nonchalance.
“Ehi.”
“Ehi” ribatté il tipo dai capelli corti,
accennando un
sorriso.
“Vuoi un tiro?” offrì gentilmente
l’altro, accennando
alla stecca d’erba.
Mi aprii in un sorriso. “Gentile! Accetto solo se
è roba
di qualità” puntualizzai.
Lui annuì. “Garantito.”
Mi passò la canna e io aspirai una boccata. Era da quando
avevo lascialo Los Angeles che non fumavo un po’
d’erba; non era mai stato uno
dei miei principali vizi e non conoscevo nessuno spacciatore affidabile
da
quelle parti.
“Americana?” indagò quello coi capelli
rasati.
“Beccata. Vengo dalla mitica California” confermai.
“Che figata!” si entusiasmò subito lui.
“Oh sì. Comunque questa roba è
buonissima, dovete
presentarmi il vostro pusher” aggiunsi, prendendo un altro
tiro prima di
riconsegnare lo spinello al proprietario.
Lui lo afferrò e sorrise soddisfatto. “Te
l’avevo detto!
Sarà fatto. Prima però dobbiamo aspettare che
scenda dal palco.”
“Ah, è uno della band?”
“Il bassista.”
“Quindi conoscete i tipi che stanno suonando?”
Il ragazzo dai capelli corti fece un ampio cenno di
assenso e ridacchiò. “Conosciamo ogni singola band
che si esibisce nel
sobborgo.”
“Quindi siete abituali della zona. Questa è una
buona
notizia!”
“Tu invece sei qui di passaggio o hai intenzione di
restare?” mi chiese il ragazzo coi dread.
“Resto. Non so per quanto, ma di certo resterò per
un
po’.” Lanciai un’occhiata
all’ingresso del locale. “Ehi, io sono curiosa di
sentire la band! Chi viene dentro con me?”
I due ragazzi sorrisero e mi seguirono.
Non appena mi ritrovai avvolta dalla musica e da quegli
sconosciuti tutti da scoprire, una scarica di adrenalina mi invase le
vene. Mi
sentivo a casa, nel mio ambiente, e improvvisamente avevo voglia di
essere la
Bess di sempre: volevo divertirmi, ridere, stringere amicizia,
flirtare, avere
gli occhi di tutti addosso, essere la star. Volevo indossare nuovamente
quella
maschera che negli anni passati avevo faticato tanto per costruire e
che ormai
era una parte della mia identità.
Ordinai da bere e poi mi gettai sotto il palco, pronta a
scatenarmi e provocare chiunque avesse posato lo sguardo su di me.
Meno di un’ora dopo mi trovavo schiacciato contro la
porta del bagno, ansimante e col corpo in fiamme, con la mano di un
perfetto
sconosciuto infilata nelle mutandine. Era esattamente ciò
che volevo e che
avevo cercato.
Eccomi, la vecchia Bess con le sue vecchie abitudini.
Eccomi, la solita puttanella che si divertiva a fare baldoria e sesso
col primo
che capitava.
Beh, non esattamente il primo. Ci voleva anche
buon gusto per scegliere la giusta scopata.
Mi lasciai sfuggire un gemito spudorato, poi spinsi via
il ragazzo – un moretto ben piazzato niente male –
e mi calai i pantaloni,
scalciandoli via. Rivolsi un sorriso malizioso al mio amante
occasionale, poi
gli diedi le spalle e mi piegai leggermente in avanti.
“Prendimi. Fammi vedere
ciò che sai fare!”
Certe cose non sarebbero mai cambiate, perché in fondo mi
andavano bene così.
“Si può sapere cosa stai facendo in camera
mia?” ringhiai
quando, una volta rientrata da scuola, trovai Crystal che frugava tra i
miei
vestiti.
Vivere con quelle due marmocchie si rivelava ogni giorno
più complicato: ora che mi avevano conosciuto meglio, si
sentivano ancora più
in diritto di ficcare il naso nella mia vita e tormentarmi.
Lei sobbalzò e si voltò di scatto.
“Stavo cercando… non
trovo più la mia giacca rossa, in camera mia e di Joice non
c’è. Volevo vedere
se l’avevi rubata tu!”
“Rubata? E cosa dovrei farmene?” sbottai.
“Ma magari è finita nella tua stanza per
sbaglio.” Joice ci
raggiunse e si piazzò sulla soglia, ispezionando
l’ambiente con lo sguardo.
“Potevate anche chiedermelo come fanno tutte le persone
normali, invece che intrufolarvi come delle ladre in camera mia e
frugare senza
il mio permesso” feci notar loro, mentre riordinavo alcuni
trucchi che avevo
lasciato sul comodino quella mattina, per via della fretta.
“Ma dovevo immaginarlo: una che si veste sempre da vedova
non può avere una giacca rossa in camera. Poi gli altri
vestiti si spaventano
per tutto quel colore” mi punzecchiò Crystal col
suo solito tono impertinente.
“Una tipa che ascolta questa musica strana non può
mica vestirsi di rosso”
aggiunse dopo qualche istante di silenzio.
Tra le due lei era la peggiore: se in Joice si poteva
intravedere un minimo di umanità, Crystal era una sorta di
mostro. Viziata,
egoista, impertinente e irrispettosa.
Lasciai ricadere l’eyeliner che avevo in mano e mi voltai
a guardarla: la ragazzina soppesava la mia audiocassetta di Black
Celebration, la sventolava in aria e la osservava con
disprezzo.
Feci un balzo in avanti con l’intento di strappargliela
dalle mani e la incenerii con lo sguardo. “Lasciala subito.
Hai capito?”
Poteva prendersi anche tutto il mio armadio, ma quella
cassetta doveva lasciarla stare. Era l’oggetto
più prezioso che possedevo.
“E se invece non la lascio?” mi sfidò,
nascondendola
dietro la schiena.
Non esisteva nessuno al mondo in grado di farmi incazzare
tanto. In preda a un accesso d’ira, la immobilizzai e le
afferrai una ciocca di
capelli, strattonandola. Lei strillò e tentò di
dimenarsi, ma non mollai la
presa.
“Lascia subito quella cassetta o ti stacco i capelli uno
a uno” la minacciai in un ringhio.
“Ma solo se tu ci presti i tuoi trucchi”
provò a
contrattare. Piccola bastarda, non cedeva nemmeno sotto ricatto.
“Lascia. Quella. Cazzo. Di. Cassetta” ripetei,
scandendo
bene ogni parola e tirandole nuovamente i capelli per ribadire il
concetto.
Lei piagnucolò per qualche istante e poi mi
restituì la
copia di Black Celebration senza fare ulteriore
resistenza.
“Tanto quella musica fa pure schifo”
bofonchiò una volta
liberatasi dalla mia presa.
“Certo, tu sì che ci capisci qualcosa di
musica” replicai
ironica, sistemando il mio album preferito il più lontano
possibile dalle
grinfie di Crystal.
“Madonna, lei sì che è veramente
brava!” intervenne
Joice, puntandosi le mani sui fianchi.
“Certo…” Evitai di far notare loro che
Madonna non era
nemmeno capace di cantare.
“E poi hai visto il suo stile? È troppo
bella!” proseguì
la ragazzina, assolutamente convinta della sua posizione.
“Sì…”
“Preso! Scappa, Joice!” strillò
all’improvviso Crystal.
Feci appena in tempo a vederla correre via con un mio
kajal in mano, al fianco della gemella, e non ebbi nemmeno il tempo di
reagire.
Le loro grida e risate si persero in corridoio, poi la porta della loro
stanza
sbatté forte.
Feci uno scatto in avanti con l’intento di inseguirle,
poi mi passai una mano sulla fronte. Era dura, tremendamente dura.
Cos’avevo fatto di male per dover combattere contro
quelle due mocciose?
C’erano giorni, più di altri, in cui il suolo
sembrava
cedere sotto i miei piedi e volermi inghiottire.
C’erano giorni in cui le mura della casa sembravano
volermi schiacciare, sommandosi al peso della mancanza che provavo nei
confronti della mia vecchia vita. Quella vita che mi ero voluta
lasciare alle
spalle, ma che in fondo mi aveva seguito fino a lì.
C’erano giorni in cui Crystal e Joice facevano il
possibile per farmi impazzire, e ci riuscivano talmente bene che non
avevo più
la pazienza per tener loro testa. C’erano giorni in cui
riuscivano a darmi
fastidio anche se infilavo le cuffie del walkman e impostavo il volume
al
massimo.
C’erano giorni in cui il panico mi coglieva alla
sprovvista, ma ormai avevo imparato cosa dovevo fare in quei casi per
riprendere il controllo di me stessa: mettere in riproduzione Black
Celebration, uscire di casa e camminare. Non avevo mai una
meta ben
precisa, non mi saltava nemmeno in mente di prendere la metro e recarmi
in
centro. Camminavo per le vie quasi deserte del quartiere, mi lasciavo
avvolgere
dalla musica e respiravo a fondo, finché le lacrime non mi
si asciugavano sulle
guance e tornavo a sentirmi tutta intera.
Quel pomeriggio di inizio giugno era così.
Pensavo che non me ne sarebbe importato niente e che il
mio cervello avrebbe addirittura rimosso quell’informazione,
eppure lo sapevo benissimo:
era la prima volta che trascorrevo l’anniversario di morte di
mia madre lontano
da casa. In un luogo in cui a nessuno importava davvero di me, in cui
non
potevo sfogarmi con nessuno, in cui non avevo una sola persona con cui
distrarmi.
Non appena rimisi piede in casa dopo la scuola un forte
senso di colpa mi invase, insieme alla prima dose di panico dritta in
vena. Lo
conoscevo fin troppo bene e sapevo anche che, se non avessi fatto al
più presto
qualcosa per calmarmi, quel giorno non ne sarei uscita troppo
semplicemente.
L’unica cosa che volevo era farmi trovare nel bel mezzo
di una crisi dai miei zii e dalle mie cugine – non ero
nemmeno certa che
sapessero di quel mio piccolo problema, era
qualcosa che avevo sempre
gestito da sola –, perciò infilai le cuffie alle
orecchie e uscii di nuovo
senza preoccuparmi di salutare o avvisare, con le lacrime che
già mi
ustionavano la pelle del viso e la sensazione di vuoto al centro del
petto.
Camminai e piansi mentre ascoltavo le voci di Dave Gahan
e Martin Gore accarezzarmi le orecchie, e mi sentii infinitamente
stupida e
patetica. Non sapevo nemmeno dire per quale motivo mi sentissi
così disperata,
se per la mia attuale vita o per tutto ciò che avevo perso.
La verità era che
quel senso di vuoto e solitudine avevo cominciato a provarlo
esattamente sei
anni prima e nessuno era mai stato in grado di colmarlo davvero. Volevo
sentirmi ancora una volta una bambina indifesa e fragile che si
rifugiava tra
le braccia della madre, invece ero più sola che mai.
Sollevai gli occhi al cielo, chiedendomi se lei mi stesse
osservando da lassù, ma una coltre di nubi grigiastre mi
impedivano di scorgere
l’azzurro. Anche loro si prendevano gioco di me, si
divertivano a scatenare
quel senso di claustrofobia che mi toglieva il respiro.
Le lacrime smisero di piovere giù per le mie guance
quando finalmente Stripped inondò le mie
orecchie, infondendomi l’ormai
familiare senso di pace e libertà. La mia adorata Stripped,
colei che mi
aveva fatto conoscere il gruppo musicale che mi aveva salvato la vita e
continuava a salvarla ogni giorno, la mia dose di serotonina
giornaliera, la
mia canzone preferita in assoluto.
Come with
me
into the trees
We'll
lay on
the grass and let the hours pass
Take
my hand,
come back to the land
Let's
get away
just for one day
Ascoltai quelle parole, quasi ipnotizzata, ed ebbi una
voglia matta di fuggire e lasciarmi davvero tutto alle spalle, di
afferrare
questa mano immaginaria e lasciarmi trascinare via, lontano dalla
società che
mi ingabbiava ogni giorno di più. Di provare quella
libertà che mi ero sempre
illusa di avere, ma che non era mai stata mia.
Giunta circa alla metà del brano, mi guardai attorno per
la prima volta da quando ero uscita di casa e mi resi conto che le mie
gambe mi
avevano condotto automaticamente nel mio luogo preferito, quello in cui
mi
rifugiavo sempre quando volevo stare da sola. Si trattava semplicemente
di un
piccolo spiazzo piastrellato e delimitato da un basso muretto. Non vi
erano né
panchine né aiuole, ma all’estremità
opposta rispetto alla strada vi era un
parapetto oltre il quale si poteva ammirare il verde rigoglioso di un
parco.
Non avevo mai capito a quale luogo portasse esattamente quel piccolo
strapiombo, forse si trattava di un giardino privato e recintato a cui
non si poteva
accedere – probabilmente era perfino abbandonato, dal momento
che la
vegetazione cresceva indisturbata – ma non mi ero mai posta
il problema: a me
bastava osservarlo dall’alto.
Quando avevo scoperto quello scorcio per un attimo mi ero
sentita un po’ come Mary Lennox, la protagonista de Il
Giardino Segreto,
ma poi mi ero data della cretina e avevo ricordato a me stessa di avere
diciassette anni.
Mi recai a passo spedito verso la mia meta mentre, ancora
con la musica a palla nelle orecchie, mi accendevo una sigaretta, ma
rallentai
di botto e mi sfilai le cuffie quando mi accorsi che lo spiazzo non era
deserto
come al solito.
Un ragazzo dai capelli biondi, che indossava una camicia
chiara a maniche corte e un paio di jeans, se ne stava con i gomiti
poggiati
sul parapetto e fumava una sigaretta in silenzio, guardando dritto
davanti a
sé. Non fui in grado di distinguere nessun altro dettaglio,
dal momento che mi
dava le spalle, ma ero grata per il fatto che non si fosse voltato e
accorto
della mia presenza: dovevo essere in condizioni pessime e sicuramente
non ero
dell’umore per fare delle nuove conoscenze.
Esaminando l’ambiente con più attenzione notai una
moto
nera e lucente, che non avevo mai visto da quelle parti, parcheggiata
sul
ciglio della strada. Ne rimasi subito attratta e mi soffermai a
guardarla: ero
sempre stata affascinata dalle moto e, sebbene non fossi in grado di
guidarne
una, ero sempre salita volentieri con i ragazzi che mi offrivano un
passaggio.
Era tremendamente bello sfrecciare su uno di quei bolidi lungo la costa
della
mia adorata California, col vento tra i capelli e il mare azzurro che
scorreva
al mio fianco…
Mi riscossi da quei ricordi talmente belli da far male e
mi domandai se fosse il caso di defilarmi, prima che lo sconosciuto si
accorgesse della mia presenza. Ma ormai avevo perso troppo tempo: un
attimo
prima che muovessi il primo passo, lui si voltò e mi
adocchiò, per poi mettere
su un’espressione sorpresa.
Che tempismo…
Ormai ero in ballo, tanto valeva danzare; non era da me
fuggire come una bambina colta con le mani nel sacco.
Fingendo indifferenza, presi una boccata di fumo dalla
mia sigaretta e sostenni il suo sguardo. In quel modo potei scorgere
anche i
dettagli del suo viso: doveva avere una ventina d’anni, aveva
il volto dai
lineamenti affilati ma non eccessivamente aggressivi da tipico inglese,
i
capelli mossi non troppo corti gli incorniciavano il viso e si
agitavano appena
per via della brezza. Ma ciò che mi colpì
maggiormente furono i suoi occhi
grigio-azzurri segnati da una profonda tristezza.
Mi venne quasi da ridere: possibile che dovessi attirare
a me tutte le anime più distrutte e dannate? Dovevo avere
una qualche
maledizione.
Lui accennò un sorriso, probabilmente fraintendendo la
mia espressione.
Ero tentata di lasciarlo perdere e andare via per
davvero, ma in fondo quello era il mio luogo
preferito e avevo tutto il
diritto di starci. Mi accostai alla balaustra e vi posai i gomiti a mia
volta,
stando ben attenta a tenere le distanze da quel ragazzo. Fissai un
punto
davanti a me, tra l’erba alta e rigogliosa, ma percepivo
benissimo che il
biondo mi lanciava occhiate di tanto in tanto. Sicuramente era
incuriosito,
anche se cercava a sua volta di fingersi distaccato.
Dopo circa un minuto decisi di dargli una soddisfazione.
“È tua la moto?”
Lui annuì. “Non proprio in realtà:
è di mio fratello
maggiore, ma ormai non la usa più e si può dire
che l’ho ereditata.”
Aveva un modo di parlare gentile e calmo e una voce
piuttosto musicale. Perfettamente in sintonia col suo aspetto, in
effetti.
“È molto figa. Stravedo per le Harley
nere” ammisi, per
poi voltarmi nella sua direzione. “Non l’avevo mai
vista da queste parti.”
Mi sorpresi per la nonchalance con cui stavo conducendo
quella conversazione, visto che ero appena uscita da un attacco di
panico.
Sicuramente avevo ancora gli occhi gonfi di pianto e la voce roca,
forse un po’
di trucco mi si era sciolto e incrostato sulle guance, ma non avevo
modo di
nascondere tutto ciò.
“Nemmeno io ti avevo mai visto da queste parti. E il tuo
accento non è inglese, di sicuro”
osservò.
“Che orecchio!” ironizzai; pure una scimmia se ne
sarebbe
accorta. “Infatti vengo da Los Angeles. O meglio, sono per
metà inglese e per
metà americana, ma ho sempre vissuto in
California.”
“Wow, Los Angeles” commentò con aria
sognante.
Annuii e aspirai l’ennesima boccata di fumo. “Sono
arrivata a Londra qualche mese fa.”
Lui mi guardò stranito.
“Che c’è?” incalzai, inarcando
un sopracciglio.
“No, è che… sei qui da sola? Sembri un
po’…” bofonchiò, leggermente
in imbarazzo.
Mi fece quasi tenerezza: sembrava un ragazzo un po’
ingenuo e timido, non sapeva bene come comportarsi.
“Sembro un po’ piccola, intendi? Me lo dicono
tutti. Ma
in realtà ho diciassette anni, a dicembre di
quest’anno ne compio diciotto.”
Lui sgranò gli occhi.
“E comunque sto dai miei zii, che abitano qui
vicino”
puntualizzai. “Tu? Siamo vicini di casa e lo scopriamo solo
ora?”
“Non proprio… ho fatto un po’ di strada
perché volevo…
stare da solo.” Distolse lo sguardo e finì la sua
sigaretta, prima di
schiacciare il mozzicone sulla balaustra.
“Anche io volevo stare da sola, pensa che
coincidenza… e
in genere venire qui è la soluzione
migliore…” gli feci notare, più per
metterlo alla prova che per cattiveria. Non volevo farlo sentire
davvero in
colpa, in fondo quello era suolo pubblico.
Anche se un po’ la sua presenza mi aveva infastidito,
specialmente all’inizio.
Lui continuò a fissare davanti a sé, senza avere
il
coraggio di spostare lo sguardo su di me. “Non ci vengo mai,
non sapevo che
fosse il tuo posto.”
“Mio… ancora non l’ho
comprato” gli concessi,
accennando un sorriso. “Giornata di merda?” gli
chiesi poi, sperando di porre
rimedio alla mia aggressività che l’aveva
palesemente messo in difficoltà.
Non lo facevo apposta a essere stronza, probabilmente lo
ero di natura.
“Parecchio” ammise, il tono di voce più
basso di
un’ottava. Sembrava davvero distrutto.
“È qualcosa a cui si può porre
rimedio?” mi informai
ancora, improvvisamente curiosa.
“Non saprei, ma a questo punto credo proprio di no.”
“Oh.” Lasciai cadere il silenzio e continuai a
fumare.
Non volevo comunque essere troppo invadente.
“Anche tu non sembri troppo contenta e in pace col
mondo”
notò lui dopo diversi secondi.
Mi finsi stupita. “Davvero? Cosa te lo fa pensare?”
scherzai.
Lui ridacchiò. “La rigiro a te: è
qualcosa a cui si può
porre rimedio?”
D’accordo, quel tipo era più sveglio di quanto mi
fosse
sembrato. Stava cominciando a piacermi.
E mi aveva anche posto una domanda a cui non sapevo
rispondere.
Mi strinsi nelle spalle. “Casini in famiglia.”
Il riassunto della mia intera esistenza, in pratica.
“Senti, non ci conosciamo e non voglio sembrare
inopportuno, ma…” Distolse nuovamente lo sguardo.
“Se ti va di parlarne, io ti
ascolto volentieri. A volte aprirsi con un perfetto sconosciuto
può essere
terapeutico.
“E chi mi assicura che non userai i cazzi miei per
ricattarmi?” scherzai.
Lui rise. “Ma se non so nemmeno il tuo nome!”
“Ah già!” Gettai il mozzicone a terra e
lo schiacciai con
la punta della scarpa. “Per riassumere, si può
dire che adattarsi in un luogo
totalmente nuovo non è impresa facile e la famiglia dei miei
zii non mi sta
dando una mano, specialmente le mie cugine. Non auguro nemmeno al mio
peggior
nemico di vivere con loro.”
Omisi giusto un paio di dettagli, come l’anniversario di
morte di mia madre, l’alcolismo di mio padre, la situazione
di merda che mi
aveva spinto a trasferirmi, gli attacchi di panico e il senso di
spaesamento
che provavo ancora nei confronti di Londra. Del resto non mi sarei mai
aperta
così tanto con nessuno.
“Comprensibile.”
“A te invece che è successo?” gli chiesi.
“Beh…” Si passò una mano tra
i capelli, a disagio. “Oggi
io e la mia ragazza abbiamo rotto dopo quattro anni di
relazione.”
Sgranai gli occhi. “Cazzo!”
“Già.”
“Quattro anni!” Non riuscivo nemmeno a immaginare
un
legame così duraturo, visto che i miei rapporti con
l’altro sesso erano durati
al massimo il tempo di una scopata.
“Quando è cominciata io avevo sedici anni. Siamo
praticamente cresciuti assieme.” La sua voce era colma di una
sofferenza che
era quasi difficile da ascoltare: doveva tenerci davvero tanto.
“E scommetto che è stata lei a
lasciarti.”
“Sì.”
“Che stronza!”
Lui sorrise mestamente. “Non è stata stronza,
semplicemente ha capito che stavamo crescendo e prendendo direzioni
diverse.”
Sospirai. “D’accordo, non dico mai la cosa giusta.
Sto
zitta!”
Lui rise. “Comunque ora che entrambi abbiamo svelato
qualcosa di compromettente sul nostro conto possiamo anche rivelarci i
nomi. A
nessuno dei due conviene ricattare l’altro.”
Sorrisi appena e gli tesi la mano – mi resi conto solo
allora che mentre parlavamo ci eravamo fatti più vicini.
“Bess. Devo pure
stringerti la mano come fanno i vecchi?”
Lui scoppiò a ridere e la afferrò. “I
vecchi?”
“Andiamo, a Los Angeles nessuno sotto i
quarant’anni si
presenta con una stretta di mano!”
“Nemmeno con i professori universitari?”
“E che ne so? Sono ancora al liceo! Comunque non mi hai
detto il tuo nome.”
“Ah già!” Rise nuovamente. “Io
sono Cole.”
Annuii. “Cole. Quindi tu ne sai più di me riguardo
all’università, suppongo” indagai,
studiandolo con attenzione.
Lui si strinse nelle spalle. “Ci studio.”
“Indirizzo?”
“Filosofia.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Oddio.”
Lui piegò la testa di lato e sorrise sornione.
“Adoro vedere
la reazione della gente quando svelo la mia facoltà.
Comunque cos’hai contro la
filosofia?”
“Beh… non serve a un cazzo!”
“Oh, sì che serve. A un sacco di cose.”
Sollevai un sopracciglio. “Per esempio?”
Cole ci rifletté su per un attimo, poi schioccò
le dita.
“Sai cosa sostiene Nietzsche, uno dei più grandi
filosofi tedeschi?”
Scossi il capo.
“Senza musica la vita sarebbe un errore”
enunciò
lui, accennando al mio walkman.
Sorrisi beffarda. “A questo ci ero arrivata pure io, e
non sono neanche Nietzsche! Però ha ragione”
dovetti riconoscere, mentre
estraevo la mia cassetta preferita e me la rigiravo tra le mani. La
amavo così
tanto che anche solo averla a contatto con la pelle mi faceva stare
meglio.
“Cos’è?” si
incuriosì lui dopo una veloce sbirciata.
“Black Celebration dei Depeche Mode.
Conosci?”
Lui scosse il capo. “Beh, veramente… non sono
molto
pratico, non ascolto quasi niente.”
“Ma come? Studi Nietzsche e non segui i suoi consigli?
Che razza di filosofo sei?” lo presi in giro, teatralmente
indignata.
Lui scoppiò a ridere. “In mia discolpa posso dire
che a
casa mia non si ascolta quasi mai musica, i miei genitori preferiscono
il
silenzio.”
“Che tristezza” commentai, pescando
un’altra sigaretta
dal pacchetto. “Ne vuoi una?” proposi a Cole.
“No, grazie, io non fumo.”
Mi accigliai. “E quello che avevi prima tra le dita
cos’era, un bastoncino di liquirizia?”
“Era un caso eccezionale. Ma ora non ho più voglia
di
fumare.”
Ci scambiammo uno sguardo che significava tanto. Cole mi
stava implicitamente ringraziando perché ero riuscita,
grazie alle mie continue
chiacchiere, a distrarlo e fargli dimenticare anche solo per un istante
il
motivo per cui si trovava là.
E anche io, dovevo ammetterlo, mi ero del tutto ripresa
dall’attacco di panico e anche il senso di angoscia mi aveva
abbandonato.
Ma come al solito mi sentii in dovere di aggiungere
qualcosa per rovinare il momento quasi carino che si era andato a
creare.
“Certo che sei strano, comunque.”
Lui sorrise. “Anche tu non scherzi, a dire il vero.”
“Cole?”
“Sì?”
“Ho il trucco sbavato sulle guance, vero?”
Lui sorrise – aveva proprio un bel sorriso, gentile e
luminoso. “Sì.”
“Cazzo!”
“Che importa? Siamo solo noi due.”
“Faccio spavento sicuramente” mi lamentai,
passandomi il
dorso di una mano sulla guancia – come se ormai potesse
servire a qualcosa.
“È da più di mezz’ora che
parliamo e ancora non sono
scappato. Secondo te sono spaventato?”
Feci spallucce. “In effetti se ancora non sei fuggito a
gambe levate, o non sei un essere umano o hai una pazienza
invidiabile.”
Ci sorridemmo e io sentii che Cole non sarebbe più
scappato.
E sentii che nemmeno io sarei più scappata.
Ma soprattutto sentii che forse, dopo anni di ricerca,
avevo trovato qualcuno in grado di farmi sentire a casa. Almeno un
po’.
Mi richiusi l’uscio alle spalle, sentendo il rombo della
moto di Cole che sfrecciava via per la strada.
Io e lui continuavamo a vederci spesso, era l’unico che
potessi considerare un amico da quando ero arrivata a Londra. Spesso
andavamo
in giro sulla sua moto o ci recavamo in centro per confonderci tra la
folla e ricercare
nuove avventure.
Lui era totalmente diverso da me, potevamo considerarci
agli antipodi: Cole era un bravo ragazzo, proveniente da una buona e
tranquilla
famiglia, con un carattere mite e tanti sogni per il futuro. Studiava
all’università, rigava dritto e non si metteva mai
nei guai.
Il nostro legame era quasi surreale – l’avevo
pensato fin
da subito – ma c’erano tante cose che ci
accomunavamo: la passione e la
curiosità per l’arte, il modo di pensare fuori
dagli schemi, il senso
dell’umorismo e perfino la riservatezza sulle questioni che
ci riguardavano.
Quando stavo con lui mi sentivo più pulita,
più
matura, più spensierata; una ragazza come tante altre. Era
una sensazione che
per le strade di Los Angeles non avevo mai provato.
Mi trovavo ancora nell’ingresso, intenta a sfilarmi il
giubbotto in pelle che indossavo sempre quando salivo in moto con Cole,
quando
mi resi conto di essere osservata. Aggrottai le sopracciglia e lanciai
un’occhiata a Joice e Crystal, che se ne stavano in piedi
all’imboccatura del
corridoio con gli occhi colmi di curiosità e aspettative.
“Che avete?” sbottai, già temendo la
conversazione che si
sarebbe sviluppata.
“Chi era quel tizio?” incalzò subito
Crystal con malizia.
“Quale tizio?”
“Il biondo con la moto. Ti abbiamo appena visto con lui
qui fuori!”
“Ma voi non vi fate mai i cazzi vostri?” le
liquidai
irritata, superandole e dirigendomi verso camera mia.
Ma, com’era prevedibile, non avevano intenzione di
mollare: mi stettero alle calcagna continuando a ridacchiare e portare
fuori
congetture.
“È il tuo ragazzo?” domandò
Joice.
Mi venne quasi da ridere: Cole, il mio ragazzo?!
“Non vi riguarda.”
“Ma noi lo vogliamo sapere! Dai!” insistette Joice.
Lei e
la gemella si erano intrufolate fin dentro la mia stanza.
Sbuffai e le ignorai, andando in cerca di qualcosa di più
leggero da indossare. Faceva un caldo tremendo quella sera.
“Possiamo sapere almeno come si chiama?”
proseguì
Crystal, tuffandosi sul mio letto.
“Volete uscire o preferite che vi spedisca fuori a suon
di calci in culo?”
“Se non ci vuole dire niente è perché
sono davvero
fidanzati” insinuò Joice in tono cospiratorio,
ridacchiando.
“Non è il mio ragazzo! Contente? Che ve ne
importa?”
Joice lanciò un gridolino. “Ma come no?
È così bello…”
“Ora che so che non state insieme, posso farmi avanti
io”
cinguettò Crystal.
Mi voltai lentamente e le lanciai un’occhiata allibita.
“Tu?!”
Lei sorrise sorniona e si passò le dita tra i lunghi
capelli perfettamente pettinati. “Sei gelosa? Se non te lo
prendi tu, è davvero
un peccato lasciarlo a qualcun altro! È così
bello… e così sexy! Con quella
moto poi…”
Scoppiai a ridere: era surreale sentir parlare così una
ragazzina di nemmeno quattordici anni che fino al giorno prima pestava
i piedi
per avere le caramelle da mamma e papà. Mi strinsi nelle
spalle. “Se vuoi provaci
pure, ma ho molti dubbi che farai breccia nel cuore di Cole.”
Joice e Crystal erano delle bambine in confronto a lui,
al massimo avrebbe potuto far loro da baby sitter.
“Oh, si chiama Cole? Ha anche un nome stupendo!” si
entusiasmò lei, lanciando un’occhiata complice a
Joice.
“Oddio…” bofonchiai tra me, richiudendo
l’anta
dell’armadio. “Adesso ve ne potete andare?
Grazie.”
“Sei gelosa?” si informò Joice.
“Sì, tantissimo” ribattei in tono
sarcastico.
“Quando vi dovete vedere la prossima volta?”
continuò
Crystal.
Ora basta.
Mi avvicinai a loro, afferrai Crystal per la maglietta e
la strattonai per farla alzare dal mio letto, poi la spinsi verso
l’uscita e
feci altrettanto con la gemella, prendendola per un polso.
“Sparite o non
risponderò più delle mie azioni!”
Ignorai le loro proteste e, una volta sola, chiusi con
forza la porta e girai la chiave. Mi stavo già pentendo di
essere rincasata e
non aver direttamente cenato fuori.
Le acque torbide del Tamigi scorrevano e ribollivano
davanti ai nostri occhi; quando faceva caldo avevo
l’impressione che fossero
ancora più sporche del normale, che si trasformassero quasi
in una palude. Non
che mi interessasse troppo, ma quando la scrutavo sentivo la forte
mancanza del
mio amato Oceano Pacifico, in cui tante volte mi ero immersa.
Sbuffai fuori una nuvola di fumo e lanciai una fugace
occhiata a Cole, che se ne stava appollaiato sull’erba al mio
fianco e aveva a
sua volta lo sguardo perso nel fiume. “Un’altra
volta mi ero addormentata in
spiaggia dopo un falò” ripresi il racconto che
avevo lasciato a metà, “e il
giorno dopo mi sono risvegliata con la faccia tempestata di punture di
zanzara.
Ti giuro, sembravo un colabrodo!” Sorrisi al ricordo per
metà traumatico e per
metà esilarante. Mi piaceva condividere le follie che mi
erano capitate – e che
avevo combinato – con Cole, era il modo più
sincero che avevo per raccontargli
del mio passato. Non gli parlavo quasi mai delle parti più
brutte e dolorose,
ma semplicemente perché speravo di dimenticarle e rivangarle
non avrebbe
aiutato.
Cole rise. “Un ricamo sulla faccia, praticamente! Ti
prego, dimmi che hai una foto ricordo!”
“Non ce l’ho, e se ce l’avessi
sicuramente non la
sbandiererei ai quattro venti!” Gli diedi di gomito.
“Tu ci ridi sopra, ma
quegli stronzi dei miei amici hanno davvero provato a unire i puntini
per
vedere se saltava fuori un disegno…”
“Geniali!”
“Bastardi” lo corressi, per poi sorridere
nostalgica. “E
quella non è stata nemmeno la volta peggiore! Non hai idea
dello sfogo e
dell’infiammazione che ho avuto quando ho fatto
questo” raccontai, accennando
al piercing al sopracciglio destro.
“Quando l’hai fatto?”
“Mmh… due o tre anni fa, più o meno. E
proprio quel fine
settimana dovevo andare a un concerto in Sunset Strip, ero disperata!
Io e
Muriel avremo finito almeno due confezioni di fondotinta per coprire
quel
casino!” Ridacchiai, rivivendo nella mente quel momento
disastroso eppure a suo
modo magico. “Però alla fine è stato
divertente…”
Persi nuovamente lo sguardo nel fiume e repressi un
sospiro. Avevo sempre pensato di non appartenere a nessun luogo in
particolare,
avevo sempre detestato la mia casa e il mio quartiere che mi aveva
tolto la
voglia di sognare, mi ero sempre lamentata della mia vita e del mio
continuo
senso di insoddisfazione; quando mi si era presentata
l’occasione di partire,
l’avevo fatto senza pensarci due volte e senza mai voltarmi
indietro.
Ma in fondo, per quanto mi costasse ammetterlo, mi
mancavano quelle giornate della mia vecchia e incasinata vita. Mi
mancava
l’Alibi, mi mancavano i locali di Hollywood e i concerti glam
rock, mi mancava
il mare. Mi mancavano Muriel, Fanny e tutti i miei amici, mi mancavano
i
ragazzi con cui andavo a letto.
Forse stavo arrivando a sentire la mancanza addirittura
di Yelena e di mio padre.
Anche se faticavo a definire Los Angeles casa, un
frammento di me probabilmente era rimasto laggiù.
“Ehi” mormorò Cole, sfiorandomi appena
un braccio per
attirare la sua attenzione.
Non risposi e non mi mossi.
“Momento di nostalgia?” proseguì lui, la
voce gentile e
venata di apprensione.
“Detesto ammetterlo” replicai soltanto, prendendomi
la
testa tra le mani. Non era da me comportarmi così, in genere
cercavo di
mostrarmi sempre contenta e forte, ma certe volte il vuoto al centro
del petto
si faceva troppo grande. E a Cole non potevo nascondere niente, non ne
sentivo
il bisogno.
Lui non aggiunse altro ma, dopo qualche istante di
esitazione, si accostò maggiormente a me e mi
circondò le spalle con un
braccio.
Rimasi spiazzata, quasi spaventata da quel contatto:
nessuno mi dedicava mai gesti d’affetto come quello, nessun
ragazzo osava
sfiorarmi a meno che il suo intento non fosse quello di portarmi a
letto – non
gliel’avevo mai concesso, del resto.
Eppure non mi sentivo a disagio, sapevo che Cole era mio
amico e fidarmi di lui mi veniva spontaneo. Abbandonai il capo sulla
sua spalla
e mi accoccolai accanto a lui, godendomi quell’insolito
attimo di dolcezza e
sentendo pizzicare gli occhi. Era una sensazione che mi faceva sentire
debole,
patetica, ma non fui in grado di sottrarmi a quell’abbraccio.
Restammo in silenzio per diversi minuti, Cole non compì
nessun altro gesto e si limitò a tenermi vicina con una
naturalezza talmente
bella da spezzarmi il cuore. Non sapevo cos’avessi fatto per
meritare un amico
del genere, ma improvvisamente – forse per la prima volta
dopo anni – mi sentii
fortunata.
Era vero, non appartenevo a nessun luogo, la mia anima
era nomade e non si era mai davvero sentita a casa. Ma un frammento di
essa
apparteneva a quell’angolo di mondo accanto a Cole; un
frammento apparteneva
alla mia vecchia casa, un frammento apparteneva all’Alibi, un
altro frammento
apparteneva alle strade colorate di Camden e chissà in quali
altri luoghi avrei
lasciato un pezzetto di me.
Quanti altri casini avrei combinato, quante altre volte
mi sarei spezzata le ossa e quanti cocci avrei dovuto raccogliere da
terra per
rimettere insieme quel casino che era la mia vita. Ma in fondo avevo
solo
diciassette anni e la mia strada la dovevo ancora trovare, la mia casa
la
dovevo ancora cercare.
Quindi mi sarei rialzata e sarei andata avanti. Con le
mie forze e le mie insicurezze, come sempre, ma non mi sarei mai
fermata.
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♠ ♠
E siamo giunti al terzo e ultimo capitolo di questa
raccolta interamente dedicata a Bess! Forse qualcuno dirà
“finalmente”, visto
che tirando le somme sono in tutto 30.000 parole, ma a me dispiace
tantissimo.
Amo Bess, ho amato scrivere la sua storia e potrei scrivere ancora e
ancora; la
stesura di questa raccolta è di un’importanza
enorme, sia per me in quanto
autrice sia per la serie.
Ma non temete: questa ragazza ha ancora tanto da dire e
sicuramente tornerà presto, in altre storie e in altre
situazioni.
Ed ecco che, con la parentesi londinese, introduco un
nuovo personaggio: Cole. Che ve ne pare di lui?
Non mi sento di aggiungere tanto, vi lascio solo a una
piccola notina: Black Celebration è il
quinto album dei Depeche Mode,
pubblicato il 17 marzo del 1986; seppur non tra i più
celebri lavori della
band, segnò il passaggio della band da un synth pop allegro
tipico degli anni
Ottanta un sound più cupo e denso di sperimentazioni, quello
che ha reso famosi
e riconoscibili i Depeche Mode. Questi ultimi sono e sempre saranno il
gruppo
preferito di Bess – spoiler non spoiler XD – e ho
pensato che questo fosse il
disco giusto per farglieli scoprire, in una fase della vita
così delicata.
Stripped è la settima traccia
dell’album, nonché
primo singolo estratto (10 febbraio 1986); a mio parere è di
una bellezza e una
potenza incredibili. Vi lascio qui il link:
Stripped
Grazie a chiunque sia giunto fin qui, spero davvero che
leggere questa storia vi abbia emozionato e coinvolto come hs
emozionato e
coinvolto me scriverla!
Ci si vede presto per un nuovo viaggio e una nuova
avventura ♥
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