Mente e corpo
Mente e corpo
«
E staccati da quel libro, Haruhi! », la voce di Kaoru
è
scherzosa, mentre cerca di sfuggire alle palle di neve con cui lo
bersaglia Hikaru; io sorrido loro, e non ribatto.
Emetto solo un
«…
Ehi!» carico di disappunto, quando un ridente Honey mi
strappa di
mano la copia annotata del Genji
Monogatari.
Lo sforzo di riappropriarmene è del tutto vanificato da
Mori,
che prende in braccio Honey ponendo il minuto erede degli Haninozuka,
il mio libro ancora in mano, del tutto al di fuori della mia portata.
Stancamente, mi siedo
sulla
morbida poltrona del porticato riscaldato: fuori, nel giardino
innevato, i membri dell’Host Club intrattengono le clienti
con
sfide a palle di neve, servendo loro cioccolata calda sui bassi
tavolini. Sbuffando di disappunto per il fatto che sono stata
interrotta nello svolgimento dei compiti di Giapponese Moderno per il
giorno dopo, non mi resta che dedicarmi anch’io
all’intrattenimento delle clienti, che prontamente
–
vedendo il loro beniamino, lo studente borsista, libero dai suoi doveri
– mi vengono incontro, sedendosi anche loro attorno a me.
« Non vieni
fuori con gli
altri, Haruhi? » mi domanda, in tono gentile, la
più bassa
e minuta di loro, quella che risponde al soprannome di Lady Osamuhi.
Faccio un cortese
cenno di diniego
col capo, sorridendo – il mio sorriso “da
sfinge”,
quello che riservo alle clienti e, occasionalmente, a Tamaki: gentile,
dolce, ma qualunquista, privo di qualsiasi significato – e
versando con garbo la cioccolata a Lady Takashima, seduta di fronte a
me in una comoda poltroncina gemella alla mia.
« No,
perdonatemi
tutte… » dico, garbata, « ma gli esami
si avvicinano
e, come sapete, i miei risultati devono mantenersi alti…
»
I loro urletti
estasiati e i loro
sorrisi adulatori a queste parole (che, mi rendo conto, devono suonare
cariche di qualcosa di simile a falsa modestia e preteso eroismo) mi
lasciano a intendere che ho detto la cosa giusta; se non che, come al
solito, Tamaki interrompe le sue attività, per dire la
propria
circa la mia ultima dichiarazione.
« Ah!
» esclama,
avvicinandosi e portandosi la mano alla fronte con un gesto teatrale,
« la nobile missione del volgo, che, contrariamente agli
appartenenti ai dorati ceti dominanti, non può dimenticare
nemmeno per un istante l’incessante, logorante lavorio cui
è sottoposto a causa della malevola ruota del
destino…
»
Il resto del
delirante discorso si
perde, mentre la mia mente vaga, senza prestargli più
attenzione, come al solito quando si lancia nei suoi voli pindarici.
… e, ovviamente,
quei cinque, dorati minuti in cui posso distrarmi in delicate
digressioni sul significato della vita, sul recondito segnale della
caducità della giovinezza lanciatoci dalla neve che si
scioglie
o – più spesso e più prosaicamente
– su cosa
cucinare per cena, vengono definitivamente rovinati dallo stesso
individuo che mi ha fornito il pretesto per cominciarli.
«
… ed eccoci qui,
con il simbolo perfetto di questo processo appena descrittovi!
» conclude Tamaki, in tono magniloquente e
trionfante,
poggiandomi una mano sulla spalla e guardandomi con un’aria
mista
tra l’ammirazione forzata e il compassionevole. «
Il
ragazzo del popolo, grande lavoratore, che per riuscire nella vita non
può contare sul denaro, su amicizie importanti, o su
fascino,
carisma, bellezza come noialtri, giovani gentiluomini di famiglia
avita… » osserva, « ma solo sulle sue
capacità... o sul suo cervello!
» dichiara, tremando per lo sdegno, scuotendo la testa in
modo
estremamente drammatico (effetto amplificato dalla luce ambrata dei
lampadari che si riflette sul taglio all’ultima moda dei suoi
capelli castano chiaro), mentre la maggior parte delle nostre ospiti lo
guarda rapita, annuendo. Qualcuna, addirittura, si asciuga una lacrima
nel fazzoletto di pizzo.
Quanto a
me… sono
estremamente irritata dalla retorica strombazzante e disinformata del
suo discorso, dalla generale banalità e
prolissità dei
contenuti, nonché dall’espressione schifata che
assume il
viso di Tamaki ogniqualvolta si trova a pronunciare la parola ”lavoro”
(neanche fosse un’attività infamante).
Quindi,
giunti all’enfatica pausa finale, mi volto e do fiato alla
prima
risposta graffiante che mi si affaccia alla mente.
«
Tamaki… »
esordisco, richiamando la sua attenzione (cosa non facile, preso
com’è a incassare i complimenti estasiati delle
clienti e
a pavoneggiarsi).
«
Sì, oh mio ingenuo,
sfruttato virgulto della classe lavoratrice? » è
la sua
risposta al mio appello.
« Il
vantaggio di essere
intelligente è che si può sempre fare
l'imbecille, mentre
il contrario è del tutto impossibile » sciorino,
con
espressione indifferente.
Vedere il suo sorriso
incrinarsi
in una faccia pietrificata, mentre inizia a correre di qua e di
là emettendo versi strozzati e scandalizzati è un
piacere.
Immediatamente, sul
viso mi si
delinea un rilassato, cortese sorriso “da sfinge”,
mentre
mi rivolgo nuovamente alle clienti e Renge sfarfalla in giro con un
taccuino e una macchina fotografica, cianciando di un
possibile ”…
allontanamento e rottura tra i membri dell’Host Club a causa
delle illazioni offensive di Tamaki, dettate da gelosia nei confronti
della relazione troppo intima tra
Haru-chan e Honey”.
«
Haru-chan, Haru-chan! » sento esclamare la voce di Honey, che
mi corre incontro.
Dopo un’ora
circa, le
clienti sono andate via, e i membri dell’Host Club si
ritirano
nell’Aula di Musica Numero Tre (ormai sede del club stesso)
per
“fare il punto della giornata” (il che, immagino,
significa
non far niente per tutti noi… eccettuato, ovviamente,
l’impegnatissimo Kyoya).
L’erede
degli Haninozuka mi
si fionda in grembo, una fetta di torta in una mano e il mio libro
nell’altra; con disappunto, noto che la copertina –
già frusta, dal momento che l’ho acquistato usato
alle
medie – è macchiata di panna.
« Tieni!
» dice Honey,
porgendomelo e addentando la torta, con un sorriso che gli va da una
parte all’altra del faccino; benché intenerita,
non posso
fare a meno di trattenere un gemito di disappunto nel constatare che
ora, sul viso di Genji rappresentato in copertina nella riproduzione di
una stampa ukiyo-e, si allarga
un’indistinta chiazza collosa e biancastra.
Noto che Tamaki mi si
è
avvicinato, senza dir niente; evidentemente,
l’arrabbiatura
per la mia rispostaccia dev’essergli passata. Insieme a lui
si
appropinquano al divanetto anche tutti gli altri membri
dell’Host.
« Proprio
non so
perché tu legga così tanto, Haruhi »
osserva un
Hikaru incuriosito ma distratto, lisciandosi le pieghe della giacca
azzurro polvere dell’Ouran. « Voglio dire, in fondo
che
bisogno hai? Il Genji
Monogatari
ormai lo saprai a memoria… »
In effetti
è vero, ma…
«
L’esame di
Giapponese Moderno si avvicina, e ogni volta che lo rileggo mi sembra
di comprendere aspetti nuovi, in quest’opera»
replico, in
tono molto ragionevole.
Come tutte le mie
osservazioni
proferite in tono molto ragionevole, non viene presa in considerazione,
dal momento che si intromette anche Kaoru, che mi si siede a fianco.
Poiché ho Honey sulle ginocchia, Hikaru a destra e Kaoru a
sinistra, mentre Tamaki alle mie spalle mi osserva in silenzio, Mori
è in piedi a fianco del divano e Kyoya, seduto di fronte a
me in
una poltrona, armeggia con il portatile che ha sulle ginocchia, mi
sento circondata. E da gente interessata solo
a dir la propria, certamente non ad ascoltarmi.
« Ho preso
lezioni di
lettura veloce ed adesso sono capace di leggere Guerra e Pace in venti
minuti » dichiara Kaoru, per contrappeso alla domanda del
fratello.
« Davvero,
Kao? »
domanda Honey, sgranando gli occhioni, il faccino sporco di crema
pasticcera che Mori, silenzioso come al solito, gli sta pulendo.
Kaoru annuisce,
serio, drappeggiandomi un braccio intorno alle spalle.
« Parla
della Russia » afferma, come se avesse rivelato una grandiosa
verità.
Senza riuscire a
trattenermi,
scoppio a ridere. Anche Hikaru, Kaoru e Honey mi seguono a ruota nella
risata, il che fornisce ai due gemelli la possibilità di
avvicinarsi da un lato all’altro del mio viso, guardandomi
con
espressioni seducenti e insinuanti.
La mia risata
s’interrompe, mentre, con espressione esasperata, aspetto che
facciano il loro solito show.
« Non devi
aver paura di
noi, Haru… » mormora, malizioso, Kaoru al mio
orecchio,
prima di sistemarmi una ciocca di capelli in disordine.
«
Davvero… »
annuisce, in risposta, Hikaru, prendendomi una mano e baciandomi il
palmo. « In fin dei conti, noi siamo qui solo per il tuo
piacere… non è vero, Kaoru? »
«
Ovviamente, Hikaru… » mormora l’altro
gemello Hitachiin, baciandomi l’altra mano.
Rimangono a
osservarmi fissa per qualche secondo finché,
prevedibilmente, la reazione isterica di Tamaki arriva.
Puntuale come le
tasse.
«
Staccatevi immediatamente!
» esclama, gettandosi sui due e gesticolando furiosamente,
« Voi, maniaci, detestabili, pedofili, seduttori di giovani
innocenti, papà vi impedirà di…
»
E, mentre i due
fuggono ridendo
dalla rabbia del King dell’Host Club, io li ignoro tutti e
tre e
mi reimmergo nella lettura.
« Aspetta
Haru! »
è la voce di Kaoru quella che mi blocca, mentre ci dirigiamo
verso l’atrio per uscire dall’Ouran e
tornarcene a
casa. « Ti accompagniamo a casa noi, piove a dirotto e tu non
hai
l’ombrello! »
« No,
grazie! » mi schermisco, segretamente inorridita
all’idea di passare altro
tempo
con quei due.
«
Insistiamo! » si
aggiunge allegramente l’altro gemello, comparendo
all’improvviso alle mie spalle. « Non permetteremo
assolutamente che tu faccia l’intero viaggio su uno di quei
carri
bestiame camuffati da veicoli… », ecco, appunto,
«
che voi chiamate autobus ».
Il suo tono sarebbe
definitivo, e sto per rifiutare ancor più recisamente di
prima, quando appare anche Tamaki.
Ma
non c’è modo di liberarsi di ‘sti tre?
penso, al culmine dell’esasperazione. Apro bocca,
intenzionata a
dar voce alla mia ferma intenzione di usare i mezzi pubblici, quando
Tamaki mi previene.
« No!
» osserva,
sorridendo. « Ma come, Haruhi, non ricordi? Oggi avevi
promesso a
papà il privilegio di portarti a casa… »
I gemelli lo
squadrano, sbalorditi da queste parole, mentre io rimango a bocca
aperta.
«
Ma… » provo a
ribattere, ma Tamaki mi prende per mano e mi trascina (letteralmente) a
bordo della limousine lunga un chilometro che aspetta appena fuori
dall’ingresso.
L’atmosfera
all’interno della macchina è a dir poco tesa.
Perlomeno da
parte mia: mi è impossibile, infatti, intuire anche solo
lontanamente le ragioni del perché Tamaki proprio oggi abbia
fatto ricorso a un simile sotterfugio per accompagnarmi
Lui, invece, sembra
perfettamente rilassato: come un bambino che ha finalmente ottenuto
ciò che voleva.
« Uffa, che
stress! »
esclama, a un certo punto, rompendo il silenzio creatosi. «
Liberarsi degli Hitachiin è quasi impossibile…
»
Annuisco, fissandolo.
« Quello
che non capisco è perché tu ti sia voluto…
» come sempre, vengo interrotta.
Stavolta, da un
enorme pacco,
racchiuso in preziosa carta da regalo a colori vivaci (un fitto motivo
di ventagli dorati e fiori di ciliegio su fondo crema), legato con un
sontuoso fiocco in velluto verde smeraldo.
Tamaki me lo porge
con un sorriso
strano. Non quello allegro che rivolge ai suoi amici, non quello
melenso e teatrale che riserva alle clienti, ma un sorriso
vero.
Più simile a quello che ha quando parla di sua madre che a
tutti gli altri, studiati e, in certo modo, falsi che sfoggia di solito.
«
Aprilo» dice. « È per te».
Attonita, troppo
stupita persino per ribattere o rifiutare il dono, sciolgo il nastro e
apro la carta.
E, quando finalmente
ne scorgo il contenuto, trattengo il fiato per lo stupore.
È una
pregiatissima edizione di Genji
Monogatari,
risalente apparentemente agli anni venti, in piena Restaurazione Meiji.
Il formato è enorme, la spessa copertina è
rilegata in
una delicatissima seta seppia, presumibilmente ingiallita dal tempo, in
cui i caratteri kanji che ne delineano il titolo
sono stati tracciati a mano, in china nera, con un’elegante
calligrafia.
A fianco del titolo,
un
meraviglioso disegno, eseguito anch’esso a mano, raffigura
una
dama in abito di corte Heian (l’uni-jitoe,
i tradizionali dodici kimono sfoderati sovrapposti che
all’epoca
costituivano la veste femminile negli ambienti reali), i lunghissimi
capelli che si dilungano fino all’orlo della copertina,
svanendo.
Presumibilmente, il disegno raffigura Murasaki Shikibu,
l’autrice
del romanzo.
«
È… »
deglutisco, gli occhi dilatati per l’emozione di stringere
tra le
mani un simile capolavoro, « è bellissimo… »
« Vero?
» osserva
Tamaki, con voce delicata e gentile, senza rompere l’incanto
di
questo momento. « Se lo apri, scoprirai che
all’interno ci
sono illustrazioni dipinte a mano praticamente su ogni
pagina…
» spiega, in un tono garbato che raramente gli ho sentito.
Faccio per aprirlo,
ma nel momento
in cui sto per alzare il frontespizio mi rendo conto improvvisamente di
quanto deve costare un volume simile. Pertanto…
« Non posso
accettarlo» concludo, sia pur a malincuore, prendendolo e
posandolo delicatamente sulle ginocchia di Tamaki, che mi guarda
sbalordito.
Evidentemente, per
una volta non si aspettava davvero che avrei osato rifiutare un
dono tanto confacente alla mia natura.
«
Perc… »
Ne prevengo
l’obiezione.
«
È un oggetto troppo di valore, non posso veramente
accettarlo » concludo, in tono fermo.
Tamaki rimane qualche
momento a incassare la risposta, poi quel suo sorriso gli ricompare in
viso.
« Quando
oggi Kaoru ti ha chiesto perché
leggi così tanto tu gli hai dato una risposta
assolutamente non attendibile » esordisce.
Ora è il
mio turno di essere stupita: cosa c’entra quella domanda con
il mio garbato rifiuto?
Rimango a osservarlo,
mentre
continua a parlare: « Sì, la tua replica era
assolutamente
piena di buon senso… » sbuffa, liquidandola con un
gesto
vago, « ma non era quello che realmente pensavi, vero?
»
All’improvviso,
ciò che intende dire mi si dipana all’occhio della
mente con una certa chiarezza.
« No,
ma… »
«
Ascoltami, Haruhi…
» mormora lui, sporgendosi verso di me, sempre sorridendo, ma
in
un modo… più serio, mi parrebbe (se una cosa
simile non
fosse un ossimoro). « Ora potresti dirmi perché leggi così tanto?
Intendo, la risposta autentica ».
La sua domanda mi
lascia così sconcertata che non posso fare a meno di dargli
seguito positivo.
«
Be’…
perché mi piace», dico; e, mentre lo
faccio, mi
rendo conto che, effettivamente, non è del tutto
così.
Lui annuisce,
incoraggiante.
«
E…? »,
continua. Come ha fatto a capire che non gli ho detto tutto?
È
forse una specie di mago?, o magari dall’esitazione nella mia
voce?
Come se la mia mente
si aprisse
davanti allo sguardo gentile ma non inquisitivo di Tamaki, fornisco in
un soffio (abbassando gli occhi) l’ultima risposta.
« Leggo per
legittima difesa» mormoro. E lui, di sottecchi, annuisce.
La mia infanzia
è stata
più o meno felice, ma tremendamente solitaria. Dal momento
in
cui mia madre è morta, e mio padre ha improvvisamente
scoperto
le sue vere
tendenze,
ho smesso di avere amici.
L’innocenza,
la naturale
gentilezza dei bambini è una leggenda metropolitana: in
realtà, i fanciulli sono crudeli.
Si rendono conto
subito se hai
qualcosa di diverso, e trovano incredibilmente divertente prenderti in
giro per questo. Deriderti. Parlarti alle spalle. Renderti la vita una
cosa sgradevole, piena di incerti e insicurezze.
Questo è
ciò che mi accadde quando la mia famiglia smise di essere
una famiglia
normale:
mia madre morta, mio padre un travestito, io costretta a farmi carico
della conduzione del nostro ménage.
Non avevo amici, ma
trentacinque
persone in classe pronte a puntare il dito e a godere –
letteralmente – di ciò per cui io, segretamente,
ancora
soffrivo.
Fu allora, credo, che
mi resi
conto che, dal momento che non avevo più alcuna certezza
negli
altri (non in un padre troppo confuso e adolescente, certamente non nei coetanei
desiderosi solo di trasformarmi in uno zimbello) dovevo averne in me
stessa.
Lentamente, mi
indurii. Crebbi:
una bambina di otto anni che non piangeva e non si disperava, pronta a
farsi carico di responsabilità che avrebbero anche potuto
piegare degli adulti.
Piano piano, divenni
insensibile
(o, meglio, imparai a mascherare sotto strati e strati di distacco la
mia sensibilità). Ai bisogni del corpo, ma non della mente.
Mi piacerebbe dire
che trovai nei
libri quella compagnia, quel conforto che desideravo, nascosti tra le
loro pagine leggere e profumate, che mi sorridevano da dietro le linee
armoniose di ogni carattere, ma non è così.
La pura
verità era che,
vedendomi leggere, nessuno mi sarebbe venuto a disturbare con prese in
giro, risate o altri sgradevoli contatti. La pura verità era
che
leggevo per
difendermi.
Fu così
che divenni la prima
della classe:
un titolo che, più ch’essere un merito, divenne
per me un usbergo d’amianto dietro cui trincerarmi.
Questo meccanismo
d’isolamento, in cui i libri si trasformavano in un comodo
paracadute posto tra me e l’umanità,
continuò anche
quando andai alle medie.
Lì mi feci
qualcosa di
simile alle amiche, a una compagnia con cui trascorrere il tempo
libero. Un po’ riuscii a sciogliermi, a diventare meno
strana,
fredda, insensibile.
Tuttavia, quando
iniziai a rendermi conto che alcuni ragazzi erano interessati a me ma
non solo per la mia amicizia, quel
distacco manifestato un tempo tornò a palesarsi.
Temo, con gli anni,
di aver perso qualsiasi fiducia nelle possibilità del corpo.
Mia madre era una
donna
meravigliosa, brillante e capace, che era stata tradita dal proprio
corpo: un corpo che si era ammalato, che non aveva reagito alle cure.
Mio padre era un uomo
allegro,
bizzarro, forse un po’ immaturo, che era stato preso in giro
dal
proprio corpo, e solo dopo la morte di mia madre si era reso conto che
avrebbe preferito essere una donna.
Io? Non era stato
certo il mio
corpo a salvarmi dall’esistenza grama e solitaria che avevo
condotto da bambina. Era stato il mio cervello: solo quello contava.
Il mio corpo non
doveva essere desiderato: io non ero carina.
Io ero intelligente. Io meritavo
incontestabilmente la corona di prima
della classe,
prima per i voti, prima per la condotta. Ma non ero bella. Io ero
intelligente.
Leggere era
l’attività principe, quella che gridava a tutti
questa realtà: io ero quella intelligente.
Chi cercava una
carina, andasse altrove.
Il sorriso di Tamaki
non
s’incrina minimamente, mentre mi alza delicatamente il mento
con
una mano, piantando i suoi occhi nei miei.
Non mi sono mai resa
conto, in
effetti, di quanto possa essere penetrante il suo sguardo, dietro il
velo stolido con cui lo ammanta di solito.
« Ho
capito» afferma, con voce gentile. E, per una volta, ho
l’impressione che abbia compreso sul serio.
Mi porge con gesto
garbato, un mezzo inchino addirittura, il pesante volume del Genji
Monogatari.
« Accettalo
» dice, e
la sua non è una preghiera o una richiesta, ma un semplice
dato
di fatto. Non posso fare a meno di prenderlo.
« Sai,
» comincia,
mentre la macchina imbocca la mia via e inizia a rallentare,
« ho
pensato di regalarti questo volume non solo perché la tua
copia
è ormai da buttare… » osserva,
indicando la mia
cartella che giace a terra accanto a me, « ma
perché
è bella.
Non pensi anche tu? Il contenuto è lo stesso…
»
dice, picchiettandomi delicatamente un polpastrello sulla fronte,
mentre io lo fisso, esterrefatta, « la storia è la
stessa
di sempre, emozionante, romantica. Interessante e brillante.
Intelligente, » e qui mi sorge il dubbio che non stia
parlando precisamente del Genji, « ma bella. Anzi,
intelligente e bella. Una cosa non esclude
l’altra, ti pare? »
La macchina si ferma;
l’autista scende e mi apre la portiera.
«
Signore… » dice, con un inchino, invitandomi a
scendere.
Io, come ipnotizzata,
continuo a osservare Tamaki, vedendolo e non vedendolo.
Lui mi sorride, ma
ora il suo sorriso non è più quello vero: sembra
piuttosto il solito, scanzonato e allegro.
« Ci
vediamo domani! » esclama, salutandomi.
Io scendo dalla
limousine, con
passo da fantasma, vedendolo farmi “ciao-ciao” con
la mano
prima che i vetri oscurati salgano a celare la sua figura.
È solo
mentre la macchina
si allontana lungo la modesta via dove abito che mi rendo conto che
stringo ancora tra le braccia il prezioso volume del Genji
Monogatari.
***
Rodelinda alla tastiera senza
coerenza
La storia presente
è stata scritta per il fanfiction contest Host Club
ft. Woody Allen indetto
dal forum di scrittura amatoriale Writers Arena,
in cui si è classificata prima.
Incollo, a seguire, il giudizio di Virou,
il giudice:
Punteggio:
8.75
GRAMMATICA E SINTASSI: 9
Il testo è privo di errori; grammatica, sintassi e
punteggiatura sono curate e le frasi sono ben strutturate.
CAPACITA' ESPRESSIVA: 8.5
Lo stile è scorrevole e sempre curato e la narrazione ricca
di
descrizioni dettagliate che danno un tocco in più alla
storia,
alternandosi a parti narrative e dialogate interessanti ed incalzanti.
I dialoghi, in particolare, rendono la lettura vivace e non mancano
delle battute sottili e divertenti: ad esempio, la citazione di Allen
su "Guerra e Pace", detta da Kaouru, risulta veramente spassosa e
confesso di essermi sbellicata dalle risate.
RISPETTO PARAMETRI E
TRACCIA: 9
I parametri sono stati rispettati alla perfezione e in modo originale
ed elaborato. Le citazioni inserite sono addirittura tre (non era
richiesto, ma non era nemmeno vietato) e tutte sono state inserite ad
hoc all'interno della fanfiction, lasciando che i personaggi se ne
appropriassero quasi spontaneamente. La prima, pronunciata da Haruhi,
è una spietatissima battutina lanciata a Tamaki, per
zittirlo, e
produce un effetto immediato e letale.
La seconda, menzionata nel parametro precedente, è
pronunciata
da uno dei gemelli Hitachin e risulta spassosissima; la terza, quella
su cui gira tutta la storia, è la più bella e
quella che
è stata modificata, ovvero resa più "seria" e
utilizzata
nel modo più approfondito.
ORIGINALITA' E
CREATIVITA': 8.5
La trama, seppur semplice, è originale e l'alternaza
equilibrata
tra parti descrittive e parti narrative rende la lettura piacevole e
scorrevole. I personaggi sono perfettamente IC e ben sviluppati, in
particolare, ovviamente, i due protagonisti e il rapporto che
c'è tra loro, ma in generale tutta la situazione: la povera
Haru
che cerca di studiare per mantenere la borsa di studio, l'Host Club
che, in un modo o nell'altro, le rende difficile l'impresa, Tamaki che
vuole a tutti i costi rendersi utile ma che peggiora le cose con i suoi
sproloqui, e poi la scena finale in cui il ragazzo smette per un attimo
di fare l'idiota e dimostra quanto effettivamente tenga ad Haruhi con
un "piccolo" (per lui XD) gesto.
Ho apprezzato particolarmente il paragrafo dedicato alle riflessioni e
ai ricordi di Haruhi che partono dalla citazione di Woody Allen: qui si
scopre un lato più sensibile e malinconico della ragazza,
che
nel manga viene rivelato solo di rado e solo per pochi attimo, proprio
come in questa fanfiction, ma in un breve paragrafo ciò che
viene trasmesso al lettore ha un forte significato e gli permette di
conoscere un po' di più la protagonista.
Il bando del
concorso prevedeva l'inserimento di alcune citazioni di Woody Allen (a
scelta in una rosa di diverse) all'interno della storia; quelle che ho
scelto sono state le seguenti:
« Ho preso
lezioni di lettura veloce ed adesso sono capace di leggere Guerra e
Pace in venti minuti. Parla della Russia ».
«
Il
vantaggio di essere intelligente è che si può
sempre fare
l'imbecille, mentre il contrario è del tutto
impossibile ».
«
Leggo per legittima difesa ».
Pertanto
tali battute sono da ascriversi al genio di Woody Allen (e,
occasionalmente, dei suoi sceneggiatori). Io le ho utilizzate, come i
personaggi del manga Host Club, © di Bisco Hatori, del tutto
senza
fini di lucro e con l'unico intento di divertire e passare qualche
significato a me, e, spero, a voi.
Ah, e per una miglior visualizzazione della storia, consiglio di
scaricare (non temete, del tutto gratuitamente) qui
il carattere Mutlu Ornamental, che ho usato per il titolo, e qui
il carattere Garamond che ho usato per il corpo del testo.
Alla prossima!
|